Lo ammetto con un po' di vergogna: sono sempre stata una
secchiona. A scuola ero la più casinara ma anche la più secchia di
tutti. Sarei stata lo zimbello della classe se non avessi avuto una
dose di infinita imbecillità rigogliosa in me, rendendomi talvolta
simpatica quanto una ginocchiata allo sterno. Londra ha il merito di
avermi fatto sentire una perfetta ignorante, anzitutto per la lingua
che non riesco a deglutire, e poi per i meccanismi, i modi e la
cultura che mi sono totalmente sconosciuti. Ma sono sempre la
secchiona di turno, ergo cerco di mettermi al passo di questa bolgia
cosmopolita. La questione delle meeting Rooms dove avevo appena
lavorato aveva leso la mia autostima in maniera indelebile. Quando
tornai a casa dal lavoro mi buttai sul computer e chiesi a Google
delle mie brame qualcosa in più di queste stanze di incontri. Sentii
improvvisamente che la mia ignoranza era profonda quanto la fossa
delle Marianne e non quanto il lago Coghinas. L'indomani andai a
lavoro con l'intento di colmare questo vuoto di conoscenza
agghiacciante. Appena arrivata le receptionist mi accolsero col
sorriso da paresi cronica che è appannaggio di queste splendide
creature preposte all'accoglienza. Manuel mi informò che avevamo
pochi meeting quel giorno. Annamo bene, pensai, già ieri ho avuto il
tempo di leggere anche gli ingredienti dei muffins al cioccolato e
del disinfettante nella cassetta del pronto soccorso, oggi avrò il
tempo di leggere persino l'etichetta degli slip e di contare quanti
granelli di detersivo poteva contenere una pastiglia di Finish
lavastoviglie. Ma ero intenzionata a conoscere il mondo sommerso
delle meeting Rooms, e così feci delle domande a Manuel, il quale
capì subito la mia curiosità e cercò di soddisfarla. In verità
non è che in queste stanze di incontri si decidessero le sorti del
mondo: gli uomini e donne che entravano lì dentro erano comuni
lavoratori di qualche azienda, incontravano nuovi o potenziali
clienti per vendere, proporre, acquistare, gestire o ideare un nuovo
prodotto, attività o collaborazione. Spesso erano colloqui di lavoro
per grandi aziende, dove i possibili candidati si avvicendavano per
accaparrarsi un lavoro di prestigio. Mi disse anche qualche nome
famoso della finanza e industria inglese, ma mi risultavano
sconosciuti, visto che per me l'inglese più illustre rimane comunque
David Bowie insieme a Kevin
Keegan.
Vista la mia faccia sorpresa, Manuel mi
chiese se le meeting rooms esistevano anche in Italia. Certamente
esisteranno, dissi, ma io non ne sono a conoscenza. Ah capisco,
rispose, in Italia ci si incontra nelle "bunga-bunga rooms",
ed rise. Lo avrei fiocinato quel colombiano anomalo, dalla pelle
talmente chiara che era lecito chiedersi se la mamma avesse fatto
collezione di relazioni extra coniugali con i tre quarti di stalloni
svedesi. La giornata si svolse con la noia che perforava ogni mio
poro tra un thernos di caffè e l'altro. Gli uomini strangolati da
una cravatta e le donne in bilico su tacchi a spillo si succedevano
nelle stanze. Li osservavo: quel posto non era affatto diverso da un
bordello. Entravano, mezz'ora o un'ora di amplesso, poi uscivano,
entrambi sorridenti ma uno dei due fingeva. Uno sorrideva perché
aveva appena spacciato l'inserimento di Jelly Beans frizzanti dentro
una salsiccia come la scoperta del secolo. L'altro sorrideva perché
comprando un prodotto da pattumiera era convinto di aver fatto un
buon affare. Le donne erano le più splendide in assoluto. Non
riuscivano a fingere il disappunto o la delusione, e salutavano il
malcapitato con uno sguardo che avrebbe incenerito anche Mazinga Z.
