mercoledì 23 dicembre 2015

Rivoglio Babbo Natale ed essere un pipistrello.


Per me Babbo Natale ha smesso di esistere quando a 6 anni gli scrissi la letterina chiedendo Bugs Bunny, precisando che lo volevo non commestibile, perché i conigli del cortile erano finiti, per uno strano fenomeno di trasmigrazione, nel tegame di mia madre con olive e finocchietto selvatico. La notte del 23 mi svegliai perché mi scappava la pipì, mi alzai lentamente per non svegliare nessuno ma la luce della cucina era accesa e mi fermai a origliare, curiosa come una faina. Pensai che Babbo Natale fosse arrivato con un giorno di anticipo...che bello! Invece sentii i miei genitori che parlavano “Ma cos'è Bugs Bunny? -Dai, è un coniglio! -Dove lo trovo? Neanche so com'è fatto! -Tu dici “Bagsbanni” e quelli del negozio sanno cos'è! -Costa tanto? -Non so -Quanto abbiamo? Bastano per fare il regalo a tutti i figli? -Sono questi. -Forse non bastano -Prendilo piccolo Bugs Bunny -Piccolo? Sarà bello lo stesso?...”
Tornai a letto senza fare la pipì, rischiando che la mia vescica esplodesse dando vita a spruzzi variegati come la fontana del Tritone. Non dormii più: quello stronzo di Babbo Natale non esisteva e io mi sentivo in colpa per aver chiesto un regalo stupido che costava un sacrificio. Non sapevo che i soldi fossero importanti, come in tutte le case di chi lavora in campagna, non mancava mai nulla: carne, verdure fresche, frutta, formaggio, salumi, pasta fatta in casa, dolci buoni e fragranti. Io poi avevo tutto: fumetti nel comodino, libri sparsi in ogni angolo e fuori dal portone c'erano alberi, animali, prati e mare. Avevo tutto e a me piaceva correre e saltarci dentro in quel tutto. Peraltro non giocavo mai con le bambole: le appendevo al muro come un trofeo ma le trovavo vuote. Molto meglio i girini del fiume o i pulcini pelosi. Allora perché avevo chiesto quel pupazzo? Il 25 trovai Bugs Bunny sotto l'albero, quello piccolo, dissi che era bellissimo e mi venne da piangere “Cosa c'è? Non ti piace perché è piccolo?”, “No no mamma, lo volevo proprio piccolo, piango perché è bellissimo” e mi fiondai fuori dal portone con dietro l'urlo di mia madre “Non uscireeeee! Sta piov...” troppo tardi, ero già fuori in mezzo a una pioggia torrenziale che mi aspettavo Noè con due piccoli serpenti e l'aquila reale dietro l'angolo. Scappai da nonna, fu una fuga breve: abitava a fianco. “Ciao nonna, buon Natale!”, “Figlia mia! Auguri, a cent'anni e mi raccomando: studia!”. Studia, sempre studia: come se fino ad allora avessi potuto fare altro se non studiare. Mia madre era maestra e mi portava con lei a scuola da quando ero nata, ho visto prima la lavagna che il biberon e a 4 anni sapevo leggere, scrivere e fare le operazioni. “Cosa ti ha portato Babbo Natale?”, “Niente”, “Niente? Come niente?? Sei sicura?”, “Babbo Natale non mi ha portato nulla, ma mamma e papà mi hanno comprato Bugs Bunny”, “Ah.... Come cresci in fretta figlia mia, Dio ti benedica!”. Sul tavolo enorme in un angolo, c'era una tovaglietta con un pezzo di pane, del formaggio, una mela e una scatolina di metallo: era la colazione di mio nonno che ancora non era rientrato dalla campagna. Nonna era preoccupata, era tardi, pioveva, doveva mangiare e fare l'insulina con la siringa della scatola di metallo. Mio nonno per me era l'uomo del mistero dalle mani screpolate. Era l'uomo della siringa che bolliva e delle zollette di zucchero nella tasca. Quando mia madre aveva le riunioni a scuola mi lasciava con nonna e andavo con lei al fiume a fare il bucato con la lisciva o a innaffiare l'orto. Ma quando nonno era particolarmente pallido e stanco, nonna mi chiedeva di andare con lui in campagna e