lunedì 30 settembre 2013

Storie di lacrime e sorrisi nelle stanze di incontri

Lo ammetto con un po' di vergogna: sono sempre stata una secchiona. A scuola ero la più casinara ma anche la più secchia di tutti. Sarei stata lo zimbello della classe se non avessi avuto una dose di infinita imbecillità rigogliosa in me, rendendomi talvolta simpatica quanto una ginocchiata allo sterno. Londra ha il merito di avermi fatto sentire una perfetta ignorante, anzitutto per la lingua che non riesco a deglutire, e poi per i meccanismi, i modi e la cultura che mi sono totalmente sconosciuti. Ma sono sempre la secchiona di turno, ergo cerco di mettermi al passo di questa bolgia cosmopolita. La questione delle meeting Rooms dove avevo appena lavorato aveva leso la mia autostima in maniera indelebile. Quando tornai a casa dal lavoro mi buttai sul computer e chiesi a Google delle mie brame qualcosa in più di queste stanze di incontri. Sentii improvvisamente che la mia ignoranza era profonda quanto la fossa delle Marianne e non quanto il lago Coghinas. L'indomani andai a lavoro con l'intento di colmare questo vuoto di conoscenza agghiacciante. Appena arrivata le receptionist mi accolsero col sorriso da paresi cronica che è appannaggio di queste splendide creature preposte all'accoglienza. Manuel mi informò che avevamo pochi meeting quel giorno. Annamo bene, pensai, già ieri ho avuto il tempo di leggere anche gli ingredienti dei muffins al cioccolato e del disinfettante nella cassetta del pronto soccorso, oggi avrò il tempo di leggere persino l'etichetta degli slip e di contare quanti granelli di detersivo poteva contenere una pastiglia di Finish lavastoviglie. Ma ero intenzionata a conoscere il mondo sommerso delle meeting Rooms, e così feci delle domande a Manuel, il quale capì subito la mia curiosità e cercò di soddisfarla. In verità non è che in queste stanze di incontri si decidessero le sorti del mondo: gli uomini e donne che entravano lì dentro erano comuni lavoratori di qualche azienda, incontravano nuovi o potenziali clienti per vendere, proporre, acquistare, gestire o ideare un nuovo prodotto, attività o collaborazione. Spesso erano colloqui di lavoro per grandi aziende, dove i possibili candidati si avvicendavano per accaparrarsi un lavoro di prestigio. Mi disse anche qualche nome famoso della finanza e industria inglese, ma mi risultavano sconosciuti, visto che per me l'inglese più illustre rimane comunque David Bowie insieme a Kevin Keegan. Vista la mia faccia sorpresa, Manuel mi chiese se le meeting rooms esistevano anche in Italia. Certamente esisteranno, dissi, ma io non ne sono a conoscenza. Ah capisco, rispose, in Italia ci si incontra nelle "bunga-bunga rooms", ed rise. Lo avrei fiocinato quel colombiano anomalo, dalla pelle talmente chiara che era lecito chiedersi se la mamma avesse fatto collezione di relazioni extra coniugali con i tre quarti di stalloni svedesi. La giornata si svolse con la noia che perforava ogni mio poro tra un thernos di caffè e l'altro. Gli uomini strangolati da una cravatta e le donne in bilico su tacchi a spillo si succedevano nelle stanze. Li osservavo: quel posto non era affatto diverso da un bordello. Entravano, mezz'ora o un'ora di amplesso, poi uscivano, entrambi sorridenti ma uno dei due fingeva. Uno sorrideva perché aveva appena spacciato l'inserimento di Jelly Beans frizzanti dentro una salsiccia come la scoperta del secolo. L'altro sorrideva perché comprando un prodotto da pattumiera era convinto di aver fatto un buon affare. Le donne erano le più splendide in assoluto. Non riuscivano a fingere il disappunto o la delusione, e salutavano il malcapitato con uno sguardo che avrebbe incenerito anche Mazinga Z. Eppure fingere in quelle circostanze sarebbe stato forse più diplomatico...peraltro noi donne siamo avvezze a fingere una faccia orgasmica stile Lady Godiva anche quando il piacere estremo non ci sfiora. Oh no, ragazze, non fate quella faccia, su! Non ditemi che non avete mai finto col vostro compagno di materasso neanche una volta, orsù! Almeno una volta (è magari fosse solo una!) è successo a tutte di fingere l'apoteosi dei sensi, facendoci venire la raucedine a forza di ansimare smodatamente come se stessimo partecipando alla StraMilano. E abbiamo tutte fissato il soffitto pensando di ravvivarlo con una mano di vernice color pastello che si intonasse bene con le tende. Io l'ultima volta fissai così tanto il soffitto che mi accorsi che c'erano delle ragnatele fra il bulbo del bastone della tenda e l'anta superiore dell'armadio. Per fortuna avevo la tracheite e non ebbi bisogno di spolmonarmi più di tanto nella sinfonia di vocali oh-ah-oh-ah, mentre la