Eppure fingere in quelle circostanze sarebbe stato forse più
diplomatico...peraltro noi donne siamo avvezze a fingere una faccia
orgasmica stile Lady Godiva anche quando il piacere estremo non ci
sfiora. Oh no, ragazze, non fate quella faccia, su! Non ditemi che
non avete mai finto col vostro compagno di materasso neanche una
volta, orsù! Almeno una volta (è magari fosse solo una!) è
successo a tutte di fingere l'apoteosi dei sensi, facendoci venire la
raucedine a forza di ansimare smodatamente come se stessimo
partecipando alla StraMilano. E abbiamo tutte fissato il soffitto
pensando di ravvivarlo con una mano di vernice color pastello che si
intonasse bene con le tende. Io l'ultima volta fissai così tanto il
soffitto che mi accorsi che c'erano delle ragnatele fra il bulbo del
bastone della tenda e l'anta superiore dell'armadio. Per fortuna
avevo la tracheite e non ebbi bisogno di spolmonarmi più di tanto
nella sinfonia di vocali oh-ah-oh-ah, mentre la nemesi di Rocco
Siffredi si sperticava in acrobazie orizzontali, con l'agilità di un
toro nelle sabbie mobili. Però l'indomani comprai una scopa a punta
per le ragnatele e un chiodo; dove appesi la patata, imperituramente.
Ma queste donne erano cazzute quanto John Holmes, non avevano bisogno
di fingere, ti sparavano sul viso la loro insoddisfazione, prendevano
la loro 24 ore e si portavano dietro la loro straordinaria sicurezza
in una scia di profumo sensuale e ammaliante. No, quel posto non era
diverso da un bordello: ciascuno entrava in una stanza per comprare o
vendere qualcosa con la consapevolezza che di caldo in quella stanza
c'era solo il mio caffè. Mi avvicinai di più allo staff per cercare
di capire con che occhi loro vedevano tutto questo. Le due
receptionist erano due splendide creature, ogni volta che mi
chiedevano qualcosa era un susseguirsi di please, sorry, thank you e
apologize, nonostante mi stessero chiedendo qualcosa che era solo il
mio lavoro. Marianne era una goccia di latte con gli occhi verdi che
brillavano fino a riempire tutta la hall, scozzese, 26 anni, neo
laureata, avrei scommesso che era una di quelle bambine che da
piccola faceva il punto croce e andava al catechismo sperando di
potersi rannicchiare nell'angolo lontano della stanza mentre gli
altri intonavano un Gloria Patri, Di quelle donne che pensi che siano
state create per materializzare sulla crosta terrestre la fragilità
femminile. L'altra si chiamava Setayesh, iraniana, nascondeva male la
sua pelle olivastra sotto una corposo strato di cipria chiara. Aveva
la mia età, bella e sorprendente come un trompe l'oeil quando se ne
scopre lo spessore, e quando sorrideva sembrava che quella bocca non
potesse fare altro nella vita. Era l'unica che capivo subito e al
primo colpo: si rivolgeva a me con tutta la flemma di cui era capace,
scandiva le parole perfettamente ed io potevo finalmente capire
quando finiva una parola e ne iniziava un altra. Gli altri parlavano
velocemente ed io ero costretta a difendermi con un “Sorry?”,
loro ripetevano la frase come se stessero insegnando ad un infante a
dire m-a-m-m-a, c-a-c-c-a, p-a-p-p-a. E urlavano nel ripeterlo, come
se alzando di 3 toni la voce riuscissi a capire meglio, ignorando che
non capire l'inglese non significa essere sordi. Setayesh invece
aveva capito tutto e si rivolgeva come se il mondo non avesse fretta
e impiegava tutto il tempo necessario per dire una frase che gli
altri avrebbero liquidato in 2 secondi e mezzo. E poi c'era Dulcinea,
che era quella che aveva il turno più lungo là dentro, era l'ultima
ad andare via, ma l'aveva scelto lei e aveva diritto a tutti i break
che voleva, oltre al fatto che veniva aiutata da tutti a svolgere il
suo lavoro di “cleaner”: puliva tutto, dai vetri alla moquette,
dalle tazze del caffè alle scrivanie dei dipendenti. Quel giorno ero
particolarmente annoiata, pochi meeting e io avevo finito di leggere
anche le istruzioni per l'uso della macchina del caffè, in tutte le
lingue, ovviamente. Perciò presi un panno in microfibra dal carrello
di Dulcinea, svuotai i pensili del back office e li pulii da cima a
fondo. Quando mi accorsi che Dulcinea era sulla porta che mi
guardava, io ero impiccata su una sedia cercando di pulire l'ultimo
ripiano dove erano stipate 473 varietà diverse di ottimo the.
