giovedì 31 ottobre 2019

La resistenza di una pervinca mascherata da cactus

Mia madre è una romantica creatura convinta che le brutture della vita si possano sconfiggere con la Bellezza. Anche nei periodi più difficili della sua vita la ricordo impegnata nella sua opera di umana resistenza: china sul suo uncinetto a tessere trame colorate, infornare teglie di fragranti dolci o in giardino a curare i suoi fiori. Sono cresciuta con una mamma accudente e premurosa che riusciva a curarsi di noi ma anche delle cose che la circondavano. Il nostro giardino è sempre stato colmo di fiori: un insieme armonico di colori e differenze dove convivevano piante esotiche e ruspanti margherite, e noi bambini abbiamo sempre usato steli, germogli e ramoscelli per giocare, con conseguenti sculacciate pedagogiche di mamma, ché “le piante non si rompono! Ti piacerebbe se ti tagliassero un braccio, eh?!?!”. Il 28 ottobre ero in Sardegna, eravamo sole, io e lei; al pomeriggio ci sarebbe stata la funzione religiosa per la commemorazione dei due anni dalla scomparsa di mio fratello. Improvvisamente dice “devo mettere ordine nei fiori...mi aiuti?”; io l’ho guardata con sorpresa e apprensione: sono talmente rare le volte in cui quella donna stoica chiede aiuto che mi sono chiesta se davvero non fosse il caso di portarla al Pronto Soccorso d’urgenza. Quindi sono uscita con lei: con meticolosa razionalità mi disse che era necessario spostare delle piante da una parte all’altra della veranda “...perché arriva l’inverno e qua metterò la legna per il camino...”. Seguendo le sue indicazioni ho spostato enormi vasi da destra a sinistra finché il giardino non ha avuto il risultato che lei desiderava. Certo, ci sono stati dei momenti in cui mi sono sentita utile quanto un ventilatore nella Baia del Commonwealth, ad esempio quando mi ha chiesto di spostare la vecchia ruota di un carro a buoi, con funzione meramente ornamentale. L’ho sollevata e cercavo di spostarla con tutto il suo peso: mai avrei immaginato che una ruota di legno fosse così pesante ma soprattutto non sapevo che fosse ricoperta di ferro battuto. La trascinavo con la fronte imperlata di sudore, mia madre mi ha guardato sgomenta e ha esclamato “scusa ma...perché non la fai rotolare? È una ruota!”, mi sono fermata e sulla difensiva ho ribattuto “beh, non volevo sciuparla...”. Mia madre è di poche parole e ha concluso “è una ruota del carro di tuo trisnonno, credo risalga alla prima guerra mondiale...” e i sottotitoli di questa frase erano “figlia imbecille, quella ruota è sopravvissuta a due guerre, anche tuo padre è salito su quel carro, non credi che possa rotolare per altri 5 metri?!”. A lavoro ultimato lei si è messa a raccogliere foglie e terriccio, io ho dato uno sguardo intorno e mi sono resa conto che quel giardino era cambiato in maniera disarmante. Ho chiesto “mamma, dove sono finite le tue ortensie?”, ha risposto “sono morte”; “e le dalie?”, “morte anche quelle”. Nel giardino c’erano quasi esclusivamente piante grasse o semigrasse, quelle che hanno bisogno di poca acqua e poche cure, e in questo ho visto un segno della sua resa. Le ho fatto notare che le piante grasse sembrano noiose, non fioriscono e non sono colorate; mi ha risposto che no, le piante grasse erano semplicemente più autonome, che necessitavano di poche e semplici cose, ma non era vero che non fiorivano “si fanno solo attendere, a volte fioriscono una volta l’anno, altre solo una volta nella loro vita, ma quando lo fanno sono straordinarie, i loro fiori sono meravigliosi”. In quel giardino verde e spinoso in fondo non c’era la sua sconfitta ma il suo cambiamento. Mi ricordo che un giorno, durante la malattia di mio fratello, mi disse “vai a innaffiare la pervinca?...mi è sembrata sofferente”. Il mio primo pensiero è stato: come fa a pensare alla sofferenza di quella pianta quando dentro casa abbiamo quintali di sofferenza e dolore? me lo disse mentre frullava il cibo per mio fratello che doveva essere poi imboccato. Uscii fuori, presi la canna da giardino e...dov’è la pervinca? Com’è la pervinca? Sarà gialla, rossa o verde? Nel dubbio aprii l’acqua e bagnai tutte le piante, probabilmente generando la morte di qualcuna. Col tempo mia madre è cambiata e così anche il suo giardino: non ha più le forze per accudire le piante, tutta le sue attenzioni le ha esaurite su quel figlio al quale è sopravvissuta, perciò ha scelto delle piante che possano sopravvivere anche quando lei non ha cure da offrire. Lei non è morta però è cambiata e quel giardino è semplicemente il suo specchio: la vita l’ha portata a proteggersi, quelle spine sono una difesa ma anche una selezione, ché solo chi sa attendere la bellezza dei suoi colori può avvicinarsi a lei. Si è prosciugata in questi anni, ha dato tutto e ora si circonda di piante che necessitano di poco, quasi autonome, che riescono a vivere anche senza la sua presenza, ormai così scostante. Ho fatto il giro del perimetro della casa, come se volessi trovare ancora qualche traccia di colore, qualcosa che mi ricordasse quella donna orgogliosa di mostrare le sfumature dei garofani e delle rose. E l’ho trovata: una pervinca è cresciuta fra il cemento e un pilastro di granito, senza terra, senza acqua, spuntando fuori da un minuscolo pertugio, in mezzo alle avversità. Le ho chiesto “e questa?! com’è possibile??”, lei ha sorriso “quella per sopravvivere fa finta di essere un cactus!”. Perché la vita talvolta la devi ingannare, devi camuffare la tua fragilità per sopravvivere. A me però piace pensare che quel fiore colorato sia comunque il frutto di mia madre: ha seminato tanto e bene, e ora quel fiore le rende il suo tributo, sopravvivendo nonostante intorno sia tutto arido e spinoso. E poi chi l’ha detto che un cactus non possa avere i fiori della pervinca?