nemesi di Rocco Siffredi si sperticava in acrobazie orizzontali, con l'agilità di un toro nelle sabbie mobili. Però l'indomani comprai una scopa a punta per le ragnatele e un chiodo; dove appesi la patata, imperituramente. Ma queste donne erano cazzute quanto John Holmes, non avevano bisogno di fingere, ti sparavano sul viso la loro insoddisfazione, prendevano la loro 24 ore e si portavano dietro la loro straordinaria sicurezza in una scia di profumo sensuale e ammaliante. No, quel posto non era diverso da un bordello: ciascuno entrava in una stanza per comprare o vendere qualcosa con la consapevolezza che di caldo in quella stanza c'era solo il mio caffè. Mi avvicinai di più allo staff per cercare di capire con che occhi loro vedevano tutto questo. Le due receptionist erano due splendide creature, ogni volta che mi chiedevano qualcosa era un susseguirsi di please, sorry, thank you e apologize, nonostante mi stessero chiedendo qualcosa che era solo il mio lavoro. Marianne era una goccia di latte con gli occhi verdi che brillavano fino a riempire tutta la hall, scozzese, 26 anni, neo laureata, avrei scommesso che era una di quelle bambine che da piccola faceva il punto croce e andava al catechismo sperando di potersi rannicchiare nell'angolo lontano della stanza mentre gli altri intonavano un Gloria Patri, Di quelle donne che pensi che siano state create per materializzare sulla crosta terrestre la fragilità femminile. L'altra si chiamava Setayesh, iraniana, nascondeva male la sua pelle olivastra sotto una corposo strato di cipria chiara. Aveva la mia età, bella e sorprendente come un trompe l'oeil quando se ne scopre lo spessore, e quando sorrideva sembrava che quella bocca non potesse fare altro nella vita. Era l'unica che capivo subito e al primo colpo: si rivolgeva a me con tutta la flemma di cui era capace, scandiva le parole perfettamente ed io potevo finalmente capire quando finiva una parola e ne iniziava un altra. Gli altri parlavano velocemente ed io ero costretta a difendermi con un “Sorry?”, loro ripetevano la frase come se stessero insegnando ad un infante a dire m-a-m-m-a, c-a-c-c-a, p-a-p-p-a. E urlavano nel ripeterlo, come se alzando di 3 toni la voce riuscissi a capire meglio, ignorando che non capire l'inglese non significa essere sordi. Setayesh invece aveva capito tutto e si rivolgeva come se il mondo non avesse fretta e impiegava tutto il tempo necessario per dire una frase che gli altri avrebbero liquidato in 2 secondi e mezzo. E poi c'era Dulcinea, che era quella che aveva il turno più lungo là dentro, era l'ultima ad andare via, ma l'aveva scelto lei e aveva diritto a tutti i break che voleva, oltre al fatto che veniva aiutata da tutti a svolgere il suo lavoro di “cleaner”: puliva tutto, dai vetri alla moquette, dalle tazze del caffè alle scrivanie dei dipendenti. Quel giorno ero particolarmente annoiata, pochi meeting e io avevo finito di leggere anche le istruzioni per l'uso della macchina del caffè, in tutte le lingue, ovviamente. Perciò presi un panno in microfibra dal carrello di Dulcinea, svuotai i pensili del back office e li pulii da cima a fondo. Quando mi accorsi che Dulcinea era sulla porta che mi guardava, io ero impiccata su una sedia cercando di pulire l'ultimo ripiano dove erano stipate 473 varietà diverse di ottimo the. Cominciò a parlare, mi chiese delle cose, parlando un po' in spagnolo, un po' italiano e un po' in inglese. Mi guardava come se fossi lo spettro di Nessie che usciva dal pelo dell'acqua. Si sorprese quando le dissi che ero sarda e si chiedeva come potessi resistere in un posto come Londra, dove il sole è familiare quanto una geisha in Vaticano. Esplose in una risata quando le dissi che mi piaceva studiare. La guardai bene in quella risata e mi accorsi che le mancavano due incisivi nell'arcata inferiore e un canino in quella superiore. Quasi avesse intuito la traiettoria dei miei occhi si mise una mano sulle labbra e disse che non rideva quasi mai perchè le mancavano dei denti. Mi sentii colpevole come se avessi rubato un gelato ad un bambino, cercai di dirle che non era importante, che era comunque bellissima (il ché era vero) e mi disse che li avevi persi per via dell'ex marito. Aveva divorziato dopo l'ennesima lite dove lui l'aveva presa a pugni facendole cadere tre denti, spaccandole il naso e altre cose che non capii. Mi sentii come se avessi avessi fatto cadere un litro di sangue sopra un tappetto immacolato. Restai in silenzio, tenendomi dentro una valigia ingombrante di parole in italiano, senza riuscire a tradurle in un suono che somigliasse all'inglese. Se ne accorse ed esplose in un'altra risata, senza coprirsi la bocca, rovesciando