venerdì 12 dicembre 2014

I segreti di una non-twitstar

Ultimamente sono più le volte che mi chiedono "Ma come fai ad avere 30.000 follower?" piuttosto che "Me la dai?", a prova della netta inversione di tendenza del maschio italico. Rispondo sempre "Non lo so" perché è la verità. Non so perché ho 30.000 follower, ma so di non meritarli: non scrivo perle di saggezza perché so che andrebbero in pasto ai porci, non scrivo cose divertenti o interessanti e neanche posso dire di spenderci tanto tempo su Twitter. Posso però spiegare le varie tappe che mi hanno portato ad avere 30.000 followers, che non sono pochi per una che non è una soubrette, un'intellettuale o un'opinion leader (che non so neanche cosa vuol dire). Mi sono iscritta a Twitter tanti anni fa, avevo come pic la mia foto e il mio nick era il mio nome e cognome. Scrivevo di me, pensieri, viaggi, avventure e il mio lavoro, che all'epoca era fare l'educatrice per bambini disabili nelle scuole pubbliche. Avevo tanti follower anche allora ma Twitter era un'altra cosa: era un bar, si entrava in punta di piedi, si chiacchierava, si condivideva tanto e si sorrideva di noi stessi. Una brutta storia di vita e di stalker mi hanno portato a chiudere quell'account: per quanto allora Twitter fosse un bar di periferia, esistevano comunque gli stronzi convinti di poter prendere dal cesto qualsiasi cosa o persona. Chiusi l'account con un Tweet "3...2...1...GAME OVER" e cliccai il tasto per eliminarlo. Quel capitolo si chiuse con la consapevolezza che anche il gioco più innocente può essere devastante se lasciato in mano a degli squilibrati. Per tanto tempo non mi affacciai minimamente al mondo dei social network e ciò mi portò a scoprire che senza Twitter si vive lo stesso. Non è incredibile ragazzi? Si mangia lo stesso anche se non si pubblicano le foto, si ascolta musica anche se non condividiamo il link di YouTube e, cosa ancor più sorprendente, si ama e si fa l'amore lo stesso anche se non si scrivono poesie e prodezze virili in 140 caratteri. Il 26 aprile 2012 ero immersa in un turno di 24 ore in una comunità per disabili psichici e, complice la fatica, la difficoltà nello stare sveglia, ho creato un account con un uovo, guardai dentro Twitter e non trovai nessuno: il bar era chiuso, forse per turno. Non scrissi nulla. Finii quel turno alle 11 del mattino e andai sulla tomba di Gramsci per l'anniversario della sua morte, provai rabbia e disgusto nel vedere quell'urna del cimitero acattolico di Roma quasi in abbandono. Avrei voluto gridarlo al mondo intero ma essendo affetta da una brutta raucedine mi resi conto di non avere il timbro vocale giusto. Forse era meglio entrare in un bar di Testaccio, ma era una giornata uggiosa e i bar a Roma offrivano solo arancini, pizza bianca con mortazza e il rutto libero di 4 cassaintegrati. Così pensai che un bar virtuale come Twitter avrebbe potuto lenire la mia rabbia. Memore dei consigli anti stalker della polizia postale, tolsi anzitutto la geolocalizzazione, al posto dell'uovo del giorno prima scelsi una pic "anonima", che non avesse niente di me se non gli ideali: un Che Guevara donna, una pic presa dal sito sudamericano WhyNot che si occupa di diritti delle donne. Il nick Sfigatamente mi venne in mente in seguito a un dialogo con un mio amico filosofo "le persone che non pensano hanno il dono dell'incoscienza, e quindi della serenità. Tu, cara amica, sei essere pensante, ergo una sfigata mente destinata al tormento". Grazie caro amico, davvero grazie. Ma il profilo era stato creato. Entrai in punta di piedi come sempre...e trovai non più un bar ma un circo: saltimbanchi, umoristi, poeti, politici, star, attori, vallette, bimbiminkia, cialtroni, maiali famelici, professori, commentatori compulsivi di programmi televisivi, clown e pubblico vociante e pagante. Cercai quelli che avevo lasciato: la maggior parte di loro erano diventati "twitstar", blogger e personaggi che ogni giorno scrivevano monologhi nella propria pagina. Presi posto dietro le quinte e ho scritto come sono abituata a fare da