Per me Babbo Natale
ha smesso di esistere quando a 6 anni gli scrissi la letterina
chiedendo Bugs Bunny, precisando che lo volevo non commestibile,
perché i conigli del cortile erano finiti, per uno strano fenomeno
di trasmigrazione, nel tegame di mia madre con olive e finocchietto
selvatico. La notte del 23 mi svegliai perché mi scappava la pipì,
mi alzai lentamente per non svegliare nessuno ma la luce della cucina
era accesa e mi fermai a origliare, curiosa come una faina. Pensai
che Babbo Natale fosse arrivato con un giorno di anticipo...che
bello! Invece sentii i miei genitori che parlavano “Ma cos'è Bugs
Bunny? -Dai, è un coniglio! -Dove lo trovo? Neanche so com'è fatto!
-Tu dici “Bagsbanni” e quelli del negozio sanno cos'è! -Costa
tanto? -Non so -Quanto abbiamo? Bastano per fare il regalo a tutti i
figli? -Sono questi. -Forse non bastano -Prendilo piccolo Bugs Bunny
-Piccolo? Sarà bello lo stesso?...”
Tornai a letto senza
fare la pipì, rischiando che la mia vescica esplodesse dando vita a
spruzzi variegati come la fontana del Tritone. Non dormii più:
quello stronzo di Babbo Natale non esisteva e io mi sentivo in colpa
per aver chiesto un regalo stupido che costava un sacrificio. Non
sapevo che i soldi fossero importanti, come in tutte le case di chi
lavora in campagna, non mancava mai nulla: carne, verdure fresche,
frutta, formaggio, salumi, pasta fatta in casa, dolci buoni e
fragranti. Io poi avevo tutto: fumetti nel comodino, libri sparsi in
ogni angolo e fuori dal portone c'erano alberi, animali, prati e
mare. Avevo tutto e a me piaceva correre e saltarci dentro in quel
tutto. Peraltro non giocavo mai con le bambole: le appendevo al muro
come un trofeo ma le trovavo vuote. Molto meglio i girini del fiume o
i pulcini pelosi. Allora perché avevo chiesto quel pupazzo? Il 25
trovai Bugs Bunny sotto l'albero, quello piccolo, dissi che era
bellissimo e mi venne da piangere “Cosa c'è? Non ti piace perché
è piccolo?”, “No no mamma, lo volevo proprio piccolo, piango
perché è bellissimo” e mi fiondai fuori dal portone con dietro
l'urlo di mia madre “Non uscireeeee! Sta piov...” troppo tardi,
ero già fuori in mezzo a una pioggia torrenziale che mi aspettavo
Noè con due piccoli serpenti e l'aquila reale dietro l'angolo.
Scappai da nonna, fu una fuga breve: abitava a fianco. “Ciao nonna,
buon Natale!”, “Figlia mia! Auguri, a cent'anni e mi raccomando:
studia!”. Studia, sempre studia: come se fino ad allora avessi
potuto fare altro se non studiare. Mia madre era maestra e mi portava
con lei a scuola da quando ero nata, ho visto prima la lavagna che il
biberon e a 4 anni sapevo leggere, scrivere e fare le operazioni.
