lunedì 27 gennaio 2014

Rivoglio le mie bolle di sapone.

Il mio primo utente si chiamava Luciano. O meglio, la madre di Luciano: una signora di 70 anni, entrò nel mio ufficio e disse "Ho un figlio di 32 anni, è il mio unico figlio, l'ho avuto tardi. Ha un cancro, deve andare a 60 km da qua a fare la chemio, ma non ho la macchina, non guido, mio marito è infermo, a letto da 3 anni. Mi può aiutare?". Erano passati 4 giorni da quando avevo passato la selezione per presiedere l'ufficio servizi sociali di un qualsiasi comune sperduto della Sardegna, il direttore generale del Comune mi aveva scelto perché avevo il voto più alto e delle idee brillanti e pratiche per risolvere i problemi, e perché "si vede che lei è onesta e ha voglia di lavorare". In quel momento, davanti a quella donna era sparito tutto l'entusiasmo di quella selezione e mi sentivo disarmata, esattamente come lei, che a 70 anni veniva a chiedere a una ragazza di 27 al suo primo impiego, di salvare quel figlio dal suo destino. E lei era nuda, aveva perso il pudore con quella richiesta. E io ero senza pelle e quella richiesta aprì uno squarcio sul mio corpo che non sarebbe più guarito. La rassicurai e appena lasciò il mio ufficio tirai giù tutti i faldoni delle Determinazioni, delle Delibere di Giunta e di Consiglio, i bilanci e i piani annuali. Spulciai tutto e il giorno dopo andai da quel direttore generale e segretario comunale che mi aveva assunto per far mettere la sua firma su una Determinazione, la numero 28 esattamente, dove si stipulava una convenzione con un ditta di noleggio con conducente per portare Luciano 3 volte la settimana a fare la chemio. Costo interamente coperto dai soldi in bilancio dei servizi sociali
-Come hai fatto a tirare fuori questi soldi?
-Ho limato delle spese
-Quali?
-Cose inutili: la proiezione di un film nella Festa dell'estate, il concerto di uno stupido cantante dopo il torneo di calcetto
-Sei in una giunta di destra e tu sei l'unica comunista: quelle cose servono al sindaco per guadagnare voti alle prossime elezioni
-Mi mandi il sindaco nel mio ufficio, voglio che sia lui a dirmi che è più importante un film piuttosto che la vita di un ragazzo di 30 anni che crepa. Le dica che lo aspetto entro oggi, perché domani ho delle risposte da dare a quella madre.
Il sindaco non venne, l'indomani mattina trovai sulla mia scrivania la determinazione numero 28 timbrata, firmata e messa agli atti.
Luciano morì due mesi dopo, lo lasciai la sera attaccato alla bombola d'ossigeno nel suo letto di casa. Gli dissi "ci vediamo domani" e lui scosse la testa facendo un No deciso. Prese la lavagnetta e scrisse "Grazie di tutto". La mattina dopo trovai un post it dell'amministratrice sulla scrivania "Luciano è morto. Hai la libertà di chiudere l'ufficio e di andare dalla madre". Chiusi l'ufficio ma non andai dalla madre. Rimasi in silenzio a guardare le pareti e a pensare che avrei voluto un primo utente diverso, avrei voluto vincere la battaglia del primo utente perché mi avrebbe dato la carica. Ma era capitato Luciano, ed era un figlio, mio figlio, il figlio di tutti, lo presi per mano e lo portai dentro per sempre, perché da lui ho imparato il valore della sconfitta.
Eppure ero arrivata a quel lavoro dopo un tirocinio formativo che mi aveva temprato: una comunità per minori, figli di nessuno, pieni di ferite e sporco, che il giudice affidava alla comunità di recupero fino alla maggiore età. Il posto degli ultimi che ti fa capire quanto la società partorisca mostri contro i quali non puoi lottare sperando di vincere. Rimasi in quell'ufficio per 2 anni, il tempo per rivoluzionare il piano degli interventi per i futuri 10 anni. Creai una ludoteca da uno stabile in disuso, progetto immediatamente accolto dalla Regione e andai a lavorare nella ludoteca che avevo partorito, a raccogliere chiunque. E i limiti delle fasce d'età non facevano per me: non mi sono mai piaciute le gabbie. Comprai un biliardino coi soldi racimolati da una vendita per autofinanziamento e andai nelle strade a prendermi i ragazzi, quelli grandi.
-Che ci fate per strada? Perché non venite in ludoteca?
-È un posto per bambini!