sempre: dal 27 Aprile 2012 ho vomitato sulla mia TL me stessa e la mia vita. Coi miei followers ho condiviso vittorie e sconfitte, le emozioni più belle e i viaggi più divertenti, la solitudine e i miei limiti, le mie pirlate a salve e i miei acrostici irriverenti, le mie foto e la rabbia, la diplomazia e la malinconia, il mio lavoro e i turni al massacro, l'imbecillite e il mio vivere perennemente in uno squilibrio equilibrato. Questa sono io e questo ho messo sull'account di SfigataMente: una persona normale che vive la sua vita cercando di cogliere l'aspetto ludico e cazzaro in ogni passo, con le sue pause riflessive da persona 42enne sempre in bilico fra una risata fragorosa e una manciata di lacrime. Non so perchè mi seguono queste 30.000 persone, mi guardo intorno e vedo i mostri sacri del Twitter, che quando li leggo mi sento piccola come un seme di zucca (una zucca vuota nella fattispecie) buttata dentro un silos di angurie gigantesche. E lo so di non meritare queste 30.000 persone perchè non sono straordinaria ma semplicemente normale. Che ci sia bisogno di normalità in questo posto dove tutti mirano ad essere stra-ordinari?! Non mi segue nessun VIP, nessuno di quelli che contano su Twitter, non vinco nessun premio, non mi chiedono collaborazioni ma mi seguono solo persone normali che nella loro vita fanno il meglio che possono per sorridere. Peraltro vi garantisco che avere un gran numero di followers non porta alcun vantaggio nella vita reale: si lavora e si suda esattamente come quando se ne hanno 50 o 5.000 di followers.
Col tempo ho imparato alcune regole fondamentali per non essere ingoiata nelle sabbie mobili dei 140 caratteri:
  1. Non rispondere alle provocazioni dei pirla conclamati che popolano Twitter perché ciò provoca un aumento di popolarità dei pirla in questione.
  2. Non rompere i coglioni alla TL con 10.000 interazioni con la stessa persona: in questi casi trasferirsi su Whatsapp o ancor meglio, prendere il telefono e farsi una chiacchierata con l'interlocutore.
  3. Rispondere alle mention, nei limiti del possibile seppur in ritardo. Mia madre mi ha insegnato che quando una persona ti rivolge la parola è segno di buona educazione rispondere. Non vorrei mai tradire le aspettative della mia genitrice. Mi sento autorizzata a non rispondere quando la mention equivale a ":-)" / "Ahahahahah" / "Sei tu quella della pic?" / "Mi fai un retweet?" / "Sei bellissima, mi vuoi conoscere?" / ";-))))" / "Seguimi e ti seguo!"/ e via ad libitum.
  4. Non rispondere ai DM porci o di sconosciuti che chiedono "M o F?" o "Sei single o sposata?". Ho un cattivo rapporto coi DM: mi piace interagire senza segreti in TL e quando al mattino vedo 78 messaggi non letti mi viene la pellagra e penso che di notte è tanto bello dormire e sognare invece di scrivere minchiate in DM.
  5. Condividere e interagire. Probabilmente sono l'ultima delle romatiche, ma adoro condividere emozioni, parole, risate e coriandoli di vita. E per condividere si deve interagire: quando pubblico un pensiero, una foto o una pirlata, chi mi legge commenta. Se io lasciassi quelle persone senza risposta si tratterebbe di un monologo e di negazione del confronto, come salire su un palcoscenico e avere davanti una platea vuota.
  6. Follow back o non follow back? Io trovo tutti molto più interessanti di me. Qualche milionata di profili mi piacciono parecchio, ma c'è un limite di following quando si supera una certa soglia: Twitter impone che in questi casi il numero di following non superi i followers. La condivisione per essere tale deve essere reciproca, perciò ho scelto di seguire le persone che mi seguono. Ma non seguo tutti: non seguo le "uova" (santi numi, se vi iscrivete a un social network sprecate 2 minuti per metterci una pic, su!), non seguo profili porno, aziende, siti web, agenti di marketing, professionisti in cerca di pubblicità e simili. Non seguo profili che non interagiscono, quelli senza tweet, quelli che gli ultimi 100 tweet sono "Ciao!...Ciao!...Ciao!...Buongiorno!...Buonasera!...Buonanotte!".
