mercoledì 23 dicembre 2015

Rivoglio Babbo Natale ed essere un pipistrello.


Per me Babbo Natale ha smesso di esistere quando a 6 anni gli scrissi la letterina chiedendo Bugs Bunny, precisando che lo volevo non commestibile, perché i conigli del cortile erano finiti, per uno strano fenomeno di trasmigrazione, nel tegame di mia madre con olive e finocchietto selvatico. La notte del 23 mi svegliai perché mi scappava la pipì, mi alzai lentamente per non svegliare nessuno ma la luce della cucina era accesa e mi fermai a origliare, curiosa come una faina. Pensai che Babbo Natale fosse arrivato con un giorno di anticipo...che bello! Invece sentii i miei genitori che parlavano “Ma cos'è Bugs Bunny? -Dai, è un coniglio! -Dove lo trovo? Neanche so com'è fatto! -Tu dici “Bagsbanni” e quelli del negozio sanno cos'è! -Costa tanto? -Non so -Quanto abbiamo? Bastano per fare il regalo a tutti i figli? -Sono questi. -Forse non bastano -Prendilo piccolo Bugs Bunny -Piccolo? Sarà bello lo stesso?...”
Tornai a letto senza fare la pipì, rischiando che la mia vescica esplodesse dando vita a spruzzi variegati come la fontana del Tritone. Non dormii più: quello stronzo di Babbo Natale non esisteva e io mi sentivo in colpa per aver chiesto un regalo stupido che costava un sacrificio. Non sapevo che i soldi fossero importanti, come in tutte le case di chi lavora in campagna, non mancava mai nulla: carne, verdure fresche, frutta, formaggio, salumi, pasta fatta in casa, dolci buoni e fragranti. Io poi avevo tutto: fumetti nel comodino, libri sparsi in ogni angolo e fuori dal portone c'erano alberi, animali, prati e mare. Avevo tutto e a me piaceva correre e saltarci dentro in quel tutto. Peraltro non giocavo mai con le bambole: le appendevo al muro come un trofeo ma le trovavo vuote. Molto meglio i girini del fiume o i pulcini pelosi. Allora perché avevo chiesto quel pupazzo? Il 25 trovai Bugs Bunny sotto l'albero, quello piccolo, dissi che era bellissimo e mi venne da piangere “Cosa c'è? Non ti piace perché è piccolo?”, “No no mamma, lo volevo proprio piccolo, piango perché è bellissimo” e mi fiondai fuori dal portone con dietro l'urlo di mia madre “Non uscireeeee! Sta piov...” troppo tardi, ero già fuori in mezzo a una pioggia torrenziale che mi aspettavo Noè con due piccoli serpenti e l'aquila reale dietro l'angolo. Scappai da nonna, fu una fuga breve: abitava a fianco. “Ciao nonna, buon Natale!”, “Figlia mia! Auguri, a cent'anni e mi raccomando: studia!”. Studia, sempre studia: come se fino ad allora avessi potuto fare altro se non studiare. Mia madre era maestra e mi portava con lei a scuola da quando ero nata, ho visto prima la lavagna che il biberon e a 4 anni sapevo leggere, scrivere e fare le operazioni. “Cosa ti ha portato Babbo Natale?”, “Niente”, “Niente? Come niente?? Sei sicura?”, “Babbo Natale non mi ha portato nulla, ma mamma e papà mi hanno comprato Bugs Bunny”, “Ah.... Come cresci in fretta figlia mia, Dio ti benedica!”. Sul tavolo enorme in un angolo, c'era una tovaglietta con un pezzo di pane, del formaggio, una mela e una scatolina di metallo: era la colazione di mio nonno che ancora non era rientrato dalla campagna. Nonna era preoccupata, era tardi, pioveva, doveva mangiare e fare l'insulina con la siringa della scatola di metallo. Mio nonno per me era l'uomo del mistero dalle mani screpolate. Era l'uomo della siringa che bolliva e delle zollette di zucchero nella tasca. Quando mia madre aveva le riunioni a scuola mi lasciava con nonna e andavo con lei al fiume a fare il bucato con la lisciva o a innaffiare l'orto. Ma quando nonno era particolarmente pallido e stanco, nonna mi chiedeva di andare con lui in campagna e se cadeva per terra dovevo mettergli in bocca una delle zollette di zucchero che teneva in tasca, racchiuse in un fazzoletto a righe. Forse perché era molto goloso, sicuramente era così, e doveva fare l'insulina nella siringa perché era troppo goloso. Ma non ne ero certa ed era tutto misterioso per me. Alla fine arrivò, entrò in casa portandosi dietro tutta la pioggia che aveva incontrato, i pantaloni di fustagno incollati, il gilet di velluto che perdeva acqua da ogni piega e le mani gocciolavano come un rubinetto rotto. “Nonno buon Natale, corri a mangiare l'insulina”, “Buon Natale...cosa ti ha portato Babbo Natale?”, “Babbo Natale non esiste, lo sai bene” risposi accigliata. Lui rise “Si vede che sei la più sveglia...il nostro pipistrello!” e mi scompigliò i capelli lasciandomeli bagnati di pioggia e fatica. I miei nonni mi chiamavano “pipistrello” e non era un dispregiativo. In sardo “pipistrello” è femminile e si chiama “alipedde”, che letteralmente significa “ali di pelle”. Mi chiamavano così perché saltavo sempre, ho imparato prima a saltare che a camminare, ero piccola e magra, capelli corvini e sembrava che tracciassi le traiettorie scomposte