“Cosa ti ha portato Babbo Natale?”, “Niente”, “Niente? Come
niente?? Sei sicura?”, “Babbo Natale non mi ha portato nulla, ma
mamma e papà mi hanno comprato Bugs Bunny”, “Ah.... Come cresci
in fretta figlia mia, Dio ti benedica!”. Sul tavolo enorme in un
angolo, c'era una tovaglietta con un pezzo di pane, del formaggio,
una mela e una scatolina di metallo: era la colazione di mio nonno
che ancora non era rientrato dalla campagna. Nonna era preoccupata,
era tardi, pioveva, doveva mangiare e fare l'insulina con la siringa
della scatola di metallo. Mio nonno per me era l'uomo del mistero
dalle mani screpolate. Era l'uomo della siringa che bolliva e delle
zollette di zucchero nella tasca. Quando mia madre aveva le riunioni
a scuola mi lasciava con nonna e andavo con lei al fiume a fare il
bucato con la lisciva o a innaffiare l'orto. Ma quando nonno era
particolarmente pallido e stanco, nonna mi chiedeva di andare con lui
in campagna e se cadeva per terra dovevo mettergli in bocca una delle
zollette di zucchero che teneva in tasca, racchiuse in un fazzoletto
a righe. Forse perché era molto goloso, sicuramente era così, e
doveva fare l'insulina nella siringa perché era troppo goloso. Ma
non ne ero certa ed era tutto misterioso per me. Alla fine arrivò,
entrò in casa portandosi dietro tutta la pioggia che aveva
incontrato, i pantaloni di fustagno incollati, il gilet di velluto
che perdeva acqua da ogni piega e le mani gocciolavano come un
rubinetto rotto. “Nonno buon Natale, corri a mangiare l'insulina”,
“Buon Natale...cosa ti ha portato Babbo Natale?”, “Babbo Natale
non esiste, lo sai bene” risposi accigliata. Lui rise “Si vede
che sei la più sveglia...il nostro pipistrello!” e mi scompigliò
i capelli lasciandomeli bagnati di pioggia e fatica. I miei nonni mi
chiamavano “pipistrello” e non era un dispregiativo. In sardo
“pipistrello” è femminile e si chiama “alipedde”, che
letteralmente significa “ali di pelle”. Mi chiamavano così
perché saltavo sempre, ho imparato prima a saltare che a camminare,
ero piccola e magra, capelli corvini e sembrava che tracciassi le
traiettorie scomposte del pipistrello nel mio volteggiare nelle
strade. Mi rendo conto che crescendo il mio appellativo potrebbe
essere sempre “pipistrello” ma per motivi meno poetici e più
nefandamente estetici. Dal momento in cui nonno e tutti i figli
maschi tornavano dalle campagne...allora era Festa! Con la F
maiuscola! Nonna e tutte le zie correvano come formiche per preparare
il pranzo, il camino ardeva di brace con graticole piene di carne, la
pentola grandissima che faceva borbottare un sugo delizioso, nonna
che impastava, il profumo dei dolci tradizionali e della torta. In
quella cucina/sala da pranzo/cantina/ludoteca gigante sarebbero
entrati tutti e 12 i figli con 36 nipoti, mogli, nuore, suocere,
amici, figliocci, padrini e madrine di tutta quella famiglia
esageratamente prolifica. Ovviamente a turno, perché per accoglierli
tutti sarebbe stato necessario un tendone da circo, e non solo per la
capienza ma anche per i personaggi stravaganti e originali che vi
stazionavano: c'era chi veniva a pranzo, chi nel pomeriggio e chi per
cena. Era una festa grandissima, io vedevo i miei 35 cugini, alcuni
avevano già dei figli e per me non erano ulteriori cugini. Per me
era un circo vero, giocavamo e ridevamo di tutto e di niente: tutti i
bambini del mondo dovrebbero fare solo questo, relegando le lacrime e
il dolore a un pacco da scartare in età adulta. Quel giorno il senso
di colpa del mio regalo non condizionò affatto il mio divertimento:
avevo deciso che non avrei più chiesto regali e che avrei scoperto
perché quei maledetti soldi erano così importanti, e magari darli a
mia madre per comprare cose importanti, non giochi, perché per
essere felici a noi non servivano le bambole. Io ero felice e il
Natale era carezze, abbracci, profumo di zucchero e lievito, voli di
pipistrello e guance rosse da baciare.
Da quel giorno ogni
Natale ebbe qualche nota stonata, mia nonna pregava ostinatamente che
Dio l'aiutasse ma qualche sedia cominciava a rimanere vuota, a
partire da quella di mio nonno, e poi qualche figlio ancora giovane,
e quei posti, vuoti per sempre, occupavano tutto lo spazio della casa
e non c'era più un perimetro disponibile per la festa. Io a 16 anni
cominciai la mia carriera di studentessa lavoratrice: studiavo perché
era l'unica cosa che sapevo fare, ma questo costava e io avevo capito
molto presto l'importanza dei soldi, e ogni Natale, Capodanno o festa
comandata, lavoravo in qualche ristorante. Era un buon modo per non
pensare a quelle sedie vuote e alle preghiere inascoltate.