  7. Defolloware o non defolloware? Un defollow fa male quando si tratta di persone con le quali hai interagito un sacco di volte, che ti sembrava di conoscerle, di averci condiviso uno scampolo di strada. Poi ti arriva il defollow ed è evidente che quella persona non vuole più condividere niente con te o che improvvisamente le stai diametralmente sulle gonadi. Ed è con un po' di malinconia che premo il tasto "smetti di seguire" attuando un defollow back senza parole. A volte invece premo quel tasto con grande animo cazzaro, come se Twitter fosse una macchina infernale dove ci si incontra e ci si lascia senza stringersi la mano: Twitter è lo specchio della vita.
  8. Andare oltre la pic. Non ho mai rifiutato di incontrare i miei followers quando questi davano dimostrazione di avere un certo equilibrio mentale. Poco importa se poi alcuni pubblicavano la foto dei loro addominali stile tavoletta di cioccolato e poi quando li ho incontrati quella tavoletta di cioccolato si è rivelata un bignè, sempre di cioccolato ma pur sempre un bignè. Ma io non bado a queste cose, peraltro ho incontrato soprattutto donne e non ho mai assunto posizione sdraiata con un twittero, ma ho avuto l'onore di conoscere persone straordinarie e le considero dei frammenti del mio specchio rotto. E poi è bello essere pelle e voce dopo essere stati pic e parole.
  9. Essere me stessa. Non riesco ad interpretare un personaggio, non sono una brava attrice, perciò i miei tweet sono il mio diario virtuale, le mie parole rispecchiano lo stato d'animo di quel momento, non ho bozze da salvare perché non riesco a salvare neanche me stessa. Provo molta invidia per quelli che pubblicano solo battute umoristiche, i poeti del Twitter, i maniaci del selfie, i tritura palle perenni, e tutti quelli che hanno un profilo monotematico. Provo sincera invidia per la loro stabilità e costanza: io, ahimè, cambio ogni 38 secondi umore e desideri.
  10. Twitter è un gioco. Giocare è bellissimo ma bisogna giocare con moderazione, seguire le regole del gioco e non fare del gioco la propria ragione di vita.
Questo è il mio Twitter, il mio modo di intenderlo e, giusto o sbagliato che sia, è il mio. Il grafico della mia vita segue fedelmente quello di Sfigatamente, e così ultimamente i miei followers chiedono "Cosa ti è successo? Perché twitti così poco? Stai perdendo smalto...". È vero: mi limito ad uno o due tweet al giorno e a volte neanche quelli, e vivo di rendita. Ho sempre parlato del mio lavoro e i più attenti avranno notato che non ne parlo più. Per quanto sia stata tacciata di buonismo, io amo parlare del mio lavoro, quello di un'educatrice che lavora con disabili, disagio e tutti i rifiuti che la società produce. È un lavoro che mi fa star bene e cerco di far sembrare quel mondo meno distante e più vero dall'immaginario collettivo. Ma non ne parlo più. Ora lavoro in una struttura per disabili psichiatrici, ed è patologia, ed io ho grande rispetto per la malattia, molto rispetto. Non c'è più nulla di divertente nel mio lavoro, ma sono previsti degli educatori in quel reparto anche se il ruolo è diverso. E combatti disarmata con una patologia senza possibilità di miglioramento, ed è aggressività, auto ed eterolesionismo, terapia continua, è coprofagia, mutismo e sordità, vomito e impotenza, ed è lottare contro un cancro che divora il cervello e non si ferma di fronte alle tue parole ma neanche con le pillole del neuropsichiatra. Ed è sconfitta professionale, spesso piango e vorrei scappare. Cerco altro lavoro ma no, c'è crisi e non si trova. E resto impotente, con la consapevolezza che quando torno a casa ho solo bisogno di silenzio. Per questo ho smesso di twittare come un tempo: questo lavoro mi assorbe come una spugna gigantesca che divora un minuscolo bicchiere d'acqua. Ma sto risorgendo, piano, lentamente, com'è mio costume. E voglio dire GRAZIE a queste 30.000 pic che ancora mi seguono, per essere ancora qua e per stringermi ancora la mano. In fondo zia Sfiggy ce la fa anche stavolta, e anche stavolta deve ringraziare un sacco di anime belle...oggi comincio ad abbracciarne oltre 30.000.