Cominciò a parlare, mi chiese delle cose, parlando un po' in
spagnolo, un po' italiano e un po' in inglese. Mi guardava come se
fossi lo spettro di Nessie che usciva dal pelo dell'acqua. Si
sorprese quando le dissi che ero sarda e si chiedeva come potessi
resistere in un posto come Londra, dove il sole è familiare quanto
una geisha in Vaticano. Esplose in una risata quando le dissi che mi
piaceva studiare. La guardai bene in quella risata e mi accorsi che
le mancavano due incisivi nell'arcata inferiore e un canino in quella
superiore. Quasi avesse intuito la traiettoria dei miei occhi si mise
una mano sulle labbra e disse che non rideva quasi mai perchè le
mancavano dei denti. Mi sentii colpevole come se avessi rubato un
gelato ad un bambino, cercai di dirle che non era importante, che era
comunque bellissima (il ché era vero) e mi disse che li avevi persi
per via dell'ex marito. Aveva divorziato dopo l'ennesima lite dove
lui l'aveva presa a pugni facendole cadere tre denti, spaccandole il
naso e altre cose che non capii. Mi sentii come se avessi avessi
fatto cadere un litro di sangue sopra un tappetto immacolato. Restai
in silenzio, tenendomi dentro una valigia ingombrante di parole in
italiano, senza riuscire a tradurle in un suono che somigliasse
all'inglese. Se ne accorse ed esplose in un'altra risata, senza
coprirsi la bocca, rovesciando la testa all'indietro come se quella
risata contenesse la potenza di un geyser, che esplode
fisiologicamente, perchè è necessario che esploda. Mi disse che era
tutto finito, che ormai non le faceva più male, che aveva un
compagno qua a Londra, che stava bene. Don't worry darling, disse, ho
fatto bene ad ablar con tu, tu comprendi me, tutto perfecto e io
contenta. E se ne andò ringraziandomi per svolgere anche una parte
del suo lavoro (una parte infinitesimale, aggiungo io), trascinando
con se la sua gonna scozzese, la camicia stretta su un seno
prorompente, pronto a esploderle sul collo se non avesse tenuto
aperti i primi due bottoni. Svolazzava col suo carrello da infermiera
in quel corridoio lungo e bianco, canticchiava, ondeggiando con la
testa, quasi volesse buttare dietro di se una storia infelice. E del
resto è prerogativa delle donne fare dell'amarezza un fardello da
legare stretto con lo spago di un sorriso, e buttarselo alle spalle,
così come facciamo con un foulard annodato male. Avrei voluto
scoprire altro di quel posto, le storie che si celavano dietro quel
velo di ovatta, scoperchiare tutto per scoprire che dietro una
splendida facciata esistono anche lacrime e tristezza, ma quello era
il mio ultimo giorno di lavoro. Smontai la macchina del caffè: i
meeting alle 19 finiscono e i businessman finiscono il loro lavoro.