lunedì 30 settembre 2019

Dei viaggi che non finiscono mai


Un anno fa iniziai un viaggio: era settembre 2018 e mi trovavo a Bologna. Probabilmente ero di fronte al Nettuno o dentro una camera d'albergo di infima categoria, e sfogliavo la galleria delle mie foto: dal 2016 al 2018 avevo scattato circa 300 foto, e per chi come me vive bramando il suono dell'otturatore e la magia del tocco sul pulsante di scatto, quel numero di foto era davvero irrisorio. Erano stati due anni drammatici e dolorosi: mia nonna diceva che quando "su male" (il male) entra nella tua casa non c'è più pace. In lingua sarda raramente il cancro viene chiamato col proprio nome: se ne ha quasi pudore o paura, viene identificato con quell'articolo davanti che ne determina la portata, l'entità e il suo essere imperioso su tutti gli altri mali. Quando mio fratello ne venne colpito aveva un anno meno di me: 46, e non giunse a compierne 50. In quegli anni imparammo tutti la nostra fragilità, la caducità della nostra esistenza e l'ineluttabile epilogo di fronte ad una lotta impari. La qualità della mia vita la misuro dalle immagini che riesco a catturare, dalle parole che scrivo e dai chilometri che percorro nei miei viaggi. In quei due anni le mie foto, senza luce e prive di emozioni, erano relative ai viaggi al Gemelli, alle strade caotiche di Roma e ai voli per la Sardegna; alle foto di Jons che sorrideva, nonostante tutto, di fronte ad una nuova inutile scoperta, che ci stringeva le mani e ringhiava con forza contro la sua sorte. Nei miei diari quasi vuoti, le mie parole erano scarne e monotone, impotente di fronte a qualcosa che inevitabilmente finiva. E dopo la fine, niente è stato più come prima: tutto si è rotto, come un'opera d'arte che è stata deturpata e si è frantumata proprio fra le mie mani. Bologna è stata la mia salvezza: con le sue note vibranti nell'aria, il tumulto di giovani speranzosi seduti sotto i portici a dileggiare il potere, con le scritte rivoluzionarie e l'odore di cibo buono, Bologna mi ha dato uno schiaffo impalpabile e potente come la dinamite. Ho spalancato le braccia e ho lasciato andar via quel dolore che mi tenevo stretta come un feto privo di vita che lentamente stava corrodendo la mia esistenza. Perché infine ci si aggrappa a quel dolore, ti tiene compagnia, come se quella carne che ti hanno strappato ingiustamente fosse ancora lì, ed è l'unica cosa che ti rimane, non vorresti separartene mai. Ricordo che quel giorno scattai qualche bella foto e fu bello abbracciare delle persone: perché alla fine si risorge, è necessario, istintuale e doveroso. Da allora ho sfiorato tanti orizzonti, ho volato tanto, perso e preso svariati treni e percorso molte strade, ma sarei potuta rimanere fra le mura della mia casa che questo viaggio avrebbe avuto lo stesso risultato, perché il viaggio più importante è stato quello del mio cambiamento. Questo percorso è stato imprescindibile e se mi guardo indietro ne colgo il senso pieno, straziante ma anche di meraviglia: l'odore delle medicine e della putrefazione che senti anche a distanza di anni, le immagini che all'improvviso ti passano davanti e ti riportano indietro alle notti di veglia, al letto madido e a quel corpo che ogni giorno si scarnificava fino a diventare un velo di pelle sopra uno scheletro invaso dalla malattia; ma anche la bontà delle persone, gli amici, i sorrisi, le carezze e quelle mani che ogni giorno mettevano un punto di sutura alla mia ferita, fino ad arrivare a cauterizzare quella lacerazione. È passato un anno da quel giorno a Bologna e ho deciso di andare in Sardegna, dove tutto è nato e tutto ha avuto termine, come se fosse il giusto epilogo di questo viaggio che ha graffiato ma anche levigato la mia pelle.
E ho capito che questo viaggio non avrà una fine, che continuerò a sorprendermi di fronte al mare, a sorridere e abbracciare le persone che incontro e a portarmele dentro come una ricchezza, a piangere di fronte all'ingiustizia, a sperare guardando dei ragazzi suonare una chitarra e urlare nelle strade, ma soprattutto a meravigliarmi di fronte all'amore e alla Vita. Ché questa fottuta esistenza è davvero un bene prezioso, è una fortuna essere qua a sentire il vento fra i capelli, non sprechiamone neanche un goccio e beviamone dei grandi sorsi finché avremo quella sete sana e primitiva di un sogno vitale.
E grazie a tutte le mani che mi hanno stretto in questi anni: in cambio ho solo questo disarmante e forse stupido sorriso da regalarvi. E se ora guardo quell'enorme cicatrice, mi sforzo di vederci un bel ricamo che ogni tanto mi farà piangere ma infine sarà comunque bello accarezzarlo e sorridere.

Il vero viaggio è quello che non finisce mai: ho ancora qualcosa da dare, molto da dire e tante impronte da lasciare.