lunedì 30 settembre 2019

Dei viaggi che non finiscono mai


Un anno fa iniziai un viaggio: era settembre 2018 e mi trovavo a Bologna. Probabilmente ero di fronte al Nettuno o dentro una camera d'albergo di infima categoria, e sfogliavo la galleria delle mie foto: dal 2016 al 2018 avevo scattato circa 300 foto, e per chi come me vive bramando il suono dell'otturatore e la magia del tocco sul pulsante di scatto, quel numero di foto era davvero irrisorio. Erano stati due anni drammatici e dolorosi: mia nonna diceva che quando "su male" (il male) entra nella tua casa non c'è più pace. In lingua sarda raramente il cancro viene chiamato col proprio nome: se ne ha quasi pudore o paura, viene identificato con quell'articolo davanti che ne determina la portata, l'entità e il suo essere imperioso su tutti gli altri mali. Quando mio fratello ne venne colpito aveva un anno meno di me: 46, e non giunse a compierne 50. In quegli anni imparammo tutti la nostra fragilità, la caducità della nostra esistenza e l'ineluttabile epilogo di fronte ad una lotta impari. La qualità della mia vita la misuro dalle immagini che riesco a catturare, dalle parole che scrivo e dai chilometri che percorro nei miei viaggi. In quei due anni le mie foto, senza luce e prive di emozioni, erano relative ai viaggi al Gemelli, alle strade caotiche di Roma e ai voli per la Sardegna; alle foto di Jons che sorrideva, nonostante tutto, di fronte ad una nuova inutile scoperta, che ci stringeva le mani e ringhiava con forza contro la sua sorte. Nei miei diari quasi vuoti, le mie parole erano scarne e monotone, impotente di fronte a qualcosa che inevitabilmente finiva. E dopo la fine, niente è stato più come prima: tutto si è rotto, come un'opera d'arte che è stata deturpata e si è frantumata proprio fra le mie mani. Bologna è stata la mia salvezza: con le sue note vibranti nell'aria, il tumulto di giovani speranzosi seduti sotto i portici a dileggiare il potere, con le scritte rivoluzionarie e l'odore di cibo buono, Bologna mi ha dato uno schiaffo impalpabile e potente come la dinamite. Ho spalancato le braccia e ho lasciato andar via quel dolore che mi tenevo stretta come un feto privo di vita che lentamente stava corrodendo la mia esistenza. Perché infine ci si aggrappa a quel dolore, ti tiene compagnia, come se quella carne che ti hanno strappato ingiustamente fosse ancora lì, ed è l'unica cosa che ti rimane, non vorresti separartene mai. Ricordo che quel giorno scattai qualche bella foto e fu bello abbracciare delle persone: perché alla fine si risorge, è necessario, istintuale e doveroso. Da allora ho sfiorato tanti orizzonti, ho volato tanto, perso e preso svariati treni e percorso molte strade, ma sarei potuta rimanere fra le mura della mia casa che questo viaggio avrebbe avuto lo stesso risultato, perché il viaggio più importante è stato quello del mio cambiamento. Questo percorso è stato imprescindibile e se mi guardo indietro ne colgo il senso pieno, straziante ma anche di meraviglia: l'odore delle medicine e della putrefazione che senti anche a distanza di anni, le immagini che all'improvviso ti passano davanti e ti riportano indietro alle notti di veglia, al letto madido e a quel corpo che ogni giorno si scarnificava fino a diventare un velo di pelle sopra uno scheletro invaso dalla malattia; ma anche la bontà delle persone, gli amici, i sorrisi, le carezze e quelle mani che ogni giorno mettevano un punto di sutura alla mia ferita, fino ad arrivare a cauterizzare quella lacerazione. È passato un anno da quel giorno a Bologna e ho deciso di andare in Sardegna, dove tutto è nato e tutto ha avuto termine, come se fosse il giusto epilogo di questo viaggio che ha graffiato ma anche levigato la mia pelle.
E ho capito che questo viaggio non avrà una fine, che continuerò a sorprendermi di fronte al mare, a sorridere e abbracciare le persone che incontro e a portarmele dentro come una ricchezza, a piangere di fronte all'ingiustizia, a sperare guardando dei ragazzi suonare una chitarra e urlare nelle strade, ma soprattutto a meravigliarmi di fronte all'amore e alla Vita. Ché questa fottuta esistenza è davvero un bene prezioso, è una fortuna essere qua a sentire il vento fra i capelli, non sprechiamone neanche un goccio e beviamone dei grandi sorsi finché avremo quella sete sana e primitiva di un sogno vitale.
E grazie a tutte le mani che mi hanno stretto in questi anni: in cambio ho solo questo disarmante e forse stupido sorriso da regalarvi. E se ora guardo quell'enorme cicatrice, mi sforzo di vederci un bel ricamo che ogni tanto mi farà piangere ma infine sarà comunque bello accarezzarlo e sorridere.

Il vero viaggio è quello che non finisce mai: ho ancora qualcosa da dare, molto da dire e tante impronte da lasciare.