del pipistrello nel mio volteggiare nelle strade. Mi rendo conto che crescendo il mio appellativo potrebbe essere sempre “pipistrello” ma per motivi meno poetici e più nefandamente estetici. Dal momento in cui nonno e tutti i figli maschi tornavano dalle campagne...allora era Festa! Con la F maiuscola! Nonna e tutte le zie correvano come formiche per preparare il pranzo, il camino ardeva di brace con graticole piene di carne, la pentola grandissima che faceva borbottare un sugo delizioso, nonna che impastava, il profumo dei dolci tradizionali e della torta. In quella cucina/sala da pranzo/cantina/ludoteca gigante sarebbero entrati tutti e 12 i figli con 36 nipoti, mogli, nuore, suocere, amici, figliocci, padrini e madrine di tutta quella famiglia esageratamente prolifica. Ovviamente a turno, perché per accoglierli tutti sarebbe stato necessario un tendone da circo, e non solo per la capienza ma anche per i personaggi stravaganti e originali che vi stazionavano: c'era chi veniva a pranzo, chi nel pomeriggio e chi per cena. Era una festa grandissima, io vedevo i miei 35 cugini, alcuni avevano già dei figli e per me non erano ulteriori cugini. Per me era un circo vero, giocavamo e ridevamo di tutto e di niente: tutti i bambini del mondo dovrebbero fare solo questo, relegando le lacrime e il dolore a un pacco da scartare in età adulta. Quel giorno il senso di colpa del mio regalo non condizionò affatto il mio divertimento: avevo deciso che non avrei più chiesto regali e che avrei scoperto perché quei maledetti soldi erano così importanti, e magari darli a mia madre per comprare cose importanti, non giochi, perché per essere felici a noi non servivano le bambole. Io ero felice e il Natale era carezze, abbracci, profumo di zucchero e lievito, voli di pipistrello e guance rosse da baciare.
Da quel giorno ogni Natale ebbe qualche nota stonata, mia nonna pregava ostinatamente che Dio l'aiutasse ma qualche sedia cominciava a rimanere vuota, a partire da quella di mio nonno, e poi qualche figlio ancora giovane, e quei posti, vuoti per sempre, occupavano tutto lo spazio della casa e non c'era più un perimetro disponibile per la festa. Io a 16 anni cominciai la mia carriera di studentessa lavoratrice: studiavo perché era l'unica cosa che sapevo fare, ma questo costava e io avevo capito molto presto l'importanza dei soldi, e ogni Natale, Capodanno o festa comandata, lavoravo in qualche ristorante. Era un buon modo per non pensare a quelle sedie vuote e alle preghiere inascoltate.
Dopo la laurea ho sempre lavorato come educatrice professionale negli angoli più disparati del “disagio” (chiamano così tutto ciò che è tragicamente distante dal Benessere). In ogni comunità, per minori o adulti, in ogni scuola e in ogni struttura per disabili, ho sempre provato un senso di incompletezza, di inutilità e di impotenza durante il periodo natalizio. Organizzare un cenone di Natale per i 10 ragazzi della comunità con 80 € di budget, cercare di nascondere l'assenza di una madre che non sarebbe venuta a prendere il figlio, inventare un regalo da mettere sotto l'albero con zero euro nel borsellino, tirare le somme di un bilancio striminzito e scoprire che non ce la farai a dare un sussidio o un'assistenza domiciliare. L'impotenza che si mescolava alla “magica” atmosfera natalizia rendendo tutto acido e insapore. Mi rendevo conto che per me il Natale era solo una vetrina dove potevo guardare le miserie del mondo, e mentre quei ragazzi sognavano un cenone coi fiocchi “perché è Natale, cazzo! A Natale dobbiamo essere felici, siiiii!”, io non ho avuto il coraggio di dir loro che in cassa avevamo pochissimi soldi, e ho odiato il Natale, il perché deve essere così importante, perché non può essere una giornata normale. E con tutta l'impotenza che riuscivo a contenere, mi son dannata l'anima pur di dare a quel loro Natale tanto atteso una spolverata di glitter di ultima categoria, che almeno sapesse di luce dorata e caldo.
Non sono di quelle che odiano il Natale, sono sinceramente contenta quando vedo i bambini felici, come lo ero io, perché il Natale dovrebbe essere la festa di tutti i bambini, e devono essere felici, tutti. Ma io non riesco più a godere di quella spensieratezza. Vedo sempre meno una festa e sempre più un'ingiusta corsa allo spreco e all'ostentazione. Penso sempre che facciamo regali costosi e inutili che ricicleremo al prossimo compleanno, che dobbiamo ostentare allegria con persone che non ci inculiamo per tutto l'anno, che dobbiamo mangiare benissimo perché è Natale, che facciamo copia/incolla di un messaggio di auguri da spedire a tutta la rubrica, tutti uguali e livellati. Molti, troppi, odiano il pranzo di Natale in famiglia quanto una cartella Equitalia, ed io sono felice per loro, perché evidentemente non sanno quanto sia doloroso il vuoto di non averla più una famiglia