se cadeva per terra dovevo mettergli in bocca una delle zollette di zucchero che teneva in tasca, racchiuse in un fazzoletto a righe. Forse perché era molto goloso, sicuramente era così, e doveva fare l'insulina nella siringa perché era troppo goloso. Ma non ne ero certa ed era tutto misterioso per me. Alla fine arrivò, entrò in casa portandosi dietro tutta la pioggia che aveva incontrato, i pantaloni di fustagno incollati, il gilet di velluto che perdeva acqua da ogni piega e le mani gocciolavano come un rubinetto rotto. “Nonno buon Natale, corri a mangiare l'insulina”, “Buon Natale...cosa ti ha portato Babbo Natale?”, “Babbo Natale non esiste, lo sai bene” risposi accigliata. Lui rise “Si vede che sei la più sveglia...il nostro pipistrello!” e mi scompigliò i capelli lasciandomeli bagnati di pioggia e fatica. I miei nonni mi chiamavano “pipistrello” e non era un dispregiativo. In sardo “pipistrello” è femminile e si chiama “alipedde”, che letteralmente significa “ali di pelle”. Mi chiamavano così perché saltavo sempre, ho imparato prima a saltare che a camminare, ero piccola e magra, capelli corvini e sembrava che tracciassi le traiettorie scomposte del pipistrello nel mio volteggiare nelle strade. Mi rendo conto che crescendo il mio appellativo potrebbe essere sempre “pipistrello” ma per motivi meno poetici e più nefandamente estetici. Dal momento in cui nonno e tutti i figli maschi tornavano dalle campagne...allora era Festa! Con la F maiuscola! Nonna e tutte le zie correvano come formiche per preparare il pranzo, il camino ardeva di brace con graticole piene di carne, la pentola grandissima che faceva borbottare un sugo delizioso, nonna che impastava, il profumo dei dolci tradizionali e della torta. In quella cucina/sala da pranzo/cantina/ludoteca gigante sarebbero entrati tutti e 12 i figli con 36 nipoti, mogli, nuore, suocere, amici, figliocci, padrini e madrine di tutta quella famiglia esageratamente prolifica. Ovviamente a turno, perché per accoglierli tutti sarebbe stato necessario un tendone da circo, e non solo per la capienza ma anche per i personaggi stravaganti e originali che vi stazionavano: c'era chi veniva a pranzo, chi nel pomeriggio e chi per cena. Era una festa grandissima, io vedevo i miei 35 cugini, alcuni avevano già dei figli e per me non erano ulteriori cugini. Per me era un circo vero, giocavamo e ridevamo di tutto e di niente: tutti i bambini del mondo dovrebbero fare solo questo, relegando le lacrime e il dolore a un pacco da scartare in età adulta. Quel giorno il senso di colpa del mio regalo non condizionò affatto il mio divertimento: avevo deciso che non avrei più chiesto regali e che avrei scoperto perché quei maledetti soldi erano così importanti, e magari darli a mia madre per comprare cose importanti, non giochi, perché per essere felici a noi non servivano le bambole. Io ero felice e il Natale era carezze, abbracci, profumo di zucchero e lievito, voli di pipistrello e guance rosse da baciare.
Da quel giorno ogni Natale ebbe qualche nota stonata, mia nonna pregava ostinatamente che Dio l'aiutasse ma qualche sedia cominciava a rimanere vuota, a partire da quella di mio nonno, e poi qualche figlio ancora giovane, e quei posti, vuoti per sempre, occupavano tutto lo spazio della casa e non c'era più un perimetro disponibile per la festa. Io a 16 anni cominciai la mia carriera di studentessa lavoratrice: studiavo perché era l'unica cosa che sapevo fare, ma questo costava e io avevo capito molto presto l'importanza dei soldi, e ogni Natale, Capodanno o festa comandata, lavoravo in qualche ristorante. Era un buon modo per non pensare a quelle sedie vuote e alle preghiere inascoltate.