mercoledì 12 marzo 2014

Elogio sentimentale della lentezza.

Apprezza la lentezza, viviti lo stallo del nostro fiume in piena, e cerca di perdere questa tua voglia di scappare: non hai niente da aver paura, sono sempre io, senza pelle e disarmata. E abbracciami forte, vivimi in quel nostro stringerci, che ogni volta sa di lacrime effimere che si trasformano in piacere che esplode senza pudore. E non sputarmi in faccia le tue verità che sanno di ergastolo sentenziale, il tuo poco amore da dare, le tue scarne parole da dire: so già tutto, perché conosco ogni piega del tuo dolore e del tuo piacere. Abbiamo attraversato deserti e orizzonti che ci sembravano infiniti, abbiamo vissuto la fatica e anche la gioia di arrivare alla meta...e tutte queste sterpaglie che incontriamo sono solo rami da raccogliere e dei quali farne un fuoco in una qualsiasi notte di marzo. E non vedere tutto pieno di ostacoli: sono rami, sono qualcosa che puoi schivare, sono carichi pesanti da prendere in braccio e cullare. E vaffanculo questo tuo eterno voler stare per forza bene, questo tuo ostinato voler bere per forza solo il nettare dolce e frizzante della vita: l'esistenza non è solo spumante da sorseggiare in allegria, è anche fiele e veleno, e devi ingoiarlo tutto affinché si possa assaporare anche la fragilità del destino. E lo so che non tolleri le mie lacrime, perché non ti appartengono e ti innervosiscono, quasi ti sentissi in dovere di dovermi consolare. Invece dovresti tacere e nutrirti anche di quei miei momenti, dove il destino mi esplode in faccia tutta la sua caducità, ed io mi sento friabile come un pezzo di tufo scagliato sul cemento armato. Prendi tutto di me, il mio bene e il mio male. Io da te prendo ciò che riesci a darmi: il paradiso di un abbraccio in aeroporto, l'inferno di un marciapiede vuoto visto da un treno che parte. Ma non metto in pratica il mio diploma da ragioniera, non misuro i sentimenti perché in amore ciascuno mette sul piatto ciò che ha da dare, e da quel vassoio si deve mangiare in due, senza badare a chi appartiene quel cibo: quando è poggiato su quel piatto quel cibo è di entrambi e ci si deve sfamare. Prendo il tuo elastico, questo filo che ogni volta tiri fino a spezzarmi l'anima, ti allontani e mi spingi nel collo di una bottiglia rotta dalla quale non riesco a uscirne. E poi torni, lasci andare quell'elastico, ne hai bisogno, e torni vicino quasi a schiantarti sul mio corpo, fino a unirti a me in un'ora che è stasi ed estasi nello stesso lunghissimo minuto. E allora fermati un attimo in più su questo letto, e togliti quei vestiti di dosso, ché la bellezza è nuda e spoglia, non ha bisogno di fondotinta e mascara. Fermati e goditi la lentezza di una notte qualsiasi, avrai poi tempo di soffocare la lontananza, nascondendo tutta la polvere sotto il tuo tappetto buono, che sa di profumo e sudore. Ma godi di questi attimi che il destino ti sta regalando, perché sono il tuo più bel regalo, sono quella che non avresti mai incontrato e sono quella che non vorresti mai perdere. E ogni volta te ne vai tenendo sotto braccio le mie labbra e il mio sesso, la mia amicizia e la mia complicità, e a me rimane la sensazione superba di essere viva, del tuo odore che non va via con la doccia e col bagno schiuma di Tesori d'Oriente, rimani sotto cute, come delle schegge di bellezza che quando le sfioro mi fanno sentire Donna. E mi piace non chiederti nulla, mi piace lasciare al destino la sorpresa di averti e di viverti, di concedermi scampoli di tempo dove mi specchio nel tuo sorriso disarmante. Vivi tutto con lentezza tesoro, fai scivolare il tempo come una goccia di sapone su un vetro, che si incolla e lascia dietro se la schiuma di un sentiero distorto ma indelebile. E non parlare, devi tacere e farmi tacere: le parole non servono