venerdì 27 dicembre 2013

La mia favola. Di parole e di sorrisi.

C'era una volta una bambina la cui caratteristica principale era la risata. Il padre diceva che quando rientrava da lavoro sentiva dalla strada la sua risata esplosiva, e non si sarebbe sorpreso se avesse sfondato la porta. La madre testimonia che quella bambina da piccola non camminava ma trotterellava. Saltava sempre come dovrebbero fare tutti i bambini: solo a loro spetta l'innocenza e l'incoscienza della vita, e solo i bambini riescono a fare voli pindarici seguendo la traiettoria di un calabrone stanco. La madre era un'insegnate e portava sua figlia con se a scuola: le baby sitter a quell'epoca erano impegnate a cercare marito e a zappare una terra avara. Quella bambina veniva riposta in una sedia con un quaderno davanti e sapeva di dover stare composta altrimenti la mamma si sarebbe alterata e la sera non avrebbe potuto sfogliare i fumetti. A 3 anni quella bambina era l'amore delle bidelle della scuola, perchè la madre aveva capito che era una grandissima scassa gonadi: quella nanetta suggeriva ai bambini di prima elementare le paroline che iniziavano con la lettera S, P e anche con la D. Quindi spesso le bidelle la prendevano in affidamento per evitare che la mamma insegnante avesse un travaso di bile e la schiantasse contro l'ardesia della lavagna. Il che avrebbe reso la lavagna meno tetra, a dire il vero. A 4 anni la ridente bambina scartavetrava ancora di più le tube di Falloppio, e suggeriva ai bambini di terza elementare la capitale dell'Umbria e il risultato di 57+15. Così la mamma si rassegnò e l'anno successivo iscrisse questa figlia rompipalle nella sua scuola, in una pluriclasse dove insegnante e alunna erano rispettivamente mamma e figlia. La noia attanagliava la bambina che in anni di presenza a scuola con la madre aveva imparato tutto il primo ciclo di scuola elementare, perciò finiva la paginetta delle A o delle F in così poco tempo che la madre le dava i fumetti per poterli leggere mentre gli altri finivano i compiti. Quando la mamma-maestra insegnava le addizioni elargendo agli alunni una quantità inestimabile di ceci, la bambina-figlia mangiava i ceci crudi e faceva i calcoli a mente. I suoi compagni non la vedevano come “la figlia della maestra” ma come una piacevole bambina che all'occorrenza ti suggeriva il terzo passo de La cavalla storna o la data della circumnavigazione del globo terrestre da parte di Magellano. Per tutta la durata delle elementari per la bambina fu noia a secchiate: il suo banco era attaccato al muro, vicino alla cartina dell'Africa; in quinta elementare, all'atto di dare l'esame finale, la bambina si rese conto che dalla cartina erano scomparse Johannesburg, Bloemfontein, i monti Drakensberg e Njesuthi, e anche i fiumi Molopo e Limpopo: erano stati consumati dalla sua stessa testa che poggiava, dormiente, contro il muro quando per la duecentesima volta la mamma-maestra spiegava che un'ara equivale a 100 metri quadrati e che 100 millilitri corrispondono a un decilitro o a 10 centilitri. La noia imperversava nelle molecole di ossigeno di quella classe, e la bambina cadeva in catalessi sul lago Sudafricano di Sibhayi. Alle medie fu libertà e scoperta: la mamma non c'era, i professori ridevano alle battute della ragazzina impertinente e casinara, spesso neanche si prendeva le giuste punizioni, disarmava con una battuta al vetriolo seguita da una spruzzata di cipria in un soffio di cotone idrofilo. I professori dicevano alla madre “è brava”. La madre della peste rimaneva sbigottita e rispondeva “Non è possibile, a casa non tocca libro!”. E da lì fu un classico susseguirsi di “è brava ma se si applicasse di più sarebbe geniale”. Ma alla bambina non gliene fregava nulla di essere genio e saltare le medie a piè pari. Quella bambina mangiava la vita, la mordeva voracemente e correva nei fiumi a catturare girini, raccoglieva more e ne faceva mosto per le formiche, scagliava sassi contro un muro per vederli frantumarsi nell'orizzonte e immaginava fossero esplosioni di stelle. Si, non era una bambina normale, era evidente. Quando arrivò lo scoppio adolescenziale quella ragazzina ne fu colpita in maniera devastante. La sua parlata si interruppe e cominciò a balbettare. Balbettava talmente tanto che quando entrava in un bar e diceva “buongiorno”, prima che concludesse quel saluto, si era già fatta sera e faceva prima a dire “buonanotte”. I professori non la capivano e per lei si aprì un inferno. Le interrogazioni erano torture dove le parole che aveva dentro non uscivano, si fermavano fra l'esofago e la lingua, l'aria si fermava e dalla bocca non usciva nessun suono. Il mutismo, logorante e devastante di un corpo minuscolo che aveva dentro miliardi di parole inespresse. I pensieri si accavallano, si attorcigliavano su se stessi senza trovare forma e spazio nell'atmosfera surreale di una qualsiasi classe di scuola superiore. “Profe-fessore, po-potrebbe f-f-farmi f-fare un c-c-ompito scritto inv-vece che in-terr-rogar-rmi?” - “Assolutamente no, se lo faccio con te, dovrei farlo con tutti, e io non ho tempo di correggere i compiti scritti” - “G-gr-razie p-prof-fes-ssore”. Non venne bocciata perchè probabilmente qualche Santo in paradiso si ricordò che anche lui non andava tanto bene a scuola e quindi si intromise in sede di scrutinio e diede uno schiaffo a tutti i professori, che la rimandarono “solo” in 4 materie. La ragazzina vide in quell'esame il suo fallimento, la sua incapacità di comunicare col mondo, e si chiuse in un volontario mutismo elettivo di chi non riesce a dare suono ai pensieri. E cominciò a scrivere. Pagine infinite di diario, quaderni e pezzi di carta sparsi ovunque, nella sua camera, nei bus e in ogni luogo dove c'era lei esisteva anche l'appendice di un brandello di carta sporcato da sterili gocce d'inchiostro. La madre rimaneva impotente davanti a quella figlia discola e ribelle che rifiutava ogni aiuto. Spesso la figlia rientrava a casa e vedeva la madre piangere con la testa appoggiata al camino che bruciava legna e sogni; e invece di correre ad abbracciare quelle lacrime si chiudeva in camera e imbrattava di parole fogli infiniti di carta straccia, di un diario muto che non la giudicava e sul quale le parole erano rotonde, senza sbavature e uscivano fluide, senza incepparsi sulla punta della penna. Ma il mondo ha bisogno di suono, della melodia della voce che intreccia parole come in una sinfonia. Il mondo lascia le parole scritte a chi possiede ali troppo grandi ed è incapace di starnazzare ma solo di volare. L'angoscia, il perenne senso di inadeguatezza, la solitudine fra la folla, i brividi che le percorrevano l'anima quando doveva usare il suono della voce davanti agli sconosciuti, spinsero quella ragazza nel punto più profondo del precipizio. I tanti amici la vedevano scivolare in qualche nuvola di fumo e in altro di proibito, “genio del cazzo, prima o poi riuscirai a parlare come si deve, e se non dovesse succedere ti prendiamo anche così, con questa tua stronzaggine di negarti”. E cercare la fine dei battiti, sognare il buio, desiderarlo, provarlo sulla propria pelle, imprimerlo nella sua vita come un marchio che non sarebbe più andato via...e si ritrovò un giorno nuda, tremante, in posizione fetale, rannicchiata nell'angolo buio della sua stanza, circondata da fogli muti...si avvicinò allo specchio, si guardò e disse “S-s-sono uov-vo e diven-n-nterò up-pu-p-pa”. E ripetè quella frase guardandosi negli occhi finchè non riuscì a dirla bene “Sono uovo e diventerò upupa”. E mentre vomitava quella frase liscia piangeva ed era felice. Ogni giorno prendeva il dizionario, si metteva davanti allo specchio e pronunciava parole a caso, finchè non uscivano fluide, lisce “episte-mologia, epistemologia, esec-rabile, esecrabile, puer-pera, puerpera, alie-nabile, alienabile, pro-pe-deuti-co, propedeutico”. Cominciò a parlare con se stessa, più in là avrebbe parlato col mondo. Dopo il diploma striminzito prese qualche anno di pausa dove sfiorò i bordi della sua bolla di sapone...e trovò parole per tutti. Più tardi scelse una facoltà umanistica perchè decise che voleva aiutare gli altri. Uscì dal mutismo guardandosi negli occhi, polverizzò la balbuzie scrivendo e leggendo, diventò upupa, si laureò con 110 e lode e cominciò a lavorare nei servizi sociali negli angoli più bui dell'Italia. A 16 anni scrisse sulla porta del cesso della scuola “Ridere è una cura, sorridere è una guarigione”. Ebbe 3 giorni di sospensione con obbligo di frequenza. A 40 anni quella frase se la tatuò sul polso. Adesso è una donna di 41 anni con una logorrea incandescente che non conosce limiti, e nessuno direbbe mai che quella donna un tempo era muta e avara di parole per il mondo. In tutto questo non perse mai per un attimo la sua risata. E pian piano ha cominciato a sorridere, soprattutto di se stessa.

Quella bambina ero io, quella ragazzina ero io e quella donna sono io. Vi racconto questa mia favola affinchè ciascuno trasformi le sue debolezze in punti di forza, affinché da ogni sconfitta riusciate a trarne fuori il massimo vantaggio. Oggi parlo spedita come un treno in corsa, ma ho paura di cadere perché mi rendo conto che non so camminare bene. Una persona è monade e si basta, due persone sono coppia e solitudine camuffata, tre persone sono gruppo e dispersione, quattro o più persone sono folla della quale ancora ho paura. E ogni tanto quando sono fra la gente la mia lingua non emette suono e si inceppa, e un brivido mi corre sulla pelle e ho paura di tornare muta. Vivo di sfide e cerco l'impossibile, il limite di me stessa. In un albero di mele dolci e succose scelgo sempre quella acerba e secca che sta in cima, incapace di saziarmi, e mi piace arrampicarmi per andare a coglierla, incurante di una possibile caduta e della conseguente morte. Vivo di parole, mi piace cucirle insieme finché non diventano coriandoli di stoffa e scintille. Queste parole che sono la mia dannazione e il mio regalo più grande: scelgo sempre persone che non badano alle parole e si stancano di esse, e irrimediabilmente perdo chi amo, incapace come sono di stare zitta e accontentarmi del silenzio. Ma sono io: una minuscola goccia d'inchiostro su un foglio immenso di silenzio.

venerdì 15 novembre 2013

Voglio andare a vivere in Tanzania.