la testa all'indietro come se quella risata contenesse la potenza di un geyser, che esplode fisiologicamente, perchè è necessario che esploda. Mi disse che era tutto finito, che ormai non le faceva più male, che aveva un compagno qua a Londra, che stava bene. Don't worry darling, disse, ho fatto bene ad ablar con tu, tu comprendi me, tutto perfecto e io contenta. E se ne andò ringraziandomi per svolgere anche una parte del suo lavoro (una parte infinitesimale, aggiungo io), trascinando con se la sua gonna scozzese, la camicia stretta su un seno prorompente, pronto a esploderle sul collo se non avesse tenuto aperti i primi due bottoni. Svolazzava col suo carrello da infermiera in quel corridoio lungo e bianco, canticchiava, ondeggiando con la testa, quasi volesse buttare dietro di se una storia infelice. E del resto è prerogativa delle donne fare dell'amarezza un fardello da legare stretto con lo spago di un sorriso, e buttarselo alle spalle, così come facciamo con un foulard annodato male. Avrei voluto scoprire altro di quel posto, le storie che si celavano dietro quel velo di ovatta, scoperchiare tutto per scoprire che dietro una splendida facciata esistono anche lacrime e tristezza, ma quello era il mio ultimo giorno di lavoro. Smontai la macchina del caffè: i meeting alle 19 finiscono e i businessman finiscono il loro lavoro. Alcuni di essi li puoi rivedere all'uscita, seduti al pub dell'angolo con una pinta di birra grande quanto una cisterna, con la cravatta legata in vita, come se quella presunzione fosse rimasta incollata alle pareti di una meeting room chiamata Florence. In quel posto non potevi mai accorgerti che qualcuno entrava o passava davanti al back office del caffè: era tutto coperto da uno strato gigantesco di moquette color pantegana che attutiva ogni rumore. Se Dulcinea avesse rovesciato il suo carrello di tazze e cristalli su quella moquette soffice, avrebbe fatto più rumore la sua risata che il fragore del vetro. E così mentre avvolgevo il filtro della macchina in un canovaccio immacolato e asciutto, sentii un colpo di tosse alle mie spalle. Che cazzo, pensai, in questo posto non potrei mai scaccolarmi in santa pace, mi ritroverei qualcuno dietro a contare la consistenza delle mie secrezioni nasali. Era Setayesh “Sorry...darling, would you be able to please work till the rest of the week for us?” Questo è quello che riuscii a capire, forse, ma non ne sono certa. Però capii il senso e dissi Yes, sono available. Lavorare per il resto della settimana...yes, ok. Avrei voluto chiederle perchè. Perchè anche il resto della settimana? Non doveva tornare la ragazza? Stava male? Mi stavo traducendo le parole da dirle ma lei mi spiegò che la ragazza stava ancora male e che sarebbe tornata la settimana successiva. Mi disse che piacevo a tutti (a tutti...chi?? E perchè??) e che mi ringraziavano tantissimo per l'aiuto che stavo dando (ma quel posto ruotava intorno ai miei caffè?? Ma anche no!) e che era felice di vedermi l'indomani (manco fossi Camilla, che tutti la vogliono e nessuno la piglia). Dissi solo thank you. E basta. Mi guardò come se volesse togliermi la faccia da imbecille che avevo indossato per l'occasione e mi disse “your smile...”...eh?! che cosa ha il mio smile? Il mio sorriso piaceva a tutti, era quella la mia forza, disse, e se ne andò col suo impermeabile nero e la cartella che le danzava a fianco. Che cazzo ha il mio sorriso?! Presi il thermos argentato del caffè e mi specchiai nel coperchio: ho un sorriso da imbecille, ho anche gli incisivi un po' distanti, forse anche troppo grandi, ho un sorriso cazzaro che quando lo vedi pensi che appartenga ad una cretina integrale, senza conservanti. Uscii contenta per non so quale ragione, o forse solo perchè quel posto era una fucina di storie e un susseguirsi di scoperte, ed io sono avida di vita vera. Incontrai al secondo piano Dulcinea, chiusa dietro la porta a vetri che passava il Vetrill col Financial Times, si appese a un'anta e mi urlò che non ero più “la ragazza del caffè” ma ero diventata “la ragazza italiana sorridente” e mi salutò sventolando il foglio del giornale. Ero contenta: nonostante il cambiamento, il salto enorme che avevo fatto nel venire in questa giungla di metropoli, non avevo perso quella cicatrice assurda che contraddistingue il mio volto: il sorriso. E me lo portai a spasso nella strada che mi portava alla Tube, pensando che in fondo questi denti irregolari e queste labbra sono sempre stati i miei migliori compagni di viaggio. E non mi importa se a volte piango: ogni sorriso va innaffiato di lacrime per poter crescere al meglio. Quella sera, sorridendo, tolsi un chiodo dal muro e cucinai patate. 