quando puoi sigillare tutto col nodo scorsoio di un abbraccio, che ha bisogno di silenzio e pelle, senza frastuono. E non ti porterà a nulla buttare i tuoi pensieri al domani, a quella tua ostinata insoddisfazione del presente e sbirciare sempre a quello che c'è oltre. Perché oltre c'è la vita, e va vissuta con la flemma del ragno, trama dopo trama, senza essere precipitosi, perché quella tela si sbriciola se ci passi sopra col tuo carro armato impulsivo. E guardala in faccia questa vita: è l'unica bellezza che rimane, perché sa sorprenderti ogni giorno, anche con uno schiaffo che ti squarcia, ma è la vita e bisogna renderla straordinaria...che importa se tutto dura come un lancio di coriandoli? Fermati a godere di quella pioggia colorata che ti precipita sul viso, seguine la traiettoria di quella carta variopinta che ondeggia in una danza sinuosa e disarticolata, chiudi gli occhi e pesca dalla tasca un'altra manciata di coriandoli: hai sempre un altro lancio da fare, sarà più bello perché non sarà l'ultimo. E mi piace vederti arrivare, col tuo autunno claudicante dentro, che ti ostini a voler mascherare di primavera, poggiare le tue labbra sulla mia vita, appendere la tua biancheria al vento di questa stanza, buttare le parole e le risate nel ripostiglio buono del risveglio. Poi guardare i giorni e i minuti scivolare via dalla clessidra dell'esistenza che inesorabilmente ti porta via, in una distanza che sa di sale e telefonate, di rancido e “Ti amo” su whatsapp, di bile e videochiamate...e tutto si spegne in una lontananza palpabile, che mortifica il desiderio di appartenenza, divora e svilisce la condivisione di una reale quotidianità. Perciò prenditi la giusta lentezza la prossima volta che tornerai da me, sistema bene nell'armadio quel foulard che ti strangola, non metterlo già in valigia perché sai che dovrai ripartire, abbracciami piano, come se avessimo tutta l'esistenza ancora da vivere, senza fretta baciami e facciamo l'amore, godi della lentezza di una giornata spesa sotto le lenzuola o di una passeggiata fra le bancarelle di un mercato anonimo, di una colazione bruciata o di un panorama da abbracciare con un grandangolo. L'amore è una pianta che cresce piano, deve avere il suo tempo per attecchire, dai il tempo alle radici di essere forti, coltivalo tutti i giorni senza avere la fretta di coglierne i fiori, perché quelli verranno dopo che avremo perso tutte le foglie e scopriremo di non voler perderci mai. Goditi la lentezza di una giornata al mare, perché domani non ci sarò più, e non potrai più darmi quell'abbraccio che hai negato. Perché domani sarò io ad andare via e non avrò più lacrime mentre chiudo la porta dietro te e torno a raggomitolarmi nel letto come un gatto. Ti lascerò l'illusione che sono forte e che non voglio più viverti, con quel mio sorriso da paralisi sulle labbra. Chiuderò la porta a chiave, lentamente, con la consapevolezza che in quel lunghissimo minuto avrò perduto tutta la mia bellezza, perché come sempre, te la darò e lascerò che tu la porti via, per farti compagnia mentre vivi la tua vita di straordinaria semplicità. E ti sembrerà tutto molto crudo e violento, invece sarà solo l'ultimo, disperato e ostinato gesto d'amore, perché nel perderti mi regalerò un vuoto che non vorrò più riempire, che non lascerà spazio per nient'altro. A volte perdersi vuol dire regalarsi la certezza di appartenersi per sempre. E il mio unico sorriso sarà quello di averti liberato dalla morsa di questo mio ostinato amore. Certi amori vanno vissuti con la lentezza dei sogni, e solo lì ci potremo ritrovare. Con lentezza. Perché io non ho fretta di amare e di vivere. La lentezza è saper bere un calice di destino a piccoli sorsi, affinché possa non finire mai.

lunedì 27 gennaio 2014

Rivoglio le mie bolle di sapone.