Una mattina mi svegliai e corsi in giardino a fumare una sigaretta. Già, perché a Londra è proibito fumare in quasi tutte le case. È proibito fumare anche nei parchi degli ospedali, sotto le pensiline del bus, nei cortili del college...si può fumare praticamente solo per strada. Vedi tutta questa gente che si butta in strada e smaniosa, accende la sigaretta come se la strada fosse il luogo ideale per farsi due tiri. Qua Anfora Nera per fumare il calumet della pace con Custer avrebbe dovuto schiodarsi dalla capanna e scendere fino a Cazzius Road per suggellare un armistizio fasullo con una sana pipata. Ergo, uscii in giardino e accesi la prima sigaretta della giornata. Il prato era cosparso di scatole di sardine vuote, di latte, di birra e altra spazzatura del coinquilino, che mangia sano quanto un detenuto ad Alcatraz. C'è da sapere che nel mio quartiere, chi possiede il giardino (nel retro della casa), ha sempre un contenitore per la spazzatura nel prato. Si, perché davanti a casa ci sono i bidoni per la differenziata ma la spazzatura si può mettere solo il giorno che passano a ritirarla. Ergo, non è che se io mangio una scatoletta di tonno me la devo tenere in casa finché non passano a ritirare le lattine, ovviamente la metto in giardino, manco a dirlo, altrimenti dentro casa ci sarebbe un lezzo paragonabile a quello della Cloaca Maxima. Così la facciata di casa resta pulita, mentre nel giardino dietro casa hai la spazzatura a quintali. Ma son problemi tuoi, te la tieni. Comunque la spazzatura era in giro per il prato, come se durante la notte avesse assunto sembianze umane e se ne fosse andata a spasso per il giardino. Non avevo neanche finito il pensiero che vedo passare davanti a me...una volpe. Nel mio giardino. Una volpe. Mentre fumavo. A Londra. Di mattina. Rimango con la sigaretta a mezz'aria come se avessi visto la regina madre in tanga che ballava la mazurka con Rocco Siffredi.
La volpe si ferma in mezzo al giardino e annusa una confezione vuota di ravioli in scatola. Ma siccome fanno schifo anche a lei, disgustata, si allontana. Poi si accorge di me. Alza lo sguardo e mi guarda. Io ero impietrita, il fumo nei polmoni non usciva  nonostante avessi la bocca spalancata come Glauco al Parco di Bomarzo. La volpe fece una faccia come per dire "caxxo ti guardi? Non hai mai visto una volpe, pirla che non sei altra?" Se avesse potuto mi avrebbe fatto persino una pernacchia, prima di girarsi e, comodamente, senza fretta, flemmatica, dirigersi verso la staccionata e saltarla a piè pari per andare indisturbata nel giardino del vicino che, come ben si sa, ha l'erba sempre più verde. Il mio vicino poi, essendo pakistano, ha l'erba più verde e più buona del quartiere, gliela invidiano in tanti e vengono persino a chiedergliela. Corsi alla staccionata per cercare la volpe e riuscii a vedere giusto la coda fluffotta e spumosa che spariva dentro un pertugio. Raccolsi i pensieri e le ciabatte zuppe di rugiada che avevo perso poco prima, e mi precipitai dentro casa alla velocità del neutrino, urlando "The foooooooox". Dentro c'era solo il coinquilino croato che, sornione, leggeva un quotidiano con la stessa aria interessata di chi contempla un flacone scaduto di Dash liquido. Sollevò lo sguardo e disse "O". Disse O senza acca, non quell'oohh bello, aspirato, pieno di sorpresa, ma O, semplicemente. Con lo stesso stupore che avrebbe avuto se gli avessi detto "Fuori piove". Identico. Allora insistetti "in The garden, there is a fox, the bin, the rubbish is in the ground, do you understand? Capisci? Volpe, fox, in giardino, tutto incasinato, understand?". Yes, disse yes. E basta. Odioso. Non mollai la preda e iniziai da capo ma mi bloccò, dicendo che le volpi a Londra sono comuni come in Italia gli spaghetti al pomodoro: in ogni casa c'è una volpe che passa una o più volte al giorno.
Mi raccontò una storia che ovviamente pensai di aver capito male vista la mia conoscenza dell'inglisc. Quando arrivò il coinquilino italiano gli riproposi la situazione, e lui mi confermò il tutto, compresa la storia che pensavo (speravo) di non aver capito bene. Pare che un giorno la coinquilina che occupava la mia stanza prima del mio arrivo, fosse uscita per qualche ora nel tardo pomeriggio, dimenticando la finestra aperta. Al suo rientro trovò sul suo letto una volpe che mangiava i resti di un piatto di carta che un tempo conteneva la sua cena. Quel letto adesso era il MIO letto, e in quel giaciglio una sera qualunque, una volpe aveva fatto orge bucoliche con dei sandwich al formaggio e bacon. Salii su, chiusi ermeticamente la finestra, smontai il letto e girai il materasso dall'altro lato, poi infilai il coprimaterasso e due paia di lenzuola, così da evitare che qualche traccia potesse toccarmi. Che poi magari sono docili, no? Si, sono timide dicono, sono shy. Dicono. Dopo qualche giorno presi un quotidiano e vidi una notizia allarmante: una bambina aveva trovato una volpe nella sua cameretta. L'articolo diceva che era stata fortunata perché tempo prima un bambino nella stessa situazione aveva avuto delle lesioni e qualche osso rotto in un incontro ravvicinato con la volpe. Ogni volta che uscivo in giardino ero guardinga come se fossi sotto il bersaglio di un cecchino. Uno di quei giorni uscii e trovai la spazzatura che tappezzava metà giardino. La volpe era stata lì. Mi voltai di scatto per vedere la finestra della mia camera...fffiiiuuuuu! Era chiusa! Raccolsi un barattolo di pomodoro Napolina e lo lancia dentro il cesto con la precisione di Michael Jordan dai 3 punti. Ma era mattina presto, avevo sonno a quintali, e il tiro uscì sbilenco come se a tirarlo fosse stato la cieca di Sorrento, e rimbalzò sul bordo. Al rumore dal cesto venne fuori, con un balzo degno di Andrew Howe, una bestia scura e pelosa. Io ruotai su me stessa e mi scaraventai dentro casa che neanche Bolt mi avrebbe potuto inseguire. Lanciai un urlo in Sol maggiore che tutto il vicinato avrà pensato che qualche sirena di allarme antiatomico si fosse incappata ad libitum.
Una volta dentro mi accorsi che la bestia era...un gatto. Un bellissimo gatto, che mi guardava come dire "ma perché non sei rimasta in Italia se volevi spaccare i timpani e le pelotas alla gente?". Uscii fuori, mi scusai col gatto e gli offrii una scatoletta di tonno. Accettò di buon grado e mi fece le fusa prima di fare la pipì sulla mia pantofola fucsia. Diventammo amici. Dopo due giorni la spazzatura era sparsa in maniera così armonica e spiritosa che quasi mi venne voglia di complimentarmi col gatto. O con la volpe. Neanche avevo messo il piede destro fuori dal gradino che vedo spuntare dal cesto una coda pelosa. Troppo pelosa per essere quella di un gatto. Quella cosa pelosa stava frugando fra le bottiglie di vino da mezza sterlina che comprano i miei coinquilini. Era la volpe, ne ero certa. Entrai dentro casa con un dietro front repentino che mi fece inciampare nello stipite e cadere di natica mollemente, ma con un tonfo autorevole, così come spetta a un deretano di un certo spessore. La bestia al rumore spuntò fuori e si precipitò verso il tronco dell'albero. Si fermò a metà e mi guardò: ero seduta per terra con un gran dolore all'osso sacro, la sigaretta spezzata in due fra le labbra, che cercavo, inutilmente, di rialzarmi. Era uno scoiattolo. Splendido. Mi guardava con aria pietosa, quasi volesse dire: ma tu a 41 anni ancora giochi a fare le capriole di culo? Non lo vedi che cadi, pirla?! Forse mi fece una pernacchia prima di scappare. Lo corteggiai per giorni con le noci. Le prendeva e scappava prima che riuscissi a toccarlo e a farle una foto. Dopo aver speso mezzo stipendio in noci e semini, un giorno mi fece la grazia di fermarsi a debita distanza, sgranocchiando una noce per farsi fare una foto. Ma uscì sfuocata, però ho la foto del mio amico peloso. Mi diede il contentino, lo squirrel infame. Diventammo amici. Un giorno lascio una scatoletta al gatto, il giorno dopo una noce per lo scoiattolo. Alla volpe niente.
Però ogni giorno raccolgo l'immondizia da ogni angolo, e non so chi sia stato dei 3 animaletti. Ho persino scoperto che è inutile mettere il coperchio sul cesto: dopo aver comprato 17 coperchi i coinquilini si sono arresi perchè, oltre a raccogliere l'immondizia, dovevano anche raccogliere i brandelli del coperchio fatto a pezzi dalla volpe. Ieri sera mentre deambulavo in direzione letto per assumere posizione marmotta, sento un peso sotto la pantofola. Pensai: non posso aver pestato una cacca dentro casa visto che il mio coinquipirla è fuori a cena, e poi non è così sottile come questa cosa che...cos'è??! Colla per topi??? Eeeeehhhhh?? In casa mia c'è un cartone con la colla per topi?? Perché?? Why?? Chiesi al coinquilino croato. Con l'entusiasmo e la partecipazione di chi toglie i pelucchi al Mocio, mi disse che era normale avere topi in casa visto che la casa era quasi tutta di legno, pavimento compreso. Ma che vor di'?!? Che dentro un seggiolone della Foppapedretti ci sono i topi perché è di legno?? No, i topi no, non ce la posso fare. Per la volpe ormai mi sono rassegnata a tenere la finestra chiusa in maniera imperitura. Il gatto e lo scoiattolo, vabbè, frantumano le gonadi, ché ogni giorno devi raccogliere monnezza anche dal filo per stendere, però siamo amici. Ma i topi non ce la posso fare.
Ieri ho sentito Gabriele, è in Tanzania per lavoro: consulenza aziendale import-export, 6 mesi di Africa. Ha riso per 3 ore dopo la storia dei topi. Mi ha detto: ma neanche qua in Africa ho i topi in casa, dove sei andata a vivere?!
A Londra o in qualche bidonville?! Ecco, tutto ciò mi ha fatto riflettere. E pensavo: la Tanzania...perché no? Why Not? Un posto dove non ci sono topi che circolano impunemente dentro casa...che posto civile! E il lavoro? Beh, potrei raddrizzare banane e lanciare un nuovo business: le banane dritte stanno meglio in frigo, rimangono più ordinate, sono più digeribili e si prestano a molteplici usi.
Amo la Tanzania.