venerdì 27 settembre 2013

Le bugie delle stanze di incontri

Senza molta fretta decido di cercare lavoro a Londra. Un esiguo gruzzoletto messo da parte mi permette un'autonomia di qualche mese, tanto da finanziarmi questa vacanza-studio, ma se trovassi un lavoretto?! Che fai, te ne privi? Oltre ai Job Centre (paragonabili ai nostri Centri per l'impiego ma straordinariamente funzionanti) esistono delle agenzie private che ti trovano lavoro part time, un po' come le nostre agenzie interinali, però funzionanti anche queste. Così decido di rivolgermi ad un'agenzia, non avendo voglia di addentrarmi nei meandri di Gumtree e interview varie. Mi venne in mente di rivolgermi ad un'agenzia italiana, cosa che tutti mi sconsigliarono. La differenza fra le agenzie private italiane e inglesi sta nella politica che le supporta. Le agenzie italiane si basano su questo presupposto: tu, lavoratore, vuoi un lavoro? Bene, paga 100 sterline e noi ti troviamo un lavoro. Le agenzie inglesi si basano su un altro presupposto: tu, datore di lavoro, hai bisogno di un lavoratore? Paga 100 sterline e ti troviamo un lavoratore. Ovviamente scelsi un'agenzia inglese, completamente gratuita per me (ma non per chi voleva assumermi) che dopo un test, mi inserì nelle sue liste, dicendomi che mi avrebbero chiamato quando qualcuno avrebbe richiesto il mio profilo di cameriera. Esattamente all'indomani della mia iscrizione ricevetti la telefonata di Willy dall'agenzia. Mi disse di munirmi di divisa “black and white” e di andare in un certo posto per una giornata di lavoro. Arrivai stralunata come chi non ha mai fatto la cameriera nella sua vita, dimenticandomi che sono diventata Chef de rangue pur di pagarmi gli studi all'università. Arrivata a destinazione mi chiesi se per caso non avessi sbagliato indirizzo. Il posto non era un ristorante ma un grande e splendido palazzo in una via famosissima di Londra. Guardai il messaggio di Willy sul cellulare: il posto era giusto. Entrai e mi trovai di fronte una gigantesca hall con uno stewart sdraiabile che mi accolse. Dissi chi ero e chi cercavo, lo gnocco mi diede un pass con un numero e disse “third floor”. Un altro mi mostrò i 4 ascensori più avanti. Ma io ero affascinata da tutto quello scintillare e passai oltre gli ascensori finchè il tipo che me li aveva indicati non venne a recuperarmi e mi fece entrare in ascensore. Dove cazzo ero finita?!? Arrivai al terzo piano e ai lati del corridoio c'erano due porte, una con la scritta che cercavo. Entrai e mi accolse un ragazzo con un gigantesco “Haaallooooooo!” mi disse che mi stavano aspettando e che ero persino in anticipo e che ciò era straordinario. Quel posto poteva essere tutto fuorchè un ristorante. Quel ragazzo era il mio manager e si chiamava Manuel. Le receptionist mi salutarono come se fossi la regina in carne e ossa. Ero confusa e un leggero mal di testa cominciava ad emergere dal mio cranio in subbuglio. Manuel mi fece entrare in un back office splendente e mi spiegò il lavoro. Mi disse anzitutto che era colombiano, che si occupava dell'organizzazione delle “meeting rooms” nelle quali avrei dovuto lavorare. Coooosaaaaa? Meeting rooms?! Tradussi alla lettera “stanze di incontri”. Dove cazzo mi ha mandato Willy? Quel pirlone integrale dell'agenzia per chi mi ha preso? Dovevo spiegargli che ho appeso la patata al chiodo e io non faccio certe cose! Meeting rooms?! Che incontri fanno in questo posto? È un hotel? Ma che hotel? Perchè si incontrano? Manuel si rese conto della mia faccia da imbecille e capì che non avevo mai sentito parlare delle “meeting rooms”. Mi spiegò che in quel posto i businessman si incontrano per affari. Per la cronaca la sera stessa con una semplice Googlata scoprii che Londra è piena di Meeting Rooms, c'è persino un sito simile ad Hotel Bookers che ti cerca le Meeting Rooms più fighe o più economiche della City. Quando lo scoprii mi sentii profondamente ignorante. Ma ancora non lo sapevo e il discorso del mio manager Manuel non mi convinceva. Mi spiegò il mio compito: visto che ero italiana dovevo fare il caffè e mi presento una macchina oscena da dove usciva quell'acqua brodosa e puzzolente che osano chiamare caffè. Mi sentii offesa e riuscii a dirgli in un inglese orribile che noi italiani facevamo il caffè “espresso” non questo caffè. Sorrise e mi disse che avevo ragione, anche se a suo dire il caffè colombiano era migliore. Lascia perdere bello de zia, che è meglio, dissi fra me e me. Mi presentò il mio monitor dove c'erano una ventina di colonne, a ciascuna corrispondeva una stanza, ciascuna aveva il nome di una capitale, quando c'era un meeting compariva un pallino blu o bianco: blu clienti esterni, bianco interni che incontravano esterni. Nel pallino c'era scritto numero dei clienti, nome e ora di inizio. 20 minuti prima di tale orario io avrei dovuto riempire un thermos argentato di caffè schifosamente acquoso, uno di acqua calda per un eventuale the, e portarlo nella stanza ancora vuota. Quando il pallino diventava rosso significava che la riunione era finita, dovevo entrare nella stanza vuota, prendere i miei thermos e uscire in attesa di altri pallini blu, bianchi o rossi. Lo guardai come se mi stesse pigliando per il culo in maniera paradossale, e gli chiesi: e poi? E poi “stop” mi disse. Non mi convinceva, questi cazzo di incontri....mmmhhhh....puzzavano strano, non è che fra un thermos e l'altro dovevo fare la danza dei 753 veli? O andare sotto la tavola rotonda per cercare la spada di Re Artù? Manuel mi fece fare un giro nelle 25 stanze coi nomi delle capitali mondiali: con mio grande disappunto non c'era Roma, ma in compenso c'erano Firenze e Venezia. Feci il primo caffè, andai a Barcellona e portai i thermos. Dentro non c'era nessuno, a parte un tavolo splendido, delle sedie girevoli, un divano, un frigo bar, delle tazze, the e zucchero sul tavolo, fiori freschi sul ripiano e un panorama mozzafiato dalla finestra. Non era possibile che il mio lavoro consistesse solo in questo. Nella prima ora di lavoro la noia si tagliava a fette spesse come un Pan di Spagna farcito di crema Chantilly. La ragazza spagnola che passava dopo di me doveva ritirare le tazze e pulire la stanza (da cosa doveva pulirla?! Era più sterilizzata della rianimazione del Gemelli!) ma spesso non c'era: la vedevo appesa al cellulare, messaggiando forse col principe color puffo. Quindi