Alcuni di essi li puoi rivedere all'uscita, seduti al pub
dell'angolo con una pinta di birra grande quanto una cisterna, con la
cravatta legata in vita, come se quella presunzione fosse rimasta
incollata alle pareti di una meeting room chiamata Florence. In quel
posto non potevi mai accorgerti che qualcuno entrava o passava
davanti al back office del caffè: era tutto coperto da uno strato
gigantesco di moquette color pantegana che attutiva ogni rumore. Se
Dulcinea avesse rovesciato il suo carrello di tazze e cristalli su
quella moquette soffice, avrebbe fatto più rumore la sua risata che
il fragore del vetro. E così mentre avvolgevo il filtro della
macchina in un canovaccio immacolato e asciutto, sentii un colpo di
tosse alle mie spalle. Che cazzo, pensai, in questo posto non potrei
mai scaccolarmi in santa pace, mi ritroverei qualcuno dietro a
contare la consistenza delle mie secrezioni nasali. Era Setayesh
“Sorry...darling, would you be able to please work till the rest of
the week for us?” Questo è quello che riuscii a capire, forse, ma
non ne sono certa. Però capii il senso e dissi Yes, sono available.
Lavorare per il resto della settimana...yes, ok. Avrei voluto
chiederle perchè. Perchè anche il resto della settimana? Non doveva
tornare la ragazza? Stava male? Mi stavo traducendo le parole da
dirle ma lei mi spiegò che la ragazza stava ancora male e che
sarebbe tornata la settimana successiva. Mi disse che piacevo a tutti
(a tutti...chi?? E perchè??) e che mi ringraziavano tantissimo per
l'aiuto che stavo dando (ma quel posto ruotava intorno ai miei
caffè?? Ma anche no!) e che era felice di vedermi l'indomani (manco
fossi Camilla, che tutti la vogliono e nessuno la piglia). Dissi
solo thank you. E basta. Mi guardò come se volesse togliermi la
faccia da imbecille che avevo indossato per l'occasione e mi disse
“your smile...”...eh?! che cosa ha il mio smile? Il mio sorriso
piaceva a tutti, era quella la mia forza, disse, e se ne andò col
suo impermeabile nero e la cartella che le danzava a fianco. Che
cazzo ha il mio sorriso?! Presi il thermos argentato del caffè e mi
specchiai nel coperchio: ho un sorriso da imbecille, ho anche gli
incisivi un po' distanti, forse anche troppo grandi, ho un sorriso
cazzaro che quando lo vedi pensi che appartenga ad una cretina
integrale, senza conservanti. Uscii contenta per non so quale
ragione, o forse solo perchè quel posto era una fucina di storie e
un susseguirsi di scoperte, ed io sono avida di vita vera. Incontrai
al secondo piano Dulcinea, chiusa dietro la porta a vetri che passava
il Vetrill col Financial Times, si appese a un'anta e mi urlò che
non ero più “la ragazza del caffè” ma ero diventata “la
ragazza italiana sorridente” e mi salutò sventolando il foglio del
giornale. Ero contenta: nonostante il cambiamento, il salto enorme
che avevo fatto nel venire in questa giungla di metropoli, non avevo
perso quella cicatrice assurda che contraddistingue il mio volto: il
sorriso. E me lo portai a spasso nella strada che mi portava alla
Tube, pensando che in fondo questi denti irregolari e queste labbra
sono sempre stati i miei migliori compagni di viaggio. E non mi
importa se a volte piango: ogni sorriso va innaffiato di lacrime per
poter crescere al meglio. Quella sera, sorridendo, tolsi un chiodo
dal muro e cucinai patate.
....E vacci piano con le patate..!
RispondiEliminaPerchè?! Non contengono sostanze nutritive buone?!?! ;)
EliminaEJA ! GIÀ LO CREDO, AI !
EliminaE' normale trovare sudamericani con pelle candida, che sono sudamericani da generazioni. Sopratutto quelli che provengono dalla sierra. Gli europei spesso ci identificano solo con quelli della costa, che sono quelli più scuri ...
RispondiEliminaLo so, volevo sfatare questo luogo comune infatti...il mio manager sembra norvegese!!!
EliminaMi hai fatto commuovere...
RispondiEliminaBuona giornata Sfiggy!
Daniele
Nel prossimo post spero di farti sorridere :)
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