giovedì 24 ottobre 2013

Sentirsi stranieri, feriti da parole nauseanti come la Marmite

Ieri mattina sono andata a lavorare nelle stanze degli incontri. Una giornata dove il mio tasso di rincolemia era ai massimi livelli: reduce da una notte di chiacchiere con Alex e Steven, finita tardissimo e alle 11 sono entrata a lavoro col mezzo neurone ancora in catalessi. Col mio sorriso da emiparesi ho cominciato a preparare il caffè. Non avevo aperto Twitter (inesauribile fonte di informazioni per gli italiani all'estero) non pensavo minimamente all'Italia. Da un po' di tempo mi sforzo di pensare in inglese. Immagino discussioni in inglese, cerco parole che mi mancano e provo a ripetere mentalmente, soffiando improbabili suoni, al fine di immagazzinarli nel mio encefalo forato. Dopo pranzo entrò Setayesh. Era diventata importante col passare del tempo. Splendida, eterea e diafana nel suo essere maledettamente scura. Un rapporto di parole non dette, di sguardi, di pelle, di protezione reciproca e similitudini che si intersecavano in chissà quale terra di nessuno. Mi disse che un ragazzo italiano di 19 anni era stato ucciso a Madistone, nel Kent, da un gruppo di ragazzi che avevano accusato lui ed il suo amico di essere italiani arrivati in UK a rubare il lavoro agli inglesi. Il primo pensiero è stato verso la madre di quel ragazzo, gli amici, i parenti, che lo hanno visto partire con una valigia di sogni e lo avrebbero rivisto dentro una scatola di legno, chiuso insieme ai sogni spenti. Pensai a mia madre e a tutte le madri che vedono partire i propri figli e guardando la TV, sentono il nome di una città, di quella città...all'angoscia che si portano dentro senza mai poterla esternare, senza mai poter esplodere in un boato di rabbia disperata: rocce imponenti e sicure, ma friabili se sfiorate nell'anima. Non riuscivo a dire una parola, incapace di partorire alcun pensiero. Mi disse che lo aveva detto Bryan, il dirigente della filiale in Italia, quello che sa tutto del nostro stivale. Era venuto in reception a riferire la notizia, chiedendo alla boss di essere comprensiva nel caso mi avesse visto un po' triste o distratta. Premetto che in quel posto ho visto Bryan una sola volta, nell'occasione della tragedia di Lampedusa, e non fu un incontro piacevole il nostro. Ma si era preoccupato per me. La boss aveva detto che ero sorridente come sempre, che forse non lo sapevo, e Setayesh aveva detto che si sarebbe occupata lei di dirmelo. Aggiunse solo poche parole. Ti capisco, mi disse, lasci la tua terra ma comunque te la porti dentro, e ogni cosa ti ferisce perchè non puoi far niente, sei sola e devi andare avanti...questo posto è accogliente, aggiunse, non badare a queste cose, prendi il meglio che puoi e dai il meglio di te, e non andare via da qua finchè non hai dimostrato a te stessa che puoi vincere anche contro i fantasmi. You can win against ghosts, sweetheart, you can, remember. Nella solitudine di quella stanza cercai su Internet qualche notizia. 19 anni, cazzo, 19 anni, un bambino! A 19 anni avevo un diploma fresco in tasca, lavoravo, risparmiavo soldi perchè volevo andare all'università dopo qualche anno. Studierò, pensavo a quell'età, imparerò tante cose e aiuterò gli altri, voglio fare questo da grande. Avevo un materasso soffice di sogni che mi esplodeva sotto i piedi, avevo ancora tante lacrime da farmi scivolare addosso e tanti treni da perdere. E nonostante tutto di quell'età ricordo solo ed esclusivamente una cosa: la sensazione irripetibile di avere il mondo fra le mani. Mi sentivo potente, come se nulla al mondo potesse scalfire la mia sicurezza, mi apparteneva l'universo intero, lo sentivo mio ed ero convinta di poterlo cavalcare con la stessa facilità con cui accarezzavo il vento, regalando alla brezza il lusso di spettinarmi i capelli. Ero questo a 19 anni: la testa sui libri, sudore di lavoro, le mani su una sigaretta, al collo una macchina fotografica, i piedi in qualunque strada, a calpestare tempo e destino come fossero inutili coriandoli da sprecare, gettandoli nell'aria come la cattiva sorte. Appena Google mi diede risposta, vidi la foto di quel ragazzo ucciso di botte in un qualsiasi appartamento del Regno Unito. E non ebbi il tempo di piangerlo. Cominciò un incessante andirivieni di persone nel mio backoffice, che volevano farmi sapere che loro no, non erano così. Tutti, venivano e mi dicevano che loro non pensavano male degli italiani, che io ero “great”, “amazing”, “lovely” e un sacco di altre cose, che sicuramente c'era uno sbaglio, che no, questo posto non era razzista, ancor meno con gli italiani. Manuel, la Boss, Dulcinea, Alan, Debbie e altre persone che in questo mese abbondante di lavoro ho avuto il privilegio di conoscere, si avvicendavano in quella stanza a dirmi che loro non la pensavano così. Li vedevo scusarsi come se fossero stati loro quelli feriti a morte, in un punto vivo e vitale, come se quella morte fosse un'onta di vergogna che li stava sommergendo in un giorno qualunque di ottobre, insieme alle foglie che cadevano nel parco di fronte alla mia finestra. Bryan venne a trovarmi nel pomeriggio. Mi aggiornò sulle indagini. Forse lituani, solo uno inglese, storia intricata, ancora buio. Ma non cambiava molto. Ammise che i gruppi estremisti, le gang, avevano un gran risentimento verso l'ondata migratoria degli ultimi tempi: spagnoli, italiani e altri. Disse che dalla Spagna e dall'Italia erano arrivati tantissimi ragazzi, statisticamente più del solito. Mi spiegò che il suo paese era ambiguo e freddo, ma sapeva abbracciare. Mi disse che si, erano colonialisti, avevano fatto la loro fortuna con le colonie, e che si, avevano succhiato il meglio da ogni posto in cui erano stati, ma no, disse, non siamo razzisti. Questo paese abbraccia tutti, gli stranieri qua sono una risorsa, pagano le tasse, mandano avanti l'economia, diceva, la politica UK vuole che tu lavori, che paghi le tasse e contribuisci così al benessere di questa nazione. Mi spiegò cose noiose ma vere di questo paese, pregi e difetti di un popolo che sto ancora conoscendo. Andò via dicendo: Londra è come la Marmite, o la ami o la odi, se riesci ad amarla ti darà tanto...provaci! Prima che scomparisse chiesi: What's Marmite? Si fece una risata e uscì senza rispondere. Dopo neanche un'ora arrivò un fattorino del supermercato vicino con un barattolo di Marmite. Lo lasciò in reception e Setayesh me lo diede. Aprii il barattolo e credetti di morire: una zaffata di lezzo nauseante invase le mie narici e credetti di vomitare l'anima e il latte materno che succhiai a 5 mesi. Entrò Dulcinea e urlò “Woooowww, Marmite!” chiese se era mia, se poteva mangiarne un po'. Anche tutta per me: fa schifo, fu la mia risposta in italiano, che Dulcinea capiva perfettamente. Mi disse che lei aveva imparato a mangiarla dal suo compagno: quando lo baciava sentiva il sapore di quella crema nella sua bocca, e così aveva imparato a farsela piacere. Andarono via quasi tutti verso le 18:30. Mi salutarono come se fossero colpevoli, dicendomi qualcosa di inutilmente straordinario. Rimasi sola. Guardai su Internet, pensai, piansi, riflettei su tutto. Questo paese mi aveva accolto a braccia spalancate: dopo 15 giorni avevo un lavoro, persone che mi adoravano e servizi funzionanti. Si, avevo incontrato persone stupide e razziste, ma...posso dirlo senza essere tacciata di scarso patriottismo? La maggior parte erano italiani. Certi italiani chiamano le donne col Burka “le ninja”, il mio coinquilino italiano non parla con la mia coinquilina inglese perchè è “negra”. Per non parlare dell'omofobia: anche a Londra ci facciamo riconoscere per quella cultura bigotta verso gli omosessuali, in una Londra che è “la capitale dei froci”, come dice un mio amico gay, gli italiani sono fra i pochi a usare un razzismo omofobo. Dagli inglesi non ho mai subito nessun attacco per il mio essere italiana, MAI. Mi trattano con un rispetto persino imbarazzante, al quale non sono abituata, e divento rossa quando la Boss mi dice che sono lovely e mi chiama darling o my love. Fanno le battute sugli italiani esattamente come noi italiani prendiamo per i fondelli gli inglesi per l'assenza del bidè: sfottò reciproco e innocente. La carta stampata si diverte a scandagliare i nostri mali, si discute di politica e siamo noi italiani ad ammettere i difetti e a giustificare che non siamo tutti bunga-bunga, mafia e Concordia. Ma gli inglesi lo sanno: questa è una città melting pot, un gigantesco frullatore che contiene pezzi di frutta da tutto il mondo, qualcuno ha schiacciato il pulsante troppo a lungo e quella frutta si è mescolata, diventando poltiglia, omogenea, amalgamata, mescolata come una jam multicolore e multisfaccettata. I razzisti a Londra? Si, esistono, ma è dura vita per loro: in questo paese è più facile vedere una donna col chador piuttosto che una ragazza inglese con i leggins pitonati, o un uomo col kandura piuttosto che un londoner con ombrello e bombetta. Esistono gli stronzi inglesi così come gli stronzi italiani, ma l'allarmismo e la tensione sono figli di questo tempo caotico e animalesco. La storia del ragazzo 19enne deve far riflettere però: gli italiani devono rendersi conto che noi siamo schegge volate via dal nostro paese, e speriamo sempre di venir accolti, di avere un lavoro o un'ancora a cui aggrapparci, e ci teniamo a dimostrare che siamo “italiani brava gente”. Siamo italiani, ne andiamo orgogliosi, e ci fa male essere così tanti, e ci fa male sapere che abbiamo invaso una terra e ci sorge il dubbio se davvero non stiamo rubando qualcosa, se diamo fastidio, e ci fa male sapere che quando da noi arriva una zattera a pezzi qualche connazionale ci gode e spera che affondino tutti, mentre qua ci hanno accolto e ci trattano con rispetto. Non sarebbe giusto accusare gli inglesi di razzismo così come non è giusto generalizzare sugli italiani: i microcefali leghisti sono pochi, gli italiani che hanno aperto la porta ai disperati “emigranti” sono tantissimi, e mi sento rappresentata da loro, non dai leghisti. Ci ferisce quella frase che aleggia nell'aria “avete rubato il lavoro agli inglesi”. Ci fa male ed è una ferita profonda, e speriamo che gli inglesi non siano tutti così (e non lo sono) o almeno di non incontrarli mai. Perchè probabilmente quel figlio di 19 anni è stato ucciso per altri motivi, ma il problema è reale: siamo qua, siamo in tanti, forse troppi e ce ne rendiamo conto. E speriamo solo che il nostro essere onesti lavoratori faccia cambiare idea a quegli inglesi che non ci vorrebbero qua. Perché in quel ragazzo c'erano i miei sogni da 19enne, c'erano i sogni di tutti gli italiani che vanno via sperando in un futuro migliore, e qualunque sia il motivo (razzismo? Rapina? Gang giovanili? Altro?) adesso quei sogni si sono persi dentro una stanza del Kent, e gli inglesi per bene, tantissimi, si vergognano di aver bruciato i nostri disegni da incorniciare con una scarica infuocata di calci e pugni.
Uscii nella hall e indossai il giubbotto, sentii l'odore della Marmite nel naso: Dulcinea era nei paraggi. Seguii l'odore per salutarla. La trovai che divorava una fetta di pane tostato, imbrattato di quello schifo. Ci salutammo con un bacio, pequeña mia, disse, e mi strinse. L'odore della Marmite mi aveva invaso...non mi dava più fastidio, in fondo apparteneva a Dulcinea e a quel bacio forte stampato sulla guancia, come un francobollo che sai che non potrai mai staccare dall'anima. Have a nice evening, disse il portiere a piano terra. Goodnight, dissi io. La sigaretta. L'accendino. Il cellulare
-Pronto? -Ciao mà... -Hai sentito di quel ragazzo? -Si, ma non credo lo abbiano ucciso perchè era italiano...non si sa nulla, è confusa la storia... -Stai attenta -A che cosa? -A tutto -Tutto cosa? -Tutto...sei una brava donna, sai come comportarti, sai farti amare, forse nel concepimento ti ho inserito una calamita da qualche parte e sarà per questo che attiri a te tante persone...ma riesci a sentirti sola anche in mezzo agli amici e alla folla. Stai attenta a questo: a non sentirti mai sola -Ok mà -Stai andando nel tubo? -Si chiama tube mà, è la metro -Quella si...Stai attenta a non sentirti sola, se puoi non tornare, ma se torni mi troverai qua -Ci sentiamo presto -Stai bene? -Si, mi vogliono bene qua, molto -Anche qua te ne vogliamo -Lo so
Click.

venerdì 18 ottobre 2013

Italiani: popolo di burattinai, evasori fiscali e...twitteri.