le prime volte portavo via le tazze, considerando che non avevo una beneamata minchia da fare. Quando mi vide portare via le tazze, venne da me e si presentò: si chiamava Dulcinea ed era spagnola, dell'Estremadura per l'esatezza. Mi ringraziò anche in cirillico per aver portato via 2 tazze. Io non sapevo cosa rispondere: erano 2 tazze del picchio, santi numi! Non stavo facendo niente e pensavo di morire di noia, ancora non credevo che mi pagassero per non fare un cactus in quelle ore di lavoro! I signori incravattati si succedevano, li incrociavo in corridoio, mi sorridevano, a volte venivano senza prenotare la stanza, si illuminava un pallino giallo, voleva dire che c'era un cambio di programma improvviso. Portavo i thermos, bussando prima alla porta e chiedendo scusa, e loro mi ringraziavano come se stessi portando oro, incenso e mirra. Poi venne la mia boss. Una donna irlandese che dirigeva le meeting rooms di questa immensa azienda. Mi trovò che preparavo il filtro da 6 litri di caffè visto che stava per finire. Avevo le maniche della camicia bianca appena tirate su per non macchiarmi e nel mio polso sinistro risplendeva un cerchio rosso, visibile come un sacco di torba su valle innevata di soffice neve. Era il mio tatuaggio della falce e martello su uno sfondo rosso: il primo dei miei 9 tattoo che porto stampati sul mio minuscolo corpo. Certo che quel tatuaggio era uno schiaffo sul muso a tutto quell'estremo capitalismo che circolava in quelle stanze. Non lo nascosi, la mia boss mi stava alle spalle, sentivo che lo fissava, mi diceva che aveva saputo del mio arrivo in anticipo a lavoro e che ciò era lodevole e lo aveva apprezzato molto, e di questo l'azienda ne avrebbe tenuto conto. Premetto che ero arrivata con 10 minuti di anticipo e non 27 ore prima. Imbarazzata risposi qualcosa che non ricordo. Tutta questa cortesia mi devastava: non c'ero abituata. Mi chiese se volevo fare un break, che dovevo essere sicuramente stanca. Pensai che da 1 a 10 mi stesse prendendo per il culo almeno 13 o 14. Le dissi che no, non ero stanca, assolutamente no. Mi disse che l'azienda metteva a disposizione tutto, tutto era free, potevo prendere tutto ciò che c'era in frigo, andare nell'altra ala dell'azienda e prendere ciò che c'era e se non bastava andare al piano di sotto, sempre dell'azienda, e mangiare nella sala che l'azienda metteva a disposizione dello staff. Dissi che stavo bene e la ringraziai. Quando andò via pensai che ci doveva essere una fregatura: non potevano pagarmi per annoiarmi davanti a una gigantesca macchina di caffè aspettando che un pallino si illuminasse sullo schermo e offrirmi anche break e snacks. Mi chiedevo come potevo spiegare tutto questo a mia madre, le avrei detto una bugia: mai avrebbe capito cosa sono le meeting rooms e quale fosse il mio ruolo! Comunque era solo un giorno, una bugia di un giorno non fa mai male (maledetto retaggio culturale cattolico che impedisce al mio ateismo di dire comunque bugie!). Verso le 4 di pomeriggio arrivò il manger Manuel, mi disse se l'indomani avevo impegni di lavoro. No, non ne ho, perchè? Perchè la ragazza che aveva preso un giorno di malattia per visite mediche in realtà ne aveva preso due. Quindi la boss lo aveva chiamato e gli aveva detto che era molto contenta di me, lui le aveva confermato che anche a lui piacevo molto e avevano telefonato in agenzia chiedendo se l'indomani potevo andare nuovamente io, perchè ero perfetta. La mia risposta fu “Ah”. E pensai a mille cose, al mio tattoo che era stato visto ma che non era stato discriminante, al mio inglese impreciso e cacofonico a cui non avevano dato peso, alla cortesia estrema che tutti avevano usato...ed io mi sentivo così imbarazzata, non essendo abituata a venire ringraziata per svolgere un lavoro per il quale mi pagano. Uscii da lavoro frastornata e chiamai mia madre. Riporto di seguito la telefonata integrale:
-Pronto? -Ciao mà -Oh ciao, com'è? -Bene, stavo lavorando -Dove? -Ehm...in un fast-food...diciamo particolare, ecco -Particolare? Come particolare? Perchè? Com'è? Che succede? -Niente! È un fast-food...per pochi intimi diciamo -Che vuol dire? Dove sei finita? -Eccheccazzo, lasciami finire oh! Niente, il punto è che servo solo caffè in questo fast-food, punto! -Solo caffè? Perchè? E il resto? Perchè particolare? Per pochi intimi? In che senso intimi, poi?? -Oh ma niente, è un fast-food aziendale ecco e quindi... -E che azienda? -Ma non la conosci! È inglese, già non conosci le italiane! -Ma cosa fai tu in quel posto oltre al caffè? -Niente, solo caffè! -Come solo caffè?? Ma che fast-food è questo?? -Di un'aziendaaaaa! E ci devo andare anche domani perchè al manager sono piaciuta e.... -Come al manager sei piaciuta??? Chi è il manager? Che manager? -Il manager è il mio superiore, è un colombiano che... -Colombiano?? Quelli della cocaina?? -Ma cazzo, che discorsi razzisti! Non è che tutti i colombiani tirano piste quanto l'autodromo di Monza e sculettano come Shakira eh! Ti ricordo che la Colombia ha partorito anche quell'illustre premio Nobel di Gabriel Garcia Marquéz. Santi numi, togliti quel castello medioevale dalla testa e vedi di non fare del razzismo gratuito! -Ma non è razzismo, era un'esclamazione...di fatto com'è che sei piaciuta al manager? Perchè? -Oh senti, sto finendo il credito, ti chiamo domani che sto entrando in Tube e non prende -In tubo? Quale tubo? Cosa stai prendendo?! -Noooo la tube, la metro, capisci? -No, non capisco, ti richiamo se non hai soldi, aspe.. -No, non aspetto, ciao a domani, sto bene, sono una brava ragazza, guardo prima di attraversare la strada e stasera mangio leggero, ci sentiamo domani -Ma in che tubo devi entrare? O era tunnel? Fammi capire... -La metrooooooooo! Sto entrandooooo! A domani mà! -Ma chi è il manager? È perchè pochi intimi? Ma che fast-foo..... -Ciaooooo cilck!
Non oso pensare a cosa sarebbe successo se avessi detto “mamma, oggi e domani lavoro nelle stanze di incontri: era la volta buona che mia madre veniva a bordo di un cormorano motorizzato, a prelevarmi dalle grinfie della perfida Albione e a trascinarmi per i capelli in Sardegna, relegandomi a vita dentro il nuraghe reale di Santu Antine. Diciamo la verità: le bugie servono a regalare alle mamme un sonno sereno, e se ci fosse un Dio oggi mi strizzerebbe l'occhio e direbbe “Brava Sfiggy, portami un caffè che quassù fa freddino”.