Dopo la laurea ho
sempre lavorato come educatrice professionale negli angoli più
disparati del “disagio” (chiamano così tutto ciò che è
tragicamente distante dal Benessere). In ogni comunità, per minori o
adulti, in ogni scuola e in ogni struttura per disabili, ho sempre
provato un senso di incompletezza, di inutilità e di impotenza
durante il periodo natalizio. Organizzare un cenone di Natale per i
10 ragazzi della comunità con 80 € di budget, cercare di
nascondere l'assenza di una madre che non sarebbe venuta a prendere
il figlio, inventare un regalo da mettere sotto l'albero con zero
euro nel borsellino, tirare le somme di un bilancio striminzito e
scoprire che non ce la farai a dare un sussidio o un'assistenza
domiciliare. L'impotenza che si mescolava alla “magica” atmosfera
natalizia rendendo tutto acido e insapore. Mi rendevo conto che per
me il Natale era solo una vetrina dove potevo guardare le miserie del
mondo, e mentre quei ragazzi sognavano un cenone coi fiocchi “perché
è Natale, cazzo! A Natale dobbiamo essere felici, siiiii!”, io non
ho avuto il coraggio di dir loro che in cassa avevamo pochissimi
soldi, e ho odiato il Natale, il perché deve essere così
importante, perché non può essere una giornata normale. E con tutta
l'impotenza che riuscivo a contenere, mi son dannata l'anima pur di
dare a quel loro Natale tanto atteso una spolverata di glitter di
ultima categoria, che almeno sapesse di luce dorata e caldo.
Non sono di quelle
che odiano il Natale, sono sinceramente contenta quando vedo i
bambini felici, come lo ero io, perché il Natale dovrebbe essere la
festa di tutti i bambini, e devono essere felici, tutti. Ma io non
riesco più a godere di quella spensieratezza. Vedo sempre meno una
festa e sempre più un'ingiusta corsa allo spreco e all'ostentazione.
Penso sempre che facciamo regali costosi e inutili che ricicleremo al
prossimo compleanno, che dobbiamo ostentare allegria con persone che
non ci inculiamo per tutto l'anno, che dobbiamo mangiare benissimo
perché è Natale, che facciamo copia/incolla di un messaggio di
auguri da spedire a tutta la rubrica, tutti uguali e livellati.
Molti, troppi, odiano il pranzo di Natale in famiglia quanto una
cartella Equitalia, ed io sono felice per loro, perché evidentemente
non sanno quanto sia doloroso il vuoto di non averla più una
famiglia.
Oggi sono andata al
supermercato e davanti a me c'era un signore che arrivato alle casse
ha messo sul banco 3 candele arancione, ha chiesto alla cassiera se
avevano candele bianche e lunghe, le steariche, che costavano poco,
perché gli avevano staccato la luce. La cassiera ha detto no, non le
avevano, avevano solo quelle profumate. Lui cercava di spiegare che
quelle candele profumate gli sarebbero durate un paio d'ore, erano
troppo piccole. No, non ne abbiamo altre. Alla fine ha pagato ed è
andato via. Sono rimasta immobile col mio carrello di inutilità,
senza poter fare nulla. Sono uscita e nel parcheggio c'era un
gigantesco albero di Natale che scintillava di luci azzurre, le
strade piene di luminarie, tutto splendente e luminoso. L'uomo delle
candele non c'era più. E tutte quelle luci sembravano un pugno in
pieno viso per qualcuno che in casa aveva solo 3 candele alla pesca
per far luce. Non voglio fare l'ipocrita: l'iniqua distribuzione di
benessere e felicità è sempre esistita e sempre esisterà, non c'è
solo a Natale. Ma a Natale questa disparità diventa dolorosamente
più evidente, come se qualcuno passasse sopra alcune persone un velo
di vernice fosforescente e tu non puoi che girarti a guardare quella
riga maldestra di evidenziatore. Perché se un mercoledì di Ottobre
esci da lavoro e cammini per Roma o Milano li vedi tutti di corsa che
tornano a casa, chi incazzato, chi ansioso. E quello che ha 3 candele
come illuminazione domestica c'è anche quel giorno di Ottobre, ma tu
non lo vedi, perché anche tu hai i cazzi tuoi per la testa, il tram
che non passa, lo stipendio che non arriva, il lavoro che stai per
perdere, la casa da pulire e il telefono da ricaricare. Ma se esci il
mercoledì prima di Natale a Roma o a Milano, vedi la corsa ai
regali, fiumi di gente che passeggiano sotto le luci scintillanti, i
bambini felici (sono bellissimi!), le file nei negozi, le coppie che
scelgono i regali. È meraviglioso! Però quell'uomo delle 3 candele
è sempre lì, e lo noti di più perché è il contraltare della tua
busta stracolma di regali inutili che qualcuno non apprezzerà. E
possiamo fare ben poco affinché questa bilancia sbilanciata si
raddrizzi.