-Ma c'è il biliardino, i bambini non giocano a biliardino
-...che facciamo?...c'è il biliardino!...ma ci vanno i piccoli...e vabbè ma almeno facciamo qualcosa...allora ci andiamo tutti o nessuno.
Non era più una ludoteca ma il punto d'incontro di tutti. I ragazzi si aprivano perché vivono in un mondo sordo e loro hanno bisogno di urlare. Abbiamo scalato montagne impervie insieme, hanno pianto davanti a me ed io ho sorriso e li ho abbracciati, piangendo poi quando entravo da sola in macchina per rientrare a casa. Da allora ho girato gli angoli più bui del "disagio", passando dalle scuole di obbligo formativo, quelle dove vanno gli ultimi degli ultimi, fino ai disabili delle scuole statali, passando per i centri diurni per anziani, stelle spezzate e figli di nessuno, includendo i ragazzi affidati ai servizi sociali in misura alternativa al carcere, entrando nelle case dei "disadattati" fra piscio e violenza, e nelle case famiglia dei "pazzi" e degli abbandonati. La media del mio stipendio in 15 anni di carriera è inclusa fra i 700/800 euro al mese. Sono venuta a Londra perché stanca di essere sfruttata. Qua ho trovato lavoro, non faccio turni di 24 ore ma di 8 e guadagno il doppio che in Italia. Ma non sono felice. A Londra i servizi sociali sono quanto di più spersonalizzante e istituzionalizzato ci possa essere: tutto è delegato ai benefits e alle strutture mastodontiche dove il disagio viene incasellato come barattoli di tomato soupe stipati in uno scaffale. Non esistono le ludoteche ad esempio, termine intraducibile e sconosciuto. E a me mancano i miei ragazzi, i miei bambini, i miei vecchietti. Sono stati loro la mia linfa e la mia sostanza: sono mossa verso il Dare e non verso il Ricevere. Mi appaga dar loro la forza e poi vederli camminare con le proprie gambe: la loro vittoria è la mia ragione di vita. Sono nata per fare quello ed io senza mi sento morta. Sei mesi di Londra mi hanno arricchito e svuotato contemporaneamente: Londra è un'esperienza di vita che consiglio a tutti. Ma questi sei mesi lontano dal mio lavoro mi hanno devastato, svuotato da ogni fantasia e soddisfazione personale. Ieri mi è arrivata la mail di Lorenzo "Ohi gigante, a Giugno mi laureo: sarò l'ingegnere più figo della Sardegna!! Se non stai vagabondando e sei in zona vieni a darmi un bacio accademico". Lorenzo era un ragazzo discalculico, non capiva i numeri, il 13 diventava 31 e gli era impossibile capire la matematica. Lo vidi un giorno mentre andavo in ludoteca, sporco e bello, aveva la pancia gonfia perché nascondeva una bottiglia di vodka sotto la maglietta dei Modena City Ramblers. Mi fermai e portai quel bambino di 13 anni con me.
-Cosa vuoi fare da grande?
-Costruire case, mi piace, farò il muratore come mio padre.
-Perché non il geometra o l'ingegnere? Così decidi come si devono costruire le case invece che costruirle come le vogliono gli altri.
-Non capisco i numeri. Mi confondono, mi viene la rabbia quando li vedo, si muovono e non li capisco.