 

mercoledì 25 settembre 2013

La ricchezza insondabile di "E sti cazzi".


Il mio viaggio a Londra aveva lo scopo preciso di imparare l'inglese. Quando viaggio all'estero i miei interlocutori, sentendo il mio inglese cacio e pepe, esclamano "italiana?". Insomma ci riconoscono ovunque per questa nostra chiusura linguistica. Ed io faccio parte di quella grande schiera di persone che fuori dall'Italia si esprime con "Sorry, the street per andar alla station?...how much costa the panino?...I want buy quello, quel coso in alto, you understand?". E decido di sfidare i miei 41 anni e andare a studiare un po' di inglisc. La prima parola nuova che ho imparato a Londra è stata fucking hell. La traduzione sarebbe tipo "porco inferno" ma qua molte cose sono intraducibili, quindi fucking hell è un misto fra "porca Santanchè" e un pizzico di altri idiomi italici. Ero nella mia camera al piano di sopra e il mio coinquilino croato urlava fucking hell al PC, avendo appena perso la sua paga settimanale alle scommesse...perché questo è il paese delle scommesse: si scommette anche sul numero di peli pubici dell'erede al trono o sulla consistenza della cacchina del neonato reale George. Non mi soffermo sulla pronuncia dell'inglese parlato, so solo che anche se rimanessi a Londra per 157 anni non riuscirei mai a pronunciare perfettamente certe parole, con quel suono gutturale e lungo, tipico di chi ha un malore in corso. Anche il saluto "hi" non è un semplice "ai" ma è "hhaaaaiii" dove tutto è molto lungo e cantilenato che sembra il lamento di chi sta facendo una ceretta all'inguine. O la pronuncia di "your" dove la R finale non si legge mai e diventa "iooaa..." con un suono finale che somiglia al respiro affannato di chi ha subito una tracheotomia. No, non ce la farò mai. E mi manca la rotondità armonica del "ciao" quella parola meravigliosa, senza sbavature, che ha suggellato i migliori incontri della mia vita. Sono certa che riuscirò a capire l'inglese, magari riuscirò anche a fischiarlo, ma non a parlarlo con questo accento luuuungo che mi risulta cacofonico. E mi manca l'italiano, la mia splendida lingua che conosco bene, coi suoi tranelli, io che mi diverto a cucire le parole, a giocarci come fossero farfalle che devo inseguire e poi disegnare...è la mia lingua questo italiano bello e ricco di regole, così completo e pieno nella sua etimologia, la sintassi, il lessico pulito...è la mia lingua e io la amo, perché vivo di parole, sono la mia aria. Ed è un dolore immenso avere dentro migliaia di parole, concetti semplici o astratti, sensazioni ed emozioni, e non riuscire a esprimerle in questa lingua: l'inglese. Soffocare la ricchezza di un pensiero perché non so tradurlo, non so come comporre la frase, e quando ci riesco il concetto perde la sua forza nella traduzione. Un esempio: in una conversazione avrei voluto rafforzare un concetto dicendo "è lapalissiano" oppure "palese". Così ho cercato sul dizionario. In linea generale si traduce con "evident" o "self-evident". Eeeeeeeehhhhhh? Cioè una parola meravigliosa come "lapalissiano" si traduce con un semplice "self-evident"? Scherziamo? Lapalissiano ha una storia lunga alle spalle, coniata in onore di Jacques de La Palice, maresciallo che morì intorno al 1500 nell'assedio di Parma ma che, a differenza di quanto si crede, La Palice non diceva cose ovvie. I suoi soldati scrissero un improbabile poesia-necrologio (fra l'altro frutto di un refuso) dal finale "se non fosse morto sarebbe ancora in vita" la cui ovvietà è chiara come una goccia di yogurt sull'ardesia di una lavagna. Perciò la parola "lapalissiano" ha l'etimologia derivante dal maresciallo La Palice e da questa perla ricavata dalla sua morte. A seguito della condanna di Berlusconi nel processo Mediaset, io direi che è lapalissiano che Silviuzzo sia colpevole. Ecco, uso un termine che rafforza il concetto. Questo non potrei mai farlo in inglese. Ho capito così che l'inglese è povero, ma ciò che per me è “povertà” per il resto del mondo è “semplicità”, ed ecco perchè l'inglese è una lingua ormai universale: la sua semplicità è la sua arma forte che ne facilita la diffusione. Allo stesso tempo ho capito che la mia lingua è ricca. Il fatto che l'italiano lo parliamo solo noi poco importa, ma è una lingua splendida con un lessico straordinario e una bellezza poetica come poche. E sarà forse questo amore per la mia lingua a bloccarmi nell'apprendimento di una nuova...il linguaggio, questo strumento meraviglioso che è un ponte che mi congiunge agli altri, questo mio giocare con le parole, intrecciandole come trama e ordito, fino ad ottenere un tessuto variopinto del quale io mi vesto. E poi vogliamo mettere la poesia, la completezza, la sonorità nell'esclamare soavemente "e sti cazzi" invece che un cacofonico e incompleto "fucking hell"?