Dopo la laurea ho sempre lavorato come educatrice professionale negli angoli più disparati del “disagio” (chiamano così tutto ciò che è tragicamente distante dal Benessere). In ogni comunità, per minori o adulti, in ogni scuola e in ogni struttura per disabili, ho sempre provato un senso di incompletezza, di inutilità e di impotenza durante il periodo natalizio. Organizzare un cenone di Natale per i 10 ragazzi della comunità con 80 € di budget, cercare di nascondere l'assenza di una madre che non sarebbe venuta a prendere il figlio, inventare un regalo da mettere sotto l'albero con zero euro nel borsellino, tirare le somme di un bilancio striminzito e scoprire che non ce la farai a dare un sussidio o un'assistenza domiciliare. L'impotenza che si mescolava alla “magica” atmosfera natalizia rendendo tutto acido e insapore. Mi rendevo conto che per me il Natale era solo una vetrina dove potevo guardare le miserie del mondo, e mentre quei ragazzi sognavano un cenone coi fiocchi “perché è Natale, cazzo! A Natale dobbiamo essere felici, siiiii!”, io non ho avuto il coraggio di dir loro che in cassa avevamo pochissimi soldi, e ho odiato il Natale, il perché deve essere così importante, perché non può essere una giornata normale. E con tutta l'impotenza che riuscivo a contenere, mi son dannata l'anima pur di dare a quel loro Natale tanto atteso una spolverata di glitter di ultima categoria, che almeno sapesse di luce dorata e caldo.
Non sono di quelle che odiano il Natale, sono sinceramente contenta quando vedo i bambini felici, come lo ero io, perché il Natale dovrebbe essere la festa di tutti i bambini, e devono essere felici, tutti. Ma io non riesco più a godere di quella spensieratezza. Vedo sempre meno una festa e sempre più un'ingiusta corsa allo spreco e all'ostentazione. Penso sempre che facciamo regali costosi e inutili che ricicleremo al prossimo compleanno, che dobbiamo ostentare allegria con persone che non ci inculiamo per tutto l'anno, che dobbiamo mangiare benissimo perché è Natale, che facciamo copia/incolla di un messaggio di auguri da spedire a tutta la rubrica, tutti uguali e livellati. Molti, troppi, odiano il pranzo di Natale in famiglia quanto una cartella Equitalia, ed io sono felice per loro, perché evidentemente non sanno quanto sia doloroso il vuoto di non averla più una famiglia.
Oggi sono andata al supermercato e davanti a me c'era un signore che arrivato alle casse ha messo sul banco 3 candele arancione, ha chiesto alla cassiera se avevano candele bianche e lunghe, le steariche, che costavano poco, perché gli avevano staccato la luce. La cassiera ha detto no, non le avevano, avevano solo quelle profumate. Lui cercava di spiegare che quelle candele profumate gli sarebbero durate un paio d'ore, erano troppo piccole. No, non ne abbiamo altre. Alla fine ha pagato ed è andato via. Sono rimasta immobile col mio carrello di inutilità, senza poter fare nulla. Sono uscita e nel parcheggio c'era un gigantesco albero di Natale che scintillava di luci azzurre, le strade piene di luminarie, tutto splendente e luminoso. L'uomo delle candele non c'era più. E tutte quelle luci sembravano un pugno in pieno viso per qualcuno che in casa aveva solo 3 candele alla pesca per far luce. Non voglio fare l'ipocrita: l'iniqua distribuzione di benessere e felicità è sempre esistita e sempre esisterà, non c'è solo a Natale. Ma a Natale questa disparità diventa dolorosamente più evidente, come se qualcuno passasse sopra alcune persone un velo di vernice fosforescente e tu non puoi che girarti a guardare quella riga maldestra di evidenziatore. Perché se un mercoledì di Ottobre esci da lavoro e cammini per Roma o Milano li vedi tutti di corsa che tornano a casa, chi incazzato, chi ansioso. E quello che ha 3 candele come illuminazione domestica c'è anche quel giorno di Ottobre, ma tu non lo vedi, perché anche tu hai i cazzi tuoi per la testa, il tram che non passa, lo stipendio che non arriva, il lavoro che stai per perdere, la casa da pulire e il telefono da ricaricare. Ma se esci il mercoledì prima di Natale a Roma o a Milano, vedi la corsa ai regali, fiumi di gente che passeggiano sotto le luci scintillanti, i bambini felici (sono bellissimi!), le file nei negozi, le coppie che scelgono i regali. È meraviglioso! Però quell'uomo delle 3 candele è sempre lì, e lo noti di più perché è il contraltare della tua busta stracolma di regali inutili che qualcuno non apprezzerà. E possiamo fare ben poco affinché questa bilancia sbilanciata si raddrizzi.