Il mese successivo nel conto della ludoteca fu addebitato il costo di 500 scatole di fiammiferi da cucina. Il sindaco pensò che volessi dar fuoco alla ludoteca. Gli risposi "Mi servono per dare a questo paese un ingegnere straordinario". Il sindaco neanche provava più a remarmi contro. Con Lorenzo cominciammo a costruire case con i fiammiferi: tagliarli con le forbici, dividerli in mazzetti, in mattoni, architravi, blocchi, e le tegole erano lo zolfo rosso della capocchia. Li contava a voce, poi a mente, faceva le proporzioni, 512 mattoni per una parete, poi aggiungeva le altre pareti. La colla a caldo era il cemento, costruì case meravigliose che furono vendute in una vendita di beneficenza. Imparò così a non aver paura dei numeri. E un pezzettino impercettibile della laurea in ingegneria di Lorenzo, è anche mia. Ma lo sappiamo solo io e lui: è il nostro segreto. Il prossimo anno sarà la volta di Ermanno. Sociopatico, bulimico a soli 12 anni, ritardo grave diceva la diagnosi in mano alla sua insegnante di sostegno. Voleva fare il contadino, voleva coltivare semi e vederli trasformarsi in foglie verdi. Nel retro della ludoteca cominciammo a piantare la liquirizia, strappando al tufo pezzi di terra coltivabile. Facevamo innesti e talee, venne fuori un giardino prezioso che quando venne scoperto dal sindaco lo recintò affinché tutti potessero guardarlo. Si laurea il prossimo anno in scienze forestali. Qualche mese fa ho ricevuto una mail con la foto di Emiliano. Era con una bella ragazza bionda e un bambino grande quanto il suo avambraccio. Emiliano era figlio di un incesto, adottato dalla strada e dall'hashish, venne condannato per tentato omicidio a 16 anni. Venne affidato ai servizi sociali in misura alternativa al carcere. Lo portai con me a fare fotografie, gli affidai la mia Yashica FX3 Super2000, una reflex d'annata con pellicola Ilford al suo interno. Gliela affidai dicendo che era la cosa più preziosa che avevo. Andavamo in giro e lui la portava al collo come una collana di diamanti. Un giorno attraversando un fiume scivolò: preferì fratturarsi il polso pur di salvare la mia macchina fotografica. Adesso fa il fotografo nel Nord Italia, si è sposato e ha un figlio che si chiama Alessandro. Mi ha scritto "Ciao zia nanetta, questo è mio figlio Alessandro, è bello più di me, vero?? Mi somiglia soprattutto in una cosa, ma non la puoi vedere perché è nascosta dal pannolino!!! Ahahahah lo sai che sono sempre una testa matta!". Oggi mi ha chiamato la madre di Terminator, la mia stella spezzata. Sta bene, dopo varie crisi adesso sta bene. Chiede sempre di me e quando lo fa, la madre dice che sorride. Terminator è una bimba cresciuta, un'età mentale di 3 anni secondo la stima della psichiatra, racchiusa in corpo di una donna di 45 anni. Lei è la figlia che il destino mi ha negato, quella che ti sa guardare nell'anima senza bisogno di parole. E io lo so che ogni tanto lei ha bisogno di avere mie notizie, e non gliele nego mai: è il nostro patto suggellato in silenzio mentre mi stringeva le mani il giorno che me ne sono andata. Ma ho avuto anche tante sconfitte. Ho perso Rossella, gioviale, sorridente, solare, meravigliosa. L'ho persa in una pineta in riva al mare splendido della Sardegna, appesa ad un ramo con una corda qualsiasi. Ed io sono stata cieca, come tutti gli altri, non sono stata in grado di leggere dietro quella sua risata contagiosa il suo immenso dolore. Ho perso Giacomo, abbandonato dai genitori, cresciuto in una casa famiglia: ora è all'angolo di una grande città che chiede monetine per farsi una dose. Morirà di overdose. E io l'ho perso. Ho perso Laura, venduta dalla madre per una notte di sesso con una bestia. Aveva solo 10 anni. E non sono riuscita a farla risalire. L'ho persa nei meandri dannati del sesso, perché da allora per lei la vita è stata solo sesso, sporco e punitivo. E ora vende il suo sesso in una lurida strada qualsiasi dell'Italia. Ma Luciano mi ha scritto "Grazie di tutto". Perché era tutto quello che potevo fare, e a me basta averne salvato anche solo uno di quei coriandoli destinati al macero. Anche solo uno. Ma sono tanti e io li rivoglio. Rivoglio un Lorenzo al quale insegnare qualcosa, rivoglio una Rossella da salvare o da piangere nel silenzio di un centro diurno, rivoglio una Terminator da stringere mentre sorride. Rivoglio le mie stelle, che non conosco ancora, che non so dove sono, ma so che ci sono e che hanno bisogno di me come io di loro. Perché sono le mie bolle di sapone e bisogna soffiarci dentro con cautela, non troppo forte perché scoppiano, non troppo piano perché perdono consistenza. E bisogna proteggerle dal vento, che non soffi troppo forte, perché sono fragili e si rompono facilmente. E poi quando sono forti bisogna lasciarle volare, perché sono fatte per volteggiare nell'aria e dimostrare al mondo che si può danzare magicamente anche in maniera disarmonica. Che lavoro faccio? Mi occupo di bolle di sapone: è un lavoro bellissimo. Ed io non posso farne a meno. Per questo tornerò in Italia: a Londra le bolle di sapone sono quadrate e le tengono stipate in scatole che sanno di caserma e fogli da timbrare. Ma io ho imparato che non c'è nulla di più appagante che vedere una bolla colorata di arcobaleno allontanarsi verso il sole. Per questo tornerò. Presto.