 Quando arrivai a Londra mi sono chiesta: cosa penserà di noi questo popolo londinese? Dopo un paio d'ore avevo conferma dei loro pensieri: si materializzavano in una risata accompagnata dalle parole "Bunga-Bunga" o "Schettino". Ovviamente ho comprato subito i newspaper quando andai a fare la spesa. Già, perchè qua le edicole non esistono, i giornali li trovi in qualunque supermercato. Qualcosa che somiglia a un'edicola sono i chioschetti fuori o dentro le stazioni della Tube. La cosa che contraddistingue i quotidiani londinesi da quelli italiani è che sui vari newspaper anglosassoni si parla di tutto. Ma proprio di tutto: dalle pirlate del figlio discolo di Carlo d'Inghilterra (eppure questo Harry a me sta tanto simpatico) alla politica della Cina, dalle pedalate del sindaco di Londra ai giudici di X Factor (quello inglese), dalle storie di bullismo e buonismo alla politica...italiana. Si, parlano anche di noi. Con tutto quello che succede a Londra questi trovano il tempo di occupparsi dei cazzi nostri, incredibile! Perchè ovviamente è preferibile che si scordino di noi, che trovino un posticino nell'oblio e ci schiaffino là dentro. Lo so, voi davvero pensate che al di fuori del nostro perimetro non si sappia niente, tipo "i panni sporchi ce li laviamo in casa"...e le mutande pure che magari è scappata qualcosa...invece questi sanno tutto di noi. Non ci credete?! Faccio parlare le immagini. Spero che qualcuno capisca just a little bit di inglisc (altrimenti Google translate può essere un valido alleato), guardate e capirete perchè quando andate all'estero vi guardano con quella faccia tipo...come dire...quasi come voler dire..."italiani, ma quando cazzo vi svegliate??"

Traggo giovamento nel vedere che la parola "Mafia" e Berlusconi sono un binomio inscindibile. Senza peraltro che il quotidiano sia tacciato come "certa stampa comunista" o addirittura bolscevica! Qua le cose vengono chiamate col proprio nome, se un imprenditore paga dei boss mafiosi per averne dei vantaggi, la conclusione è lapalissiana: è semplicemente un mafioso. Risulta così semplice: se un uomo è affetto da impotentia coeundi o generandi possiamo chiamarlo Farinelli e metterlo a cantare nel coro di Tölzer Knabenchor, ma non possiamo metterlo a fianco di Trentalance in "Banana meccanica" (dai donne, su...dai che lo sapete chi è Franco Trentalance, su!). Ogni cosa deve avere un proprio nome e un posto dove essere collocata: se Berlusconi ha trattato con la mafia, va definito mafioso e collocato in galera. E mettere la chiave nella mia tasca sinistra, che è sempre quella bucata.


Che meraviglia questo titolo! Tratto da "The Economist" (non sarà anche questo comunista??? No eh!) che dice "Ancora un burattinaio", e la didascalia della foto dice "Signore, in fila"! Se qualcuno ha voglia, tempo e occhi buoni può leggere il contenuto dell'articolo. Buon divertimento!
Schettino. Quando penso a Schettino non riesco a scordare che in quella tragedia sono morte oltre 30 persone e non riesco a fare battute. Penso al dolore di chi ha perso i figli in quella nave assurda...e non posso sorridere. Perciò quando è andato in onda il raddrizzamento di questo colosso del mare, io non vedevo niente di spettacolare, ma solo l'immagine di una nazione che cercava di riparare alla propria boria con uno show imperioso che voleva dire "tanto riusciamo a risollevarci". Io invece ho pensato: e se invece si fosse evitato tutto questo dal principio? Se invece questo cazzo di inchino o saluto si vietasse e basta? Se invece vaffanculo Schettino e tutti gli altri del saluto alle città di mare, tieni quella nave dritta e non farla affondare, idiota! Inutile che poi ci vantiamo che abbiamo fatto (guidati da un sudafricano)  il recupero di un relitto in mare più difficile della storia. Magari potevamo (e possiamo in futuro) evitare di farle affondare queste navi.
Il giornalista dell'articolo sul raddrizzamento della Concordia fa una sorta di parallelo fra Schettino e Berlusconi, che sono i nomi contemporanei più conosciuti oltre i nostri confini. Perchè Schettino è lo stereotipo italiano dell'eterno adolescente che cerca di far colpo sulle ragazze, dice in sintesi il giornalista, un po' come Berlusconi, no? E allora il giornalista chiede agli italiani: ma come cazzo (quest'ultima parolina dolce non la dice) avete fatto a tenervi per così tanto tempo questo "pensioner playboy" (donnaiolo pensionato) con tutto quello che ha fatto, con la sua condanna, con le sue ragazze minorenni (underage girls) e il resto? Bene, pare che chi lo vota lo veda come un modello a cui vorrebbero somigliare: ricco, non pagare le tasse e circondato da belle ragazze.  Ma....davvero?!?! Ecco perchè all'estero dobbiamo precisare che non siamo Berlusconiani e dimostrare che non siamo come lui. E credetemi: è una grande fatica perchè ovviamente ce lo siamo tenuto per decenni ed è lecito pensare che ogni italiano faccia parte di quella maggioranza di pecore che alle urne mette una X sognando così di trovarsi nel letto Belen con tutto uno sciame di lepidotteri. Poi passano la vita a giocarsela con Federica ManoAmica, ma questo è un altro discorso. Auguri.

Se pensavate che il termine "Scilipotismo" non avesse varcato le Alpi...sbagliavate. Lo conoscono anche qua. E non è bello, ve lo giuro, non è affatto divertente. Grazie Italia, grazie tante.



Ci danno anche dei consigli su come liberarci di Berlusconi: non mettetelo al centro dell'attenzione, cazzo, lui ne trarrà vantaggio, pirla che non siete altri! (parafrasi di Sfiggy, of course!)



E ce lo ricordano anche cos'è quest'uomo che ancora poggia il deretano su uno scranno del Senato della Repubblica: è un criminale condannato. Così, in scioltezza, ce lo ricordano, non sia mai che decidiamo di mandarcelo a casa e siamo convinti che non sia giusto, allora ce lo ricordano gli inglesi che è un criminale condannato. Grazie, un saluto da Londra. E grazie, sempre grazie Italia.



Venne il giorno in cui Berlusconi disse ai suoi discepoli "rassegnate le dimissioni!". E qua si scatena l'inferno! Nel caso ce ne fosse bisogno ci ricordano che abbiamo una "fragile coalition"...certo, lo sapevamo anche noi che era una coalizione degli sticazzi...ma grazie per averla chiamata solo "fragile", potevate usare anche "fucking", era giusto lo stesso. Grazie governo delle larghe intese, grazie per questo show. Davvero.

E infine l'umiliazione. Arriva il giorno in cui anche i discepoli voltano la faccia al profeta. I giornali quel giorno non parlavano d'altro: neanche se William e Kate fossero stati sorpresi in un festino fetish-sado-maso-mature-latex ci sarebbero stati tanti titoli sui giornali! Con le foto dei suoi adepti che lo circondano, lui impietrito...la fine della sua era, dicono...ma per fortuna qualcuno aggiunge "For now", per adesso. Capite?! Qua stavano festeggiando....che vergogna! Stavano festeggiando AL POSTO NOSTRO! Eravamo noi che dovevamo festeggiare, invece gli inglesi hanno fatto i titoloni, come per dire "forse se lo levamo da li cojioni, ve'?!?". Nel caso succedesse...vi dispiacerebbe stappare una bottiglia di mirto anche per me? Perchè vorrei festeggiare anche io, ma qua il mirto non c'è: trovo la Coca Cola alla ciliegia, la Fanta ai frutti di bosco, l'acqua al trifoglio, la gassosa alle rape, ma non troverei il mirto per festeggiare...caso mai succedesse davvero eh, sia chiaro! Grazie.

Poi ogni tanto si ricordano che ci sono anche altri personaggi politici. Però è meglio che non se lo ricordino: ho messo le foto piccole per non leggere quello che c'è scritto. Davvero, è meglio non leggerlo, per una questione di autostima. Io spesso mi guardo allo specchio e cerco nel mio viso tratti somatici sudamericani: magari potrei farmi adottare!

Lampedusa. Nessuna battuta in merito da parte mia. Una tragedia immensa. Non sto neanche a dare le colpe o a fare polemica. So solo che se un pescatore vedesse un barcone affondare o dei naufraghi che cercano aiuto, non potrebbero aiutarli perchè sarebbero incolpati di favoreggiamento al reato di clandestinità. Grazie alla legge Bossi-Fini. Ci siamo fatti dettare la politica da due razzisti, fascisti e idioti trogloditi. Pensateci quando andate in cabina elettorale al pirla che dovete votare: sono quelli che faranno leggi idiote come questa.





L'articolo su Lampedusa è semplice e diretto. Un lungo articolo del Financial Times che analizza la tragedia, la storia di queste vite disperate che scappano da inferni inauditi. Le ultime righe sono dedicate alle polemiche interne della politica, cioè che l'Europa deve intervenire, siamo stati lasciati soli, non sappiamo dove metterli, e via dicendo. Il giornalista del Financial Times risponde che l'Italia non è la piccola Malta ma uno dei 4 grandi membri dell'Europa, e storicamente l'Italia ha sempre esportato italiani all'estero. Ci ricorda che l'anno scorso Germania, Francia, Svezia, Gran Bretagna e Belgio hanno ricevuto molte più richieste di asilo dell'Italia. Persino la Scandinavia, la Svizzera e l'Irlanda hanno un maggior carico di rifugiati dell'Italia. Ci ricordano insomma che siamo in Europa e non possiamo prendere da essa solo ciò che è di buono e chiedere aiuto per ogni accadimento. Gli altri paesi accolgono rifugiati ed emigrati molto più dell'Italia...insomma, arrangiatevi, avete le risorse per accoglierli come tutti gli altri paesi. Forza e coraggio. Forza. Coraggio. Cose che  ci mancano.





Il finale dell'articolo su Lampedusa. Uno schiaffo all'Italia e alle sue lamentele. I più non avranno bisogno della mia traduzione stile maccaroni-inglisc. Dice che l'Italia è riluttante ad aprire il suo mercato agricolo ai suoi vicini perchè ha paura della concorrenza. (Finale tipico da humor inglese) Se paesi come l'Italia rifiutano di prendere pomodori dal Nord Africa, potrebbero essere però "condannati" a prendere più persone. Ce lo meritiamo? Esame di coscienza...
Ma non c'è solo la tragedia, la cattiva politica, lo scherno, noooooooooo! C'è anche il gossip italiano! Ecco qua: Francesca Pascale vuole sposare Berlusconi! WoOoOoW che culo! E pare che la mamma l'avesse avvertita: potrebbe essere tuo padre! Oh care mamme, sappiate che lo schiaffo pedagogico non fa male, è terapeutico ed evita un futuro di titoli osceni oltremanica. Orsù!



Però noi siamo la storia, ebbene si! Cesare è arrivato a Roma, ha visto e ha...twittato! ....Eeeeeehhhhh?!?!