Quest'anno ho deciso
di non lavorare. Ho preso due mesi “sabbatici” per ricaricare le
batterie. Ho sempre avuto, e ho anche adesso, la possibilità di
passare un Natale meraviglioso, ma passerò un Natale normale, come
tutti quelli precedenti: mangerò bene perché mangio bene tutti i
giorni, non solo a Natale. Come sempre non farò regali perché da
sempre faccio regali quando lo sento e soprattutto, quando le mie
finanze me lo permettono, e a Natale non me lo hanno mai permesso.
Farò l'albero di Natale perché ci sono abituata, ai miei gatti
piacciono le lucine intermittenti, e poi è l'unico momento dell'anno
dove posso togliere quella scatola pesante da sopra lo scaffale e
spolverarci sotto. Come ogni anno chiamerò mia madre e la mia
famiglia, chiuderò il telefono e mi verrà da piangere pensando a
quanto sono lontani e a quanto la mia sedia vuota peserà quel
giorno. Io sono abituata ad avere 5 sedie vuote a casa, tutti i
giorni. Mi mancherà qualcuno che mi dice “Studia!” e che mi
chiama “alipedde”. Guarderò sempre a quanto spazio vuoto c'è
nella mia strada e non mi accorgerò di quello che ho riempito.
Perché sono una nostalgica del cazzo e perché ho sempre un fottuto
senso di colpa nei confronti di chi quel giorno non avrà neanche una
candela per illuminare la sua giornata. Come ogni anno il mio
compagno mi farà il regalo nonostante la promessa di non farcelo. Ma
lui me lo farà trovare sotto l'albero. Io gli farò il solito
pippone sullo “spreco consumistico natalizio, frutto di una società
squilibrata volta alla superflua soddisfazione di bisogni inesistenti
e...” lui mi dirà “vaffanculo!” e mi sbatterà sul divano e
giocheremo a hockey orizzontale, previo riscaldamento con curling
tonsillare. Sarà una lunga giornata di auguri e sorrisi. Sarà
l'occasione per guardare il cellulare, rispondere “Buon Natale
anche a te...ma scusa ho perso tutti i numeri in rubrica, chi sei?”.
Sarà il giorno in cui io e Setayesh ci scambieremo gli auguri di un
felice Natale, nonostante lei sia musulmana e io atea: è la magia
del Natale. E mi chiederò mille volte perché ho quel velo di
malinconia stretto nella gola come un foulard. Perché sono
un'imbecille integrale, fanculo, non riesco a godermi questo inutile
tutto, e farei come quel sindaco che passò nel mio ufficio dei
servizi sociali e disse “A la leàre in culu e a passare bonas
festas!” (i sardi capiranno!).
Ma io lo so, mi
volterò spesso a guardare dalla parte di quelli che qualcuno ha
imbrattato con la vernice fosforescente. E spero che cada la pioggia
a lavare quelle macchie. O che scenda la neve a coprire le nostre
miserie. Oppure che le lacrime possano lavare via il dolore.
E che sia un Buon
Natale, per Tutti.