sabato 21 settembre 2013

Il paese dei balocchi obesi


La prima volta che entrai in un supermercato a Londra (Tesco) mi sembrò di essere nel paese dei balocchi. La prima cosa che vidi fu l'espositore doughnuts delle Krispy Kreme. Ciambelle colorate che sembravano uscite dalla penna fantastica dei fratelli Grimm: Hansel e Gretel sarebbero rimasti abbagliati più dalle ciambelle rosa con i crunchy sopra la glassa che dalla casetta di marzapane. Ovviamente non ho resistito. Girovagando nelle corsie tutto mi sembrava nuovo e strano: colori sgargianti per un semplice pacco di salviette o di the. Prodotti sconosciuti dei quali ignoravo l'esistenza. La cosa che mi saltò all'occhio fu che i cioccolati/snacks/schifezze erano la cosa più economica di Londra: ci mancava solo che te li tirassero sulle gengive urlando “pirla, prendili che te li stiamo regalando!”. All'uscita del supermercato diedi un rapido sguardo alla folla e trovai conferma visiva del fatto che i dolciumi costavano meno di un calcio in culo: la maggioranza delle persone davanti al mio orizzonte erano maledettamente in sovrappeso. Le ragazze di 20/30 anni sembrava avessero ingoiato una mongolfiera o che fossero state riempite di elio, mi aspettavo che si librassero in aria come i palloncini paffuti alle feste cittadine. Io che peso solo 46 kg sembravo una nocciolina puffa in una pista di angurie mastodontiche che rotolavano per inerzia. Col tempo ho capito che tutto a Londra è “flavoured”, ogni cioccolato, ogni snack, persino l'acqua e le bibite sono aromatizzate, sono al gusto di qualcosa. Quando ho visto una Fanta color viola-lilla ho pensato a una partita di bibite scadute. Poi ho visto la Coca Cola alla vaniglia e ho capito che a scadere era il gusto. Anche l'acqua è al gusto cocco, mango, fragola e cazzi flavour. Oppure le patatine: ci sono anche al gusto cocktail di gamberi! WoOoOoW devono essere una goduria per le papille gustative! O vogliamo parlare dei pop corn al gusto toffee?? No, non parliamone, mi appello al V° emendamento. Oppure i cioccolati con le bollicine? Ci sono quelli che hanno il disegnino di un cioccolato che sprigiona una tempesta di gas marrone come la Coca Cola, oppure con le bollicine verdi...ma non riesco a immaginare una cosa commestibile che sia verde e frizzante. Ma il piatto forte sono i cibi in scatola. Una randellata al setto nasale non potrebbe essere più dolorosa della visione di polpette in lattina. L'immagine truculenta di palle di carne (meatballs) grondanti di sugo al pomodoro racchiuse in un contenitore metallico, sembrano invocare un Big Bang nello scaffale, affinchè possano esplodere e schizzare fuori, finalmente libere di rotolare verso qualche discarica. E infine gli Spaghetti Hoops. Beh?! Che c'è? Non avete mai mangiato i “cerchi di spaghetti”?! Come no?? I famosi spaghetti ad anello in salsa di pomodoro, tipico piatto italiano, prodotti dalla rinomata “Campo Largo”. Campo Largo...ma chi caxxo sono?! Ma davvero gli inglesi pensano che le nostre polpette al sugo le mettiamo in un barattolo? O che facciamo gli spaghetti a forma di cerchio per essere comodamente racchiusi in una lattina tonda?

A onor del vero, devo ammettere che non tutti i prodotti italiani sono così maltrattati. Orsù, non voglio fare la campanilista, suvvia! Esiste anche la pasta italiana, quella vera. Che fortuna! Quando l'ho vista mi sono avventata sopra un pacco di penne rigate come una poiana alla vista di un topo di campagna. E infine ho trovato la famosa Pasta Napolina. Embè?! Che c'è?? Non la conoscete?!?! Non sapete cosa vi perdete: tiene la cottura quanto una chewing gum sopra un barbecue con piastra al cromo. Sorridete ragazzi: questo è il paese dei balocchi e in quanto tale bisogna saper giocare anche col cibo. Ma...non sarà mica che qua mi diventano obesi anche i balocchi?!?







giovedì 19 settembre 2013

Londra è bella. Anche se non ha il bidè?!