Si, abbiamo il grande, enorme merito di aver inventato il primo social network! Non lo sapevate??? Neanche io! Marco Tullio Cicerone ebbe il tempo di scrivere su dei papiri e far girare le informazioni fra le persone ben 2.000 anni prima di Twitter. Alla faccia di Zuckerberg e Dorsey, il nostro Marcolino Tullietto Cicerone, fra una guida turistica, una marca da bollo negli atti giudiziari e una sventata congiura di Catilina, ebbe il tempo di inventare Twitter. E poi che non ci rompano le balle dicendo che siamo scansafatiche, evasori fiscali, puttanieri e male organizzati! Abbiamo inventato Twitter, cosa volete di più da noi?! Grazie Cicerone, grazie. Davvero.


giovedì 10 ottobre 2013

Fire Drill e figurine Panini

Il Fire Drill a Londra è maledettamente diverso dalle prove antincendio a Roma, ve lo garantisco. Il giorno che nella Cazzius & Brothers Corporation ci fu il Fire Drill, entrai e vidi i miei colleghi tutti assiepati nella hall. Pensavo che dovesse arrivare Beckham a fare due palleggi con Victoria Adams che in sottofondo gli cantava if you wanna be my lover. Andai nel mio back office e accesi la macchina del caffè, fedele testimone di tutti i miei sbadigli con apertura labiale talmente ampia da intravedere anche il piloro. Non feci in tempo ad accendere Miss CaffeZozzo che entrò Manuel. Mi informò che c'era il Fire Drill, una prova di evacuazione dall'edificio. Serviva come "training" per un eventuale allarme antincendio o terroristico. Lo scopo era ridurre ogni volta i tempi di evacuazione, senza che nessuno fosse rimasto dentro a fare la fine di un marshmallow su un barbecue americano. I understand, dissi gioiosa, spiegando che avevo già fatto questa esperienza. Infatti quando lavoravo nelle scuole di Roma facemmo la "Prova antincendio". Fu esilarante. Ci furono dati opuscoli informativi per preparare i bambini. Io mi occupavo di una bambina diversamente abile. Le maestre fecero vedere agli alunni un filmato sul comportamento da tenere durante la prova. I bambini erano contenti all'idea. L'indomani una mamma rimproverò la maestra dicendo che invece di far vedere ai bambini "filmini der cazzo" sarebbe stato il caso "de fà un pochetto de matematica in più, che serve sempre". La maestra decise allora di fare delle prove pratiche quando i bambini uscivano in cortile per la ricreazione. Compito non facile, visto che i bambini scalciavano sulle scale come puledri pensando a come emulare il cucchiaio der pupone nell'imminente partitella al campetto scolastico. L'indomani venne un papà a rimproverare la maestra: fare certe attività anche durante la ricreazione non era giusto, i bambini dovevano giocare e il gioco era un diritto del bambino riconosciuto anche dall'Unicef. La maestra mi guardò e disse “Sai che c'è? Dovesse mai succede un incendio io me pijio 5 bambini a spalla, tu che sei piccoletta ne piji 3, poi torno indietro e me pijio l'arti, che tanto io so' veloce a core, me faccio i 100 metri in un lampo io!”. Il giorno della prova antincendio i bambini erano in silenzio in attesa dei 5 squilli di campanella. Io avevo istruito per bene la mia bambina. La legge italiana stabilisce che in caso di evacuazione di un edificio i disabili devono essere gli ultimi della fila, per non intralciare gli altri. Alle 9:58 i bambini aspettavano il suono della campanella per alzarsi e uscire in fila dalla classe, davanti ci doveva essere la maestra e dietro io e la mia Perla. Nel silenzio tombale della classe sentimmo le bidelle litigare su chi dovesse suonare la campanella. La più anziana diceva che era un suo diritto, la più giovane voleva suonarla lei perchè non l'aveva mai fatto -Daje fammelo fa' a me! -E no, io so 'a più anziana, 'o faccio io! -Ma tu l'hai già fatto, io no, nun puoi fare sempre tutto te oh! -E mica vojio fa tutto io? A pulì i vetri ce puoi penzà te! -Anfame, pe' spiccià l'aule nun sei la più anziana, ve'??.... E i bambini ridevano così tanto che non solo non sentimmo la campanella ma non sapemmo chi vinse il diritto di suonarla. I bambini si misero in fila, perfetti, esemplari. Giunti alla porta esterna il bidello (unico uomo della scuola, peraltro un uomo altamente coricabile devo dire) urlò ai bambini “Ahò ma chè è sta mosceria?? Sembra che state a fa' 'a processione de Fracazzo de Velletri!”. E i bambini corsero nell'androne ad abbracciare quel bidello così tenero che non mi sarebbe dispiaciuto vederlo dietro una cattedra. I bambini si sparpagliarono, alcuni finirono in IV e altri in V senza neanche aver preparato l'esamino finale, ci ritrovammo in giardino dopo circa 17 minuti. Ad onore della cronaca la mia bambina se ne fregò di tutto, andò avanti per la sua strada, io non la guidai (in nome dell'autonomia per la quale lotto nel mio lavoro), la seguii a distanza, e da sola seguì il suo percorso e raggiunse il lato destro del cortile prima dell'altra metà della classe, che nel frattempo si era fermata a raccogliere ranuncoli mentre la maestra urlava disperata che sarebbero morti carbonizzati se non alzavano le chiappe. Diedi a Perla una Goleador alla Coca Cola, lei era felice e la sua autostima salì alle stelle. Gli altri bambini erano felici perché mancava poco alla ricreazione e quindi fu deciso di lasciarli direttamente in giardino per non fare un altro penoso saliscendi. Fu una bella esperienza, e spero che in quella scuola non ci sia mai un incendio. Ma nella Cazzius & Brothers Corporation non fu così. La sirena venne azionata a sorpresa. I businessman non sapevano che era in programma: la situazione doveva essere il più reale possibile. Sbadigliavo davanti a CaffeZozzo quando sentii qualcosa che seccò le mie ghiandole salivari e svegliò anche il callo sotto il mio alluce destro. Setayesh e Marianne indossarono due gilet catarifrangenti, e come se fossero state azionate da un telecomando, chiusero la porta centrale col pass magnetico, si divisero nelle stanze, fecero uscire i signori. Manuel fece uscire me, recuperò Dulcinea che si era imboscata in un anfratto, e una centralinista che stava rovistando in magazzino. Setayesh andò davanti a tutti, mi guardò mentre passava e disse “Follow me!”. Cazzo, pensai, anche lei è su Twitter?!? La sirena suonava, non smetteva, urlava e ti trapanava il midollo, non erano 5 squilli di campana, ma un suono lungo e ininterrotto. Prendemmo le scale a destra dell'ascensore. Nell'edificio c'erano 8 scale, ognuno dei 7 piani del palazzi doveva usare quella stabilita, una rimaneva libera per gli addetti alla sicurezza. La nostra rampa era stretta, la sirena rimbombava, sentivo il suo eco nella bocca dello stomaco, il rimbombare dei nostri passi sulle scale era un tamburo dei Chippewa che suonava dentro la mia milza. Pensavo di svenire: il suono assordante della sirena avrebbe fatto trasalire anche Beethoven, mi creava un'angoscia irrazionale come se davvero dentro ci fosse una bomba pronta ad esplodere. Gli altri erano abituati. La chioma dei capelli neri di Setayesh danzava disinvolta, la sua andatura regolare dettava il passo alla lunga fila, statuaria e di ghiaccio, sembrava che davvero volesse portare in salvo tutte quelle vite che gli stavano dietro. Non correva, era un soldato, seguita da tanti soldatini che volevano vedere la strada. Sentii una mano dietro la spalla: Dulcinea mi disse “No te preocupes mi chica, es todo falso!”. Forse si era accorta che stavo per crollare a terra come una pesca nettarina in una giornata di maestrale. Una volta in strada la fila non si ruppe, arrivammo al vicino parco, ognuno al suo posto, in silenzio. Setayesh una volta arrivata davanti a una certa panchina del parco, guardò l'orologio: non male, disse, neanche 5 minuti. Mi ricordo che a scuola dopo 5 minuti la maestra era sotto il banco cercando di far uscire Giuseppe, il quale cercava la figurina Panini di Zarate che gli era caduta dal mazzo. Noi eravamo più cazzari, più easy, ecco. A Londra sono tutti dritti, precisi e impeccabili. Io quel giorno dovetti prendere 4 pastiglie per il mal di testa.