Il mio primo utente si chiamava Luciano. O meglio, la madre di Luciano: una signora di 70 anni, entrò nel mio ufficio e disse "Ho un figlio di 32 anni, è il mio unico figlio, l'ho avuto tardi. Ha un cancro, deve andare a 60 km da qua a fare la chemio, ma non ho la macchina, non guido, mio marito è infermo, a letto da 3 anni. Mi può aiutare?". Erano passati 4 giorni da quando avevo passato la selezione per presiedere l'ufficio servizi sociali di un qualsiasi comune sperduto della Sardegna, il direttore generale del Comune mi aveva scelto perché avevo il voto più alto e delle idee brillanti e pratiche per risolvere i problemi, e perché "si vede che lei è onesta e ha voglia di lavorare". In quel momento, davanti a quella donna era sparito tutto l'entusiasmo di quella selezione e mi sentivo disarmata, esattamente come lei, che a 70 anni veniva a chiedere a una ragazza di 27 al suo primo impiego, di salvare quel figlio dal suo destino. E lei era nuda, aveva perso il pudore con quella richiesta. E io ero senza pelle e quella richiesta aprì uno squarcio sul mio corpo che non sarebbe più guarito. La rassicurai e appena lasciò il mio ufficio tirai giù tutti i faldoni delle Determinazioni, delle Delibere di Giunta e di Consiglio, i bilanci e i piani annuali. Spulciai tutto e il giorno dopo andai da quel direttore generale e segretario comunale che mi aveva assunto per far mettere la sua firma su una Determinazione, la numero 28 esattamente, dove si stipulava una convenzione con un ditta di noleggio con conducente per portare Luciano 3 volte la settimana a fare la chemio. Costo interamente coperto dai soldi in bilancio dei servizi sociali
-Come hai fatto a tirare fuori questi soldi?
-Ho limato delle spese
-Quali?
-Cose inutili: la proiezione di un film nella Festa dell'estate, il concerto di uno stupido cantante dopo il torneo di calcetto
-Sei in una giunta di destra e tu sei l'unica comunista: quelle cose servono al sindaco per guadagnare voti alle prossime elezioni
-Mi mandi il sindaco nel mio ufficio, voglio che sia lui a dirmi che è più importante un film piuttosto che la vita di un ragazzo di 30 anni che crepa. Le dica che lo aspetto entro oggi, perché domani ho delle risposte da dare a quella madre.
Il sindaco non venne, l'indomani mattina trovai sulla mia scrivania la determinazione numero 28 timbrata, firmata e messa agli atti.
Luciano morì due mesi dopo, lo lasciai la sera attaccato alla bombola d'ossigeno nel suo letto di casa. Gli dissi "ci vediamo domani" e lui scosse la testa facendo un No deciso. Prese la lavagnetta e scrisse "Grazie di tutto". La mattina dopo trovai un post it dell'amministratrice sulla scrivania "Luciano è morto. Hai la libertà di chiudere l'ufficio e di andare dalla madre". Chiusi l'ufficio ma non andai dalla madre. Rimasi in silenzio a guardare le pareti e a pensare che avrei voluto un primo utente diverso, avrei voluto vincere la battaglia del primo utente perché mi avrebbe dato la carica. Ma era capitato Luciano, ed era un figlio, mio figlio, il figlio di tutti, lo presi per mano e lo portai dentro per sempre, perché da lui ho imparato il valore della sconfitta.
Eppure ero arrivata a quel lavoro dopo un tirocinio formativo che mi aveva temprato: una comunità per minori, figli di nessuno, pieni di ferite e sporco, che il giudice affidava alla comunità di recupero fino alla maggiore età. Il posto degli ultimi che ti fa capire quanto la società partorisca mostri contro i quali non puoi lottare sperando di vincere. Rimasi in quell'ufficio per 2 anni, il tempo per rivoluzionare il piano degli interventi per i futuri 10 anni. Creai una ludoteca da uno stabile in disuso, progetto immediatamente accolto dalla Regione e andai a lavorare nella ludoteca che avevo partorito, a raccogliere chiunque. E i limiti delle fasce d'età non facevano per me: non mi sono mai piaciute le gabbie. Comprai un biliardino coi soldi racimolati da una vendita per autofinanziamento e andai nelle strade a prendermi i ragazzi, quelli grandi.
-Che ci fate per strada? Perché non venite in ludoteca?
-È un posto per bambini!
-Ma c'è il biliardino, i bambini non giocano a biliardino
-...che facciamo?...c'è il biliardino!...ma ci vanno i piccoli...e vabbè ma almeno facciamo qualcosa...allora ci andiamo tutti o nessuno.