Cominciamo a sfatare i miti di Londra. Personalmente non ho mai sentito nessuno dire "Londra fa schifo", bensì l'esatto contrario. Tutti sanno tutto ciò che c'è da sapere e da fare a Londra. Beati, io non so una beneamata mazza, e quindi mi sono messa in testa di partire e fare un paio di mesi fuori dal perimetro dello stivale per conoscere quantomeno il suono reale di un “I love you” detto come si deve. Il tutto con gli occhi di una 40enne innamorata del proprio paese (ma molto meno dei propri politici) e con una dose di imbecillità congenita a farmi da supporto. Tutti mi avevano avvisato che aprire un conto in banca a Londra somigliava alla traversata del deserto del Lut in solitaria e con un cappotto di montone muschiato addosso: un'impresa impossibile! Dopo 2 ore a Londra avevo un conto alla Barclays: sembrava stessero aspettando le mie miserabili sterline per risanare il loro bilancio. Dopo 6 ore avevo una camera, un contratto d'affitto, una Sim inglese e svariate altre cosucce, fra cui un'emicrania reale dovuta all'insieme di novità che mi cadeva addosso insieme alla pioggia. Questa facilità nell'espletare le pratiche burocratiche mi ha fatto capire che in questa città ciascuno ha un'esperienza tutta sua, mai paragonabile a quella altrui, e che quando si mette piede sul suolo della City ci si deve scordare di tutte le dritte che gli illuminati ti hanno dato prima. E poi bisogna prepararsi ad affrontare questa giungla, purtroppo armati solo di cerbottana fatta con penna Bic e pallottole di carta e saliva. E sperare che God save the Queen...o comunque se non può salvare i Queen che almeno salvi David Bowie e gli Off License aperti fino alle 2 di notte. Che Londra sia splendida è una sacrosanta verità, ma anche Roma lo è, così come Berlino o Lisbona, perciò scevra da qualsivoglia esterofilia, mi addentro nella giungla londinese e scopro quanto è difficile essere italiani all'estero, a cominciare dall'imbarazzo politico che ci perseguita oltre confine. La prima fase di adattamento riguarda le dimore londinesi, sconsigliate a chi soffre di allergie agli acari: la moquette regna sovrana insieme alla Regina Madre. In svariate sit-com avrete notato che gli inglesi quando camminano in casa fanno un casino della malora. È tutto vero: il pavimento è di legno, con o senza moquette sopra, ma è di legno. Puoi camminare anche in punta di piedi, ma i tuoi coinquilini sapranno comunque che sei andata al cesso alle 3 di notte, perchè c'è sempre una trave che scricchiola anche se sopra si posasse una farfalla. Le finestre sono esattamente come si vedono nei film: basta uno spadino, un cacciavite, e si aprono dall'esterno come fossero albicocche mature. Le pareti sono perlopiù in cartongesso: ho scoperto che il mio coinquilino fa le puzzette soft, regolarmente, alle 2:15, alle 3:25 e alle 3:48 di notte, senza aver avuto bisogno di appoggiare il classico bicchiere alla parete. Ma il dramma maggiore è l'assenza del bidè. Per me che faccio le abluzioni genitali anche dopo una semplice pipì è stato uno shock drammatico. Ormai quando entro in bagno mi tolgo prima le scarpe, poi pantaloni e mutande. Una volta evacuato l'evacuabile mi inserisco nella vasca da bagno vestita a metà, e poi torno a vivere. No, non è pratico per niente, ma l'idea di andare in giro con tracce di marron glacé nelle parti intime non mi fa sentire serena. Quindi la prima cosa da fare quando arrivate a Londra è munirvi di salviette intime umidificate e profumate per le emergenze, e sperare che non vi venga mai la dissenteria. MAI. Ma comunque Londra è bella.

Se il buon viaggio si vede dal mattino...

Sentii dei passi felpati sopra la mia testa e nel dormiveglia pensai che la signora Cunegonda a breve avrebbe messo in moto il suo aspirapolvere dal suono poetico (un misto fra la sinfonia di un Caterpillar e la soavità di un trattore New Holland). Invece sentii “Good morning honey!” e la faccia sorridente di Steven che usciva per andare a lavorare. No no, scusate, come son finita qua?! Questo non è il mio letto al 3° piano di una palazzina qualsiasi a Tor Pignattara...e ritrovarsi a Londra quasi per gioco! Raccolsi i pensieri e il Kindle dalla moquette e mi feci accarezzare da uno splendido raggio di sole che filtrava dalla finestra. E un raggio di sole a Londra non è così tanto comune, che si sappia! Dalla finestra un'insegna verde “East London Sausage” e un ristorante italiano al posto del kebabbaro, le mie valige ancora accanto alla porta, un cuscino rosso con l'impronta del mio cranio sul divano di Alex. Tutta la strada fatta per arrivare lì si era come sciolta su un qualsiasi volo economico della Ryanair ed io non sapevo neanche come si diceva “Sua maestà la Regina”, in un paese che ancora chiede a Dio di salvare una signora col diadema. Diedi il mio BUONGIORNO a Twitter, quel circo virtuale dove sparo cartucce a salve, quasi a voler riprendermi un po' di normale quotidianità. Sentii i passi di Alex al piano di sopra e lo aspettai come fosse la miglior persona che il destino in quel momento potesse offrirmi. Questo ragazzo che ho visto crescere e poi scappare dalla Sardegna, ritrovarlo a Londra, sereno e sicuro di sé in questa dimensione che divide col suo ragazzo Steven. Questo ragazzo che potrebbe essere mio figlio, che mi ha spalancato la porta e le braccia, che in quel momento era l'unico a potermi dare la sicurezza di una carezza in una città dai tentacoli smisurati e sconosciuti. Comincia così questo mio viaggio, del quale voglio tenere un diario di bordo, al fine di non ritrovarmi dall'altro capo del mondo senza sapere come ci sono arrivata. Comincia con questi due ragazzi splendidi che si baciano in una foto qualsiasi appesa alla parete grande, con una signora che urla per strada qualcosa che non capisco, con un negozio di salsicce che emana un odore da rutto imperiale e con Alex che prepara il caffè cantando “Se hai la muzza tu lo sai, la muzzolina più che mai...”. Buon viaggio amica Sfiggy.