mercoledì 9 ottobre 2013

A ciascuno il suo Friday. Storie di scarpe e veli di malinconia

Quando sentivo le canzoni che menzionavano il famigerato Friday night pensavo fosse qualcosa di astratto, che serviva per fare rima con right o fight, un po' come cuore, amore e trattore. Saggiai la concretezza del Friday nel mio ultimo giorno di lavoro alla Cazzius & Brothers Corporation, ossia nelle stanze degli incontri. Nell'aria c'era qualcosa di strano, qualcosa di friccicarello, ecco. Come se avessero stappato una bottiglia di Veuve Clicquot e l'aria fosse piena di bollicine esilaranti. Cosa c'è allora? Mi rispose “It's Fridayyyyyy!” Ah, ecco. Sembrava che tutti avessero ingoiato adrenalina pura, correvano come pazzi, anche gli uomini d'affari, svolazzavano con la loro valigetta. Dulcinea era stranamente velocissima, neanche una pausa, sfrecciava col suo carrello più veloce di Massa sulla pista di Nurburgring (vabbè che per essere più veloci di Massa basta poco...), Manuel guardava l'orologio ogni nanosecondo, alla boss sembrava che le avessero messo le dita nella presa coi piedi bagnati, tanto era elettrica. Alle 2 la boss venne a salutarmi, mi ringraziò come se quella compagnia fosse in piedi grazie a me e mi disse che ci saremo rivisti presto, e strizzò l'occhio. All'atto di andarsene mi disse che avevo un bel tatuaggio. Diventai rossa come un pomodoro pachino sotto il sole della Sicilia...ma allora l'aveva visto davvero?!? Very nice, disse! Il tatuaggio...era very nice. E se ne andò dimenticando l'ombrello appeso alla maniglia di una stanza chiamata Copenaghen. Manuel alle 3 venne, mi abbracciò e mi chiese se nel weekend avessi fatto bunga-bunga. Ridemmo, e lui mi disse che sapeva che ci saremmo visti presto. Ah si?! Uscì dalla porta che sembrava avesse dietro uno squalo tigre pronto a mordergli le chiappe. Erano tutti impazziti: quel fare serafico degli inglesi si perdeva in un Friday afternoon. Marianne, la scozzese goccia di latte con occhi verdi di smeraldo sembrava avesse dentro una tarantola affetta da crisi compulsive. Irrequieta come mai l'avevo vista. Aveva perso quel suo fare da bambina innocente panna e confetti. Alle 5 spaccate sentii il rumore di una sedia che si schiantava al muro. Uscii e vidi una scarpa nera di Marianne in mezzo al corridoio. Merda, pensai, questa si è schiantata contro qualche porta a vetri e ora mi tocca chiamare l'ambulanza, cazzo le dico io all'ambulanza?! Devo dire “Ambulanza, come here because the receptionist si è schiantè alla door??” Mi affacciai e vidi Marianne a 90° sopra uno zaino enorme, logoro. Tirò fuori un paio di scarpe da trekking più sciupate di mia bisnonna, con una coltre di fango sulla suola che sembrava avessero la zeppa. Se le infilò abbinandole alla gonna del tailleur e la camicia coi fiorellini. Si tolse la camicia e rimase con una casta canottiera rosa pisello, sexy quanto un'unghia incarnita. Mi urlò estasiata che andava in campeggio con un gruppo di amici. Urlava: dove nascondeva quella voce così profonda e forte durante la settimana? Indossò una maglietta del gruppo Heavy Metal “Iron Maiden” con stampata la mascotte Eddie The Head: il simpatico mostro creato da Derek Riggs aveva una falce insanguinata in mano, la faccia dolce come la scarlattina e la scritta “From fear to eternity”. Mi salutò con un caloroso abbraccio, corse verso la porta sporcando la moquette di fango rappreso, e Dulcinea le lanciò un urlo in spagnolo del quale capii solo “Puta”, e al quale Marianne rispose con un sorriso farcito di 12.573 fuck. Rimasi con la scarpa in mano a pensare a quella ragazza che sembrava l'incarnazione della purezza vergine, e ora sembrava uscita da un libro a metà fra Le notti di Salem e 20mila sfumature di wurstel. Setayesh rideva, disse che era un po' pazza, crazy, ma just a little bit. Dopo circa un'ora mi venne a trovare Setayesh. Mi disse “Listen”e cominciò a scandire le parole, chiare...ah se tutti gli inglesi parlassero così! Mi disse se avevo voglia di lavorare un'altra settimana, che la ragazza non stava bene e lei doveva prendere 3 giorni di ferie ed erano necessari degli spostamenti, insomma cose complicate che finirono con: Are you available? Si, sono available. E non seppi dire altro. Mi disse che quel giorno le toccava rimanere un'ora in più e quindi saremo andate via insieme. Mi aspetti? Disse con un sorriso assurdo. Yes, aspetto. Mi faceva comodo un'altra settimana di lavoro. L'agenzia per la quale lavoravo mi chiamò e mi chiese cosa era successo, che era la prima volta che quella compagnia di permalosi teneva un loro cameriere così a lungo. I don't know, risposi. Mi era sembrato di capire che Setayesh avesse giocato un po' di carte con le sue ferie. Ma era una sensazione. Andai al piano di sotto per salutare Dulcinea e la trovai che puliva le scrivanie vuote. Era tutto vuoto: tutti erano scappati alle 6 di pomeriggio quando generalmente alle 8 erano tutti là che guardavano grafici e diagrammi ad minchiam. Perchè sono andati via? Dulcinea urlò “Fridayyyyy”. Impazzita, aveva già finito tutto il piano. Le dissi che rimanevo anche la prossima settimana. Lo sapeva, disse, Setayesh è una gran donna, e strizzò l'occhio. Cosa fai questo weekend, mi chiese. Vado in qualche museo, risposi. Si fermò come se avesse visto un pitone attorcigliato all'aspirapolvere. Devi conoscere qualche chico e andare a bailaaaar, mi disse, e sfumò tutto con una risata che sapeva di cipria e tenacia. Uscii da lavoro e aspettai l'ascensore con Setayesh. Le dissi thank you, senza aggiungere altro. Lei disse che era giusto che io rimanessi un'altra settimana. Mi disse che andava in ferie, che alla boss aveva detto che aveva delle visite ma in realtà era il suo anniversario di matrimonio e andava fuori col marito, mi guardò negli occhi, mise il dito sulle labbra e fece “sssshhh”. Non dire niente. Entrammo nell'ascensore stracolmo. Le dissi “Why?” intendendo perchè le stavo così simpatica. Non c'era bisogno che le dicessi tante parole: sembrava che i miei pensieri si materializzassero e lei li leggesse ancor prima che io riuscissi a formularli in inglese. Perchè io e te siamo “similar”. Feci una faccia che voleva dire “in che senso?”. Look, disse, e mi indicò lo specchio dell'ascensore: eravamo nere, due schegge nere d'ebano in mezzo a una matassa di bambagia, a 8 persone color latte, bionde e con occhi chiarissimi. Paradossalmente eravamo noi quelle che risaltavano di più in mezzo a quel mare candido. Mi scoprii incredibilmente scura, i miei capelli neri, gli occhi scuri, le labbra rosse, la pelle abbronzata dal sole della Sardegna...si, eravamo simili, uguali: entrambi nere in mezzo a un gruppo di persone che potevano fare da testimonial a qualche marca di candeggina. Prima di attraversare la portineria si fermò. Prese il grande foulard nero che aveva sempre al collo, lo tirò su, si coprì la fronte, mise dietro le orecchie il boccolo di capelli e nascose tutto sotto quel tessuto morbido, lo avvolse intorno alle guance, lo fece girare intorno al collo...e Setayesh venne assorbita come una goccia d'inchiostro da un chador improvvisato. Ssshhhh, disse, e mi strizzò l'occhio, e keep in touch, take care, mi disse. E corse fuori dove c'era il marito che aveva in mano 2 tazze di caffè Costa e un sorriso disarmante. Prima ancora che riuscisse a salutarla un esserino minuscolo le volò incontro e si incollò al suo corpo come una pioggia estiva. Lo prese in braccio e il bambino le stringeva il collo e rideva, lei lo baciava. E andò via incontro al suo Friday così diverso da tutti gli altri, scomparve dietro l'angolo con quella vita tenera appesa al collo, come un ciondolo prezioso che rende meravigliosa la tua esistenza. Restai ferma a pensare al mio Friday. Accesi il cellulare, trovai vari SMS, messaggi di Whatsapp e delle chiamate su Viber. Non risposi a nessuno. Feci il numero di mia madre. -Pronto? -Ciao mà -Ciao...e tu?! Avevi detto che chiamavi domenica? Cosa è successo? -Niente, volevo solo salutarti e dirti che ti voglio bene -Ma... CLICK. Chiusi io e piansi. Anche il mio Friday era diverso dagli altri.