Non era più una ludoteca ma il punto d'incontro di tutti. I ragazzi si aprivano perché vivono in un mondo sordo e loro hanno bisogno di urlare. Abbiamo scalato montagne impervie insieme, hanno pianto davanti a me ed io ho sorriso e li ho abbracciati, piangendo poi quando entravo da sola in macchina per rientrare a casa. Da allora ho girato gli angoli più bui del "disagio", passando dalle scuole di obbligo formativo, quelle dove vanno gli ultimi degli ultimi, fino ai disabili delle scuole statali, passando per i centri diurni per anziani, stelle spezzate e figli di nessuno, includendo i ragazzi affidati ai servizi sociali in misura alternativa al carcere, entrando nelle case dei "disadattati" fra piscio e violenza, e nelle case famiglia dei "pazzi" e degli abbandonati. La media del mio stipendio in 15 anni di carriera è inclusa fra i 700/800 euro al mese. Sono venuta a Londra perché stanca di essere sfruttata. Qua ho trovato lavoro, non faccio turni di 24 ore ma di 8 e guadagno il doppio che in Italia. Ma non sono felice. A Londra i servizi sociali sono quanto di più spersonalizzante e istituzionalizzato ci possa essere: tutto è delegato ai benefits e alle strutture mastodontiche dove il disagio viene incasellato come barattoli di tomato soupe stipati in uno scaffale. Non esistono le ludoteche ad esempio, termine intraducibile e sconosciuto. E a me mancano i miei ragazzi, i miei bambini, i miei vecchietti. Sono stati loro la mia linfa e la mia sostanza: sono mossa verso il Dare e non verso il Ricevere. Mi appaga dar loro la forza e poi vederli camminare con le proprie gambe: la loro vittoria è la mia ragione di vita. Sono nata per fare quello ed io senza mi sento morta. Sei mesi di Londra mi hanno arricchito e svuotato contemporaneamente: Londra è un'esperienza di vita che consiglio a tutti. Ma questi sei mesi lontano dal mio lavoro mi hanno devastato, svuotato da ogni fantasia e soddisfazione personale. Ieri mi è arrivata la mail di Lorenzo "Ohi gigante, a Giugno mi laureo: sarò l'ingegnere più figo della Sardegna!! Se non stai vagabondando e sei in zona vieni a darmi un bacio accademico". Lorenzo era un ragazzo discalculico, non capiva i numeri, il 13 diventava 31 e gli era impossibile capire la matematica. Lo vidi un giorno mentre andavo in ludoteca, sporco e bello, aveva la pancia gonfia perché nascondeva una bottiglia di vodka sotto la maglietta dei Modena City Ramblers. Mi fermai e portai quel bambino di 13 anni con me.
-Cosa vuoi fare da grande?
-Costruire case, mi piace, farò il muratore come mio padre.
-Perché non il geometra o l'ingegnere? Così decidi come si devono costruire le case invece che costruirle come le vogliono gli altri.
-Non capisco i numeri. Mi confondono, mi viene la rabbia quando li vedo, si muovono e non li capisco.
Il mese successivo nel conto della ludoteca fu addebitato il costo di 500 scatole di fiammiferi da cucina. Il sindaco pensò che volessi dar fuoco alla ludoteca. Gli risposi "Mi servono per dare a questo paese un ingegnere straordinario". Il sindaco neanche provava più a remarmi contro. Con Lorenzo cominciammo a costruire case con i fiammiferi: tagliarli con le forbici, dividerli in mazzetti, in mattoni, architravi, blocchi, e le tegole erano lo zolfo rosso della capocchia. Li contava a voce, poi a mente, faceva le proporzioni, 512 mattoni per una parete, poi aggiungeva le altre pareti. La colla a caldo era il cemento, costruì case meravigliose che furono vendute in una vendita di beneficenza. Imparò così a non aver paura dei numeri. E un pezzettino impercettibile della laurea in ingegneria di Lorenzo, è anche mia. Ma lo sappiamo solo io e lui: è il nostro segreto. Il prossimo anno sarà la volta di Ermanno. Sociopatico, bulimico a soli 12 anni, ritardo grave diceva la diagnosi in mano alla sua insegnante di sostegno. Voleva fare il contadino, voleva coltivare semi e vederli trasformarsi in foglie verdi. Nel retro della ludoteca cominciammo a piantare la liquirizia, strappando al tufo pezzi di terra coltivabile. Facevamo innesti e