Quest'anno ho deciso di non lavorare. Ho preso due mesi “sabbatici” per ricaricare le batterie. Ho sempre avuto, e ho anche adesso, la possibilità di passare un Natale meraviglioso, ma passerò un Natale normale, come tutti quelli precedenti: mangerò bene perché mangio bene tutti i giorni, non solo a Natale. Come sempre non farò regali perché da sempre faccio regali quando lo sento e soprattutto, quando le mie finanze me lo permettono, e a Natale non me lo hanno mai permesso. Farò l'albero di Natale perché ci sono abituata, ai miei gatti piacciono le lucine intermittenti, e poi è l'unico momento dell'anno dove posso togliere quella scatola pesante da sopra lo scaffale e spolverarci sotto. Come ogni anno chiamerò mia madre e la mia famiglia, chiuderò il telefono e mi verrà da piangere pensando a quanto sono lontani e a quanto la mia sedia vuota peserà quel giorno. Io sono abituata ad avere 5 sedie vuote a casa, tutti i giorni. Mi mancherà qualcuno che mi dice “Studia!” e che mi chiama “alipedde”. Guarderò sempre a quanto spazio vuoto c'è nella mia strada e non mi accorgerò di quello che ho riempito. Perché sono una nostalgica del cazzo e perché ho sempre un fottuto senso di colpa nei confronti di chi quel giorno non avrà neanche una candela per illuminare la sua giornata. Come ogni anno il mio compagno mi farà il regalo nonostante la promessa di non farcelo. Ma lui me lo farà trovare sotto l'albero. Io gli farò il solito pippone sullo “spreco consumistico natalizio, frutto di una società squilibrata volta alla superflua soddisfazione di bisogni inesistenti e...” lui mi dirà “vaffanculo!” e mi sbatterà sul divano e giocheremo a hockey orizzontale, previo riscaldamento con curling tonsillare. Sarà una lunga giornata di auguri e sorrisi. Sarà l'occasione per guardare il cellulare, rispondere “Buon Natale anche a te...ma scusa ho perso tutti i numeri in rubrica, chi sei?”. Sarà il giorno in cui io e Setayesh ci scambieremo gli auguri di un felice Natale, nonostante lei sia musulmana e io atea: è la magia del Natale. E mi chiederò mille volte perché ho quel velo di malinconia stretto nella gola come un foulard. Perché sono un'imbecille integrale, fanculo, non riesco a godermi questo inutile tutto, e farei come quel sindaco che passò nel mio ufficio dei servizi sociali e disse “A la leàre in culu e a passare bonas festas!” (i sardi capiranno!).
Ma io lo so, mi volterò spesso a guardare dalla parte di quelli che qualcuno ha imbrattato con la vernice fosforescente. E spero che cada la pioggia a lavare quelle macchie. O che scenda la neve a coprire le nostre miserie. Oppure che le lacrime possano lavare via il dolore.
E che sia un Buon Natale, per Tutti.