venerdì 4 ottobre 2013

Siamo noi i tunisini e gli albanesi che scappiamo con un volo low cost

Ieri sono andata a lavorare nelle stanze degli incontri, o le meeeting rooms se volete che lo dica in inglese. Avevo comprato una scorta di quotidiani, a parte il Financial Times che lo passa di default la compagnia per la quale lavoro. Avevo letto le news sul governo italiano: tutti i titoli erano concordi sull'umiliazione di “tycoon Silvio Berlusconi”, tradito dai suoi stessi burattini. Il mio manager Manuel ha fatto una battuta che non ricordo sull'argomento. Verso mezzogiorno Setayesh, la receptionist, entrò nel mio back office e disse “Come here”. La seguii e mi portò davanti al maxi schermo appeso nella hall. Quella TV rimane sempre accesa, senza audio per non disturbare i businessman che confabulano nelle loro intime riunioni, ed è sempre sul canale all news della BBC. Sullo schermo c'era la scritta “live” ad indicare una diretta. Erano in Italia e sullo sfondo si vedevano uomini raccolti dentro sudari che sembravano di plastica, come spazzatura, pronti per andare in un altro inferno. Guardavo e non capivo le parole, ma non serviva: le immagini erano molto eloquenti. Pochi minuti dopo è arrivato Manuel e Marianne, l'altra receptionist, si sono fermati. Anche loro in silenzio. Poi è arrivata la mia boss, irlandese. Eravamo tutti in silenzio. A Londra si impara ad essere composti anche nel dolore. Marianne ha sussurrato “Oh my God” e aveva gli occhi lucidi. Io avrei voluto essere là, in Italia, per piangere sulla mia terra, per lavare con le lacrime quel dolore di quel bambino, di quelle donne e uomini che cercavano la libertà e si son trovati dentro una galera del mare. La mia boss mi mise la mano sulla spalla, mi ha detto qualcosa, ma non capii, non importava, voleva dirmi che le dispiaceva, ne sono certa. Gli uomini in abito scuro, legati al guinzaglio della loro ventiquattrore, cominciavano a entrare. Vedendoci davanti allo schermo si fermavano. La parola “God” usciva anche dalle loro bocche, e si fermavano a commentare. Tornammo ognuno ai nostri compiti. Dopo mezz'ora ci ritrovammo di fronte allo schermo, le receptionist, Manuel, la Boss e io. Eravamo tutti “stranieri” a Londra: Manuel è colombiano, Setayesh iraniana, la Boss irlandese, Marianne scozzese di padre slavo, e io, italiana. Passò Bryan, un ragazzo inglese che si occupa del mercato italiano e cura a distanza la filiale italiana della compagnia. Conosce tutto dell'Italia, meglio di un italiano medio. Disse qualcosa a proposito delle polemiche. Non capii, dissi “Sorry? Can you repeat?”. E disse che alcuni esponenti politici, della Lega per la precisione, avevano polemizzato col ministro Kyenge e la Boldrini perchè rendono l'Italia appetibile per gli immigrati. Qualcosa del genere. Manuel disse “Silly people!”. E non potevo darle torto, la stupidità dilaga e ne arriva notizia fin oltre le Alpi. Bryan proseguì e con la precisione di un chirurgo espose la situazione italiana, la legge Bossi-Fini, il reato di clandestinità, la situazione economica e politica del paese, e una sorta di razzismo che è nascosto nell'italiano medio. Capii perfettamente e me ne vergognai. Un impiegato che passava lì per caso disse “Ma proprio l'Italia è così ostile?”. Come dire: proprio l'Italia, che ha invaso Londra da sempre, e ha invaso tutta l'Europa di migranti in cerca di fortuna? E io mi sono vergognata, e avrei voluto difendere la mia terra e spiegare che non tutti sono “silly people” e non tutti sono razzisti, e un miliardo di altre cose che mi stanno facendo esplodere di rabbia in questo mese di permanenza a Londra. Ma non sapevo dirlo in inglese, e Setayesh ha intuito i miei pensieri e ha detto lapidaria “Non tutti gli italiani sono uguali, non tutti gli iraniani sono uguali e neanche tutti gli inglesi sono uguali”. E sia Bryan che l'impiegato rimasero inceneriti da quella risposta secca, da quegli occhi neri che si sono infiammati al mio posto. Ed io avrei voluto piangere di rabbia. Una immensa e dolorosa rabbia che mi assale dal 4 settembre, dal giorno in cui ho messo piede in questa città smisurata che si chiama Londra. E ogni giorno devo dimostrare che io non sono come Bunga-Bunga man, che io non sono come gli squatter italiani che occuparono le case sfitte in un qualsiasi quartiere di Londra, che io non sono spaghetti-pizza-mafia, che non sono razzista e non sono omofoba. Provengo da un paese meraviglioso che ha partorito geni assoluti dell'arte e della cultura, da Caravaggio a Leonardo, da Galileo a Dante, abbiamo tanta di quell'arte e di quella cultura che potremo vivere solo di quella e sfamare il mondo intero con le nostre opere ineguagliabili, dei quali andiamo fieri, anche se sono in mano a un nugolo di pagliacci che stanno in panciolle mentre tutto va al rogo. Ma siamo un paese meraviglioso senza memoria storica: abbiamo il negazionismo nel DNA, neghiamo le atrocità del fascismo così come l'emigrazione post bellica con le valigie di cartone legate con lo spago. Siamo un paese di migranti, da sempre: quando ero bambina i miei zii partirono in Germania, vedevo i miei nonni aspettare una telefonata in un centralino pubblico e uscire dalla cabina con gli occhi rossi. Poi sono tornati, come tanti, con un po' di soldi in più, una moglie, un figlio e tanta strada ancora da fare. Come un foglio di carta carbone che sbadatamente ho gettato nella mia strada, mi sono ritrovata a ricalcare le orme dei miei zii, anche se la rotta è stata Londra e non una pizzeria di Francoforte. Non sono andata via perchè non amo l'Italia ma perchè la amo troppo, e mi distrugge vederla ridotta in brandelli da una politica insulsa e nauseabonda. Andare via dall'Italia significa sentirsi rifiutati, come una madre che scaccia dal suo seno il proprio figlio. E non importa se tutti sappiamo che non è una buona madre: rimane quella alla quale vorremmo tornare, come un figlio con la sindrome dell'abbandono. Perchè siamo stati sputati fuori dalle fauci di questa nostra patria come caramelle dal gusto amaro e cattivo, incapaci di dare piacere ad un paese che è saturo di noi. E siamo andati via pur di non perdere la nostra DIGNITÀ di lavoratori, perchè ci siamo ritrovati a 40 anni con uno stipendio che non copre il budget della spesa mensile per la carta igienica e il tonno in scatola per campare. E siamo andati via perchè ci siamo laureati col sudore, abbiamo intascato il nostro 110 e lode, per poi ingrassare l'illustrissimo corpo dei precari italiani, da 700 € al mese. E abbiamo chiesto OSPITALITÀ nei vari paesi europei, americani, asiatici e ovunque nel pianeta. E qualcuno è emerso e ha così dato lustro all'Italia, ma qualcun altro non ha contribuito ad un'immagine positiva degli italiani nel mondo. Mentre Rita Levi Montalcini studiava embrioni al microscopio, aprendo la strada ad un Nobel stellare, invidiato dal mondo, altri italiani esportavano la mafia oltreoceano, e chi è venuto dopo ha dovuto difendersi dal nomignolo Maccaroni-Mafia. E ora dobbiamo difenderci dalla vergogna politica che ci rende ridicoli nel mondo, ogni giorno c'è un articolo sul burattinaio, lo showman, il tycoon, e quando ci chiedono "Why?", perchè, non sappiamo rispondere, e dobbiamo dimostrare che non siamo così. Perchè io mi sento esattamente come quei migranti sul barcone, partita alla ricerca di una dignità umana che mi consentisse di avere un lavoro retribuito equamente, il tanto che basta per arrivare a fine mese senza dover contare gli spiccioli prima di fare la spesa. Ho solo avuto la fortuna di non dover prendere una zattera fatale ma un qualsiasi volo economico della Ryanair, con un trolley che chiudeva dentro quattro stracci e la voglia di un biglietto di ritorno. E nel fare la valigia da imbarcare ho imparato che tutto ha un peso, che i 20 kg ammessi li superi con 2 libri, una macchina fotografica e un album di fotografie sgualcite che rappresentano il sentiero contorto che hai costruito in 40 anni. E vorresti che tutto fosse più leggero per poterti portare dietro la sciarpa che tua madre ha creato per te alle elementari, o le lettere di tuo fratello quando stava male, o la sabbia della mia isola avara e meravigliosa che mi porto nell'anima...e invece lasci tutto sparso sul letto della tua camera, chiudi il trolley e i suoi 20 kg di amarezza e scappi via, ché il volo non aspetta. Mi sento umiliata e offesa per le parole di pochi stolti, per una legge iniqua che punisce i disperati, per le parole velate di razzismo della gente comune: mi sento offesa perchè quando sono partita dalla Sardegna ho trovato Roma, con le sue braccia grasse da massaia mediterranea, ad accogliermi come una figlia maledetta che ha bisogno di volare. E quando sono arrivata all'aeroporto di Stansted ho trovato due amici con un sorriso largo, un divano pronto, una Londra che mi regalava un raggio di sole, una casa e un lavoro dignitoso, dove in 15 giorni guadagno quanto un mese in Italia. E Londra mi ha accolto con i suoi tentacoli scivolosi, che sanno di pioggia e pudding, che mi nausea, ma che mi fa vivere DIGNITOSAMENTE. Quella dignità che non mi ha dato la mia patria l'ho trovata qua, e mi chiedo come mi sarei sentita se questa nazione, questa città, avessero usato per me lo stesso ostracismo che oggi hanno alcuni politici e connazionali per i migranti. Perchè non si deve pensare che tutti gli italiani all'estero danno orgoglio all'Italia con un Nobel o un Oscar: abbiamo anche regalato al pianeta fior fiore di delinquenti che hanno insozzato il buon nome dell'Italia fuori dalla patria. E allo stesso tempo il mondo è pieno di italiani che lavorano sodo, onestamente, facendo la pizza, cucinando una carbonara senza guanciale o guidando un autobus di linea. È questa una buona parte degli italiani: lavoratori onesti e dignitosi che devono difendersi e dimostrare che siamo brava gente, che abbiamo solo bisogno di un lavoro, che non siamo mafiosi, bunga-bunga man o altre cose spregevoli che ci vengono incollate addosso come un francobollo stantio. E amo questa mia Italia, la difendo a spada tratta, appendo il tricolore alla mia parete anche se non ci sono i mondiali, e lo faccio a nome di tutti gli italiani onesti che vogliono dimostrare al mondo che siamo persone per bene, gente onesta che ha voglia di lavorare. Perchè io rappresento tutte le persone oneste che scappano in cerca di una vita migliore, sono quel bambino morto nel barcone a Lampedusa, sono l'albanese sul gommone che non è riuscito ad arrivare in Puglia, sono tutte le persone che sono scappate e hanno inciampato su un filo spinato trovando l'inferno al posto della dignità. E in questo mio sfogo c'è tutta la rabbia verso un paese che ha la memoria corta, che si dimentica che i suoi figli sono in giro per il mondo, alcuni sono delinquenti ma altri fanno lavori dignitosi e vengono trattati con rispetto quando lo meritano. Ho un manager che la mattina mi fa trovare un the caldo e un cupcake quando entro a lavoro, ho una Boss che si incazza se io non prendo la pausa e mi urla “take a break!”, ho una receptionist iraniana che mi porta gli snack e me li fa trovare davanti al monitor, e ogni giorno esco da lavoro e mi ringraziano per aver portato 4 thermos del cazzo di caffè, e mi ringraziano che vado a lavoro “clean and tidy” perchè pensano che potevo anche fottermene, non andare a lavoro o andarci sporca e disordinata. E quindi grazie per l'aiuto, for help us, thank you che sei venuta a lavorare, thanks a lot perchè sei venuta clean and tidy, pulita e ordinata. Non faccio niente di straordinario: porto caffè a della gente che parla di affari. Ma lo faccio onestamente e vengo trattata con rispetto, gentilezza e cortesia, cose alle quali non sono abituata e mi imbarazzano. E come me tutti quegli italiani che lavorano in una cucina o in una sala di un qualsiasi ristorante, che vengono trattati col guanto di velluto, eppure fanno dei lavori che in Italia sono svolti dagli albanesi, dai rumeni, dai bengalesi. Solo che in Italia questi sono “gli stranieri che ci rubano il lavoro”, ma prendono 500 € al mese e quando fanno cazzate (esattamente come gli italiani all'estero) è perchè sono gli stranieri che delinquono. Io vi porterei qua, a viverci in mezzo a questa città melting pot, dove GLI STRANIERI SIAMO NOI, e siamo noi che dobbiamo difenderci dal cattivo nome che ci portiamo dietro, e dover dimostrare ogni giorno che non siamo solo dei silly people, mafiosi o evasori fiscali. Qua siamo noi i negri, i rumeni, i bengalesi: la differenza è che qua veniamo pagati bene e ci trattano con rispetto. E non è una differenza da poco conto, proprio no: ci accolgono, non ci rifiutano e non ci lasciano marcire in un mare di disperazione. Non tutti gli italiani all'estero vinceranno il Nobel, ma sono i kitchen porter di un ristorante a Totthenam Court Road, runner in un pub di Soho, cleaner di un Pret-a-manger di Green Park, housekeeping di un Hotel nell'Embankment. O la ragazza del caffè nelle stanze di incontri...che trattiene le lacrime di fronte a una tragedia, che difende la sua terra e, nonostante tutto, è orgogliosa di essere italiana. E ogni mattina mi alzo, leggo i giornali e aspetto di leggere che stiamo migliorando, aspetto di sentire che c'è bisogno di me in quello stivale storto. E tengo da parte i soldi per un biglietto di ritorno...per quando piangerò e non potrò più fare a meno di sentire sul mio viso le mani di mia madre, degli amici, della mia gente, che regalano alla mia pelle la sensazione indicibile di una splendida carezza ITALIANA.