talee, venne fuori un giardino prezioso che quando venne scoperto dal sindaco lo recintò affinché tutti potessero guardarlo. Si laurea il prossimo anno in scienze forestali. Qualche mese fa ho ricevuto una mail con la foto di Emiliano. Era con una bella ragazza bionda e un bambino grande quanto il suo avambraccio. Emiliano era figlio di un incesto, adottato dalla strada e dall'hashish, venne condannato per tentato omicidio a 16 anni. Venne affidato ai servizi sociali in misura alternativa al carcere. Lo portai con me a fare fotografie, gli affidai la mia Yashica FX3 Super2000, una reflex d'annata con pellicola Ilford al suo interno. Gliela affidai dicendo che era la cosa più preziosa che avevo. Andavamo in giro e lui la portava al collo come una collana di diamanti. Un giorno attraversando un fiume scivolò: preferì fratturarsi il polso pur di salvare la mia macchina fotografica. Adesso fa il fotografo nel Nord Italia, si è sposato e ha un figlio che si chiama Alessandro. Mi ha scritto "Ciao zia nanetta, questo è mio figlio Alessandro, è bello più di me, vero?? Mi somiglia soprattutto in una cosa, ma non la puoi vedere perché è nascosta dal pannolino!!! Ahahahah lo sai che sono sempre una testa matta!". Oggi mi ha chiamato la madre di Terminator, la mia stella spezzata. Sta bene, dopo varie crisi adesso sta bene. Chiede sempre di me e quando lo fa, la madre dice che sorride. Terminator è una bimba cresciuta, un'età mentale di 3 anni secondo la stima della psichiatra, racchiusa in corpo di una donna di 45 anni. Lei è la figlia che il destino mi ha negato, quella che ti sa guardare nell'anima senza bisogno di parole. E io lo so che ogni tanto lei ha bisogno di avere mie notizie, e non gliele nego mai: è il nostro patto suggellato in silenzio mentre mi stringeva le mani il giorno che me ne sono andata. Ma ho avuto anche tante sconfitte. Ho perso Rossella, gioviale, sorridente, solare, meravigliosa. L'ho persa in una pineta in riva al mare splendido della Sardegna, appesa ad un ramo con una corda qualsiasi. Ed io sono stata cieca, come tutti gli altri, non sono stata in grado di leggere dietro quella sua risata contagiosa il suo immenso dolore. Ho perso Giacomo, abbandonato dai genitori, cresciuto in una casa famiglia: ora è all'angolo di una grande città che chiede monetine per farsi una dose. Morirà di overdose. E io l'ho perso. Ho perso Laura, venduta dalla madre per una notte di sesso con una bestia. Aveva solo 10 anni. E non sono riuscita a farla risalire. L'ho persa nei meandri dannati del sesso, perché da allora per lei la vita è stata solo sesso, sporco e punitivo. E ora vende il suo sesso in una lurida strada qualsiasi dell'Italia. Ma Luciano mi ha scritto "Grazie di tutto". Perché era tutto quello che potevo fare, e a me basta averne salvato anche solo uno di quei coriandoli destinati al macero. Anche solo uno. Ma sono tanti e io li rivoglio. Rivoglio un Lorenzo al quale insegnare qualcosa, rivoglio una Rossella da salvare o da piangere nel silenzio di un centro diurno, rivoglio una Terminator da stringere mentre sorride. Rivoglio le mie stelle, che non conosco ancora, che non so dove sono, ma so che ci sono e che hanno bisogno di me come io di loro. Perché sono le mie bolle di sapone e bisogna soffiarci dentro con cautela, non troppo forte perché scoppiano, non troppo piano perché perdono consistenza. E bisogna proteggerle dal vento, che non soffi troppo forte, perché sono fragili e si rompono facilmente. E poi quando sono forti bisogna lasciarle volare, perché sono fatte per volteggiare nell'aria e dimostrare al mondo che si può danzare magicamente anche in maniera disarmonica. Che lavoro faccio? Mi occupo di bolle di sapone: è un lavoro bellissimo. Ed io non posso farne a meno. Per questo tornerò in Italia: a Londra le bolle di sapone sono quadrate e le tengono stipate in scatole che sanno di caserma e fogli da timbrare. Ma io ho imparato che non c'è nulla di più appagante che vedere una bolla colorata di arcobaleno allontanarsi verso il sole. Per questo tornerò. Presto.