lunedì 30 settembre 2013

Storie di lacrime e sorrisi nelle stanze di incontri

Lo ammetto con un po' di vergogna: sono sempre stata una secchiona. A scuola ero la più casinara ma anche la più secchia di tutti. Sarei stata lo zimbello della classe se non avessi avuto una dose di infinita imbecillità rigogliosa in me, rendendomi talvolta simpatica quanto una ginocchiata allo sterno. Londra ha il merito di avermi fatto sentire una perfetta ignorante, anzitutto per la lingua che non riesco a deglutire, e poi per i meccanismi, i modi e la cultura che mi sono totalmente sconosciuti. Ma sono sempre la secchiona di turno, ergo cerco di mettermi al passo di questa bolgia cosmopolita. La questione delle meeting Rooms dove avevo appena lavorato aveva leso la mia autostima in maniera indelebile. Quando tornai a casa dal lavoro mi buttai sul computer e chiesi a Google delle mie brame qualcosa in più di queste stanze di incontri. Sentii improvvisamente che la mia ignoranza era profonda quanto la fossa delle Marianne e non quanto il lago Coghinas. L'indomani andai a lavoro con l'intento di colmare questo vuoto di conoscenza agghiacciante. Appena arrivata le receptionist mi accolsero col sorriso da paresi cronica che è appannaggio di queste splendide creature preposte all'accoglienza. Manuel mi informò che avevamo pochi meeting quel giorno. Annamo bene, pensai, già ieri ho avuto il tempo di leggere anche gli ingredienti dei muffins al cioccolato e del disinfettante nella cassetta del pronto soccorso, oggi avrò il tempo di leggere persino l'etichetta degli slip e di contare quanti granelli di detersivo poteva contenere una pastiglia di Finish lavastoviglie. Ma ero intenzionata a conoscere il mondo sommerso delle meeting Rooms, e così feci delle domande a Manuel, il quale capì subito la mia curiosità e cercò di soddisfarla. In verità non è che in queste stanze di incontri si decidessero le sorti del mondo: gli uomini e donne che entravano lì dentro erano comuni lavoratori di qualche azienda, incontravano nuovi o potenziali clienti per vendere, proporre, acquistare, gestire o ideare un nuovo prodotto, attività o collaborazione. Spesso erano colloqui di lavoro per grandi aziende, dove i possibili candidati si avvicendavano per accaparrarsi un lavoro di prestigio. Mi disse anche qualche nome famoso della finanza e industria inglese, ma mi risultavano sconosciuti, visto che per me l'inglese più illustre rimane comunque David Bowie insieme a Kevin Keegan. Vista la mia faccia sorpresa, Manuel mi chiese se le meeting rooms esistevano anche in Italia. Certamente esisteranno, dissi, ma io non ne sono a conoscenza. Ah capisco, rispose, in Italia ci si incontra nelle "bunga-bunga rooms", ed rise. Lo avrei fiocinato quel colombiano anomalo, dalla pelle talmente chiara che era lecito chiedersi se la mamma avesse fatto collezione di relazioni extra coniugali con i tre quarti di stalloni svedesi. La giornata si svolse con la noia che perforava ogni mio poro tra un thernos di caffè e l'altro. Gli uomini strangolati da una cravatta e le donne in bilico su tacchi a spillo si succedevano nelle stanze. Li osservavo: quel posto non era affatto diverso da un bordello. Entravano, mezz'ora o un'ora di amplesso, poi uscivano, entrambi sorridenti ma uno dei due fingeva. Uno sorrideva perché aveva appena spacciato l'inserimento di Jelly Beans frizzanti dentro una salsiccia come la scoperta del secolo. L'altro sorrideva perché comprando un prodotto da pattumiera era convinto di aver fatto un buon affare. Le donne erano le più splendide in assoluto. Non riuscivano a fingere il disappunto o la delusione, e salutavano il malcapitato con uno sguardo che avrebbe incenerito anche Mazinga Z. Eppure fingere in quelle circostanze sarebbe stato forse più diplomatico...peraltro noi donne siamo avvezze a fingere una faccia orgasmica stile Lady Godiva anche quando il piacere estremo non ci sfiora. Oh no, ragazze, non fate quella faccia, su! Non ditemi che non avete mai finto col vostro compagno di materasso neanche una volta, orsù! Almeno una volta (è magari fosse solo una!) è successo a tutte di fingere l'apoteosi dei sensi, facendoci venire la raucedine a forza di ansimare smodatamente come se stessimo partecipando alla StraMilano. E abbiamo tutte fissato il soffitto pensando di ravvivarlo con una mano di vernice color pastello che si intonasse bene con le tende. Io l'ultima volta fissai così tanto il soffitto che mi accorsi che c'erano delle ragnatele fra il bulbo del bastone della tenda e l'anta superiore dell'armadio. Per fortuna avevo la tracheite e non ebbi bisogno di spolmonarmi più di tanto nella sinfonia di vocali oh-ah-oh-ah, mentre la nemesi di Rocco Siffredi si sperticava in acrobazie orizzontali, con l'agilità di un toro nelle sabbie mobili. Però l'indomani comprai una scopa a punta per le ragnatele e un chiodo; dove appesi la patata, imperituramente. Ma queste donne erano cazzute quanto John Holmes, non avevano bisogno di fingere, ti sparavano sul viso la loro insoddisfazione, prendevano la loro 24 ore e si portavano dietro la loro straordinaria sicurezza in una scia di profumo sensuale e ammaliante. No, quel posto non era diverso da un bordello: ciascuno entrava in una stanza per comprare o vendere qualcosa con la consapevolezza che di caldo in quella stanza c'era solo il mio caffè. Mi avvicinai di più allo staff per cercare di capire con che occhi loro vedevano tutto questo. Le due receptionist erano due splendide creature, ogni volta che mi chiedevano qualcosa era un susseguirsi di please, sorry, thank you e apologize, nonostante mi stessero chiedendo qualcosa che era solo il mio lavoro. Marianne era una goccia di latte con gli occhi verdi che brillavano fino a riempire tutta la hall, scozzese, 26 anni, neo laureata, avrei scommesso che era una di quelle bambine che da piccola faceva il punto croce e andava al catechismo sperando di potersi rannicchiare nell'angolo lontano della stanza mentre gli altri intonavano un Gloria Patri, Di quelle donne che pensi che siano state create per materializzare sulla crosta terrestre la fragilità femminile. L'altra si chiamava Setayesh, iraniana, nascondeva male la sua pelle olivastra sotto una corposo strato di cipria chiara. Aveva la mia età, bella e sorprendente come un trompe l'oeil quando se ne scopre lo spessore, e quando sorrideva sembrava che quella bocca non potesse fare altro nella vita. Era l'unica che capivo subito e al primo colpo: si rivolgeva a me con tutta la flemma di cui era capace, scandiva le parole perfettamente ed io potevo finalmente capire quando finiva una parola e ne iniziava un altra. Gli altri parlavano velocemente ed io ero costretta a difendermi con un “Sorry?”, loro ripetevano la frase come se stessero insegnando ad un infante a dire m-a-m-m-a, c-a-c-c-a, p-a-p-p-a. E urlavano nel ripeterlo, come se alzando di 3 toni la voce riuscissi a capire meglio, ignorando che non capire l'inglese non significa essere sordi. Setayesh invece aveva capito tutto e si rivolgeva come se il mondo non avesse fretta e impiegava tutto il tempo necessario per dire una frase che gli altri avrebbero liquidato in 2 secondi e mezzo. E poi c'era Dulcinea, che era quella che aveva il turno più lungo là dentro, era l'ultima ad andare via, ma l'aveva scelto lei e aveva diritto a tutti i break che voleva, oltre al fatto che veniva aiutata da tutti a svolgere il suo lavoro di “cleaner”: puliva tutto, dai vetri alla moquette, dalle tazze del caffè alle scrivanie dei dipendenti. Quel giorno ero particolarmente annoiata, pochi meeting e io avevo finito di leggere anche le istruzioni per l'uso della macchina del caffè, in tutte le lingue, ovviamente. Perciò presi un panno in microfibra dal carrello di Dulcinea, svuotai i pensili del back office e li pulii da cima a fondo. Quando mi accorsi che Dulcinea era sulla porta che mi guardava, io ero impiccata su una sedia cercando di pulire l'ultimo ripiano dove erano stipate 473 varietà diverse di ottimo the. Cominciò a parlare, mi chiese delle cose, parlando un po' in spagnolo, un po' italiano e un po' in inglese. Mi guardava come se fossi lo spettro di Nessie che usciva dal pelo dell'acqua. Si sorprese quando le dissi che ero sarda e si chiedeva come potessi resistere in un posto come Londra, dove il sole è familiare quanto una geisha in Vaticano. Esplose in una risata quando le dissi che mi piaceva studiare. La guardai bene in quella risata e mi accorsi che le mancavano due incisivi nell'arcata inferiore e un canino in quella superiore. Quasi avesse intuito la traiettoria dei miei occhi si mise una mano sulle labbra e disse che non rideva quasi mai perchè le mancavano dei denti. Mi sentii colpevole come se avessi rubato un gelato ad un bambino, cercai di dirle che non era importante, che era comunque bellissima (il ché era vero) e mi disse che li avevi persi per via dell'ex marito. Aveva divorziato dopo l'ennesima lite dove lui l'aveva presa a pugni facendole cadere tre denti, spaccandole il naso e altre cose che non capii. Mi sentii come se avessi avessi fatto cadere un litro di sangue sopra un tappetto immacolato. Restai in silenzio, tenendomi dentro una valigia ingombrante di parole in italiano, senza riuscire a tradurle in un suono che somigliasse all'inglese. Se ne accorse ed esplose in un'altra risata, senza coprirsi la bocca, rovesciando la testa all'indietro come se quella risata contenesse la potenza di un geyser, che esplode fisiologicamente, perchè è necessario che esploda. Mi disse che era tutto finito, che ormai non le faceva più male, che aveva un compagno qua a Londra, che stava bene. Don't worry darling, disse, ho fatto bene ad ablar con tu, tu comprendi me, tutto perfecto e io contenta. E se ne andò ringraziandomi per svolgere anche una parte del suo lavoro (una parte infinitesimale, aggiungo io), trascinando con se la sua gonna scozzese, la camicia stretta su un seno prorompente, pronto a esploderle sul collo se non avesse tenuto aperti i primi due bottoni. Svolazzava col suo carrello da infermiera in quel corridoio lungo e bianco, canticchiava, ondeggiando con la testa, quasi volesse buttare dietro di se una storia infelice. E del resto è prerogativa delle donne fare dell'amarezza un fardello da legare stretto con lo spago di un sorriso, e buttarselo alle spalle, così come facciamo con un foulard annodato male. Avrei voluto scoprire altro di quel posto, le storie che si celavano dietro quel velo di ovatta, scoperchiare tutto per scoprire che dietro una splendida facciata esistono anche lacrime e tristezza, ma quello era il mio ultimo giorno di lavoro. Smontai la macchina del caffè: i meeting alle 19 finiscono e i businessman finiscono il loro lavoro. Alcuni di essi li puoi rivedere all'uscita, seduti al pub dell'angolo con una pinta di birra grande quanto una cisterna, con la cravatta legata in vita, come se quella presunzione fosse rimasta incollata alle pareti di una meeting room chiamata Florence. In quel posto non potevi mai accorgerti che qualcuno entrava o passava davanti al back office del caffè: era tutto coperto da uno strato gigantesco di moquette color pantegana che attutiva ogni rumore. Se Dulcinea avesse rovesciato il suo carrello di tazze e cristalli su quella moquette soffice, avrebbe fatto più rumore la sua risata che il fragore del vetro. E così mentre avvolgevo il filtro della macchina in un canovaccio immacolato e asciutto, sentii un colpo di tosse alle mie spalle. Che cazzo, pensai, in questo posto non potrei mai scaccolarmi in santa pace, mi ritroverei qualcuno dietro a contare la consistenza delle mie secrezioni nasali. Era Setayesh “Sorry...darling, would you be able to please work till the rest of the week for us?” Questo è quello che riuscii a capire, forse, ma non ne sono certa. Però capii il senso e dissi Yes, sono available. Lavorare per il resto della settimana...yes, ok. Avrei voluto chiederle perchè. Perchè anche il resto della settimana? Non doveva tornare la ragazza? Stava male? Mi stavo traducendo le parole da dirle ma lei mi spiegò che la ragazza stava ancora male e che sarebbe tornata la settimana successiva. Mi disse che piacevo a tutti (a tutti...chi?? E perchè??) e che mi ringraziavano tantissimo per l'aiuto che stavo dando (ma quel posto ruotava intorno ai miei caffè?? Ma anche no!) e che era felice di vedermi l'indomani (manco fossi Camilla, che tutti la vogliono e nessuno la piglia). Dissi solo thank you. E basta. Mi guardò come se volesse togliermi la faccia da imbecille che avevo indossato per l'occasione e mi disse “your smile...”...eh?! che cosa ha il mio smile? Il mio sorriso piaceva a tutti, era quella la mia forza, disse, e se ne andò col suo impermeabile nero e la cartella che le danzava a fianco. Che cazzo ha il mio sorriso?! Presi il thermos argentato del caffè e mi specchiai nel coperchio: ho un sorriso da imbecille, ho anche gli incisivi un po' distanti, forse anche troppo grandi, ho un sorriso cazzaro che quando lo vedi pensi che appartenga ad una cretina integrale, senza conservanti. Uscii contenta per non so quale ragione, o forse solo perchè quel posto era una fucina di storie e un susseguirsi di scoperte, ed io sono avida di vita vera. Incontrai al secondo piano Dulcinea, chiusa dietro la porta a vetri che passava il Vetrill col Financial Times, si appese a un'anta e mi urlò che non ero più “la ragazza del caffè” ma ero diventata “la ragazza italiana sorridente” e mi salutò sventolando il foglio del giornale. Ero contenta: nonostante il cambiamento, il salto enorme che avevo fatto nel venire in questa giungla di metropoli, non avevo perso quella cicatrice assurda che contraddistingue il mio volto: il sorriso. E me lo portai a spasso nella strada che mi portava alla Tube, pensando che in fondo questi denti irregolari e queste labbra sono sempre stati i miei migliori compagni di viaggio. E non mi importa se a volte piango: ogni sorriso va innaffiato di lacrime per poter crescere al meglio. Quella sera, sorridendo, tolsi un chiodo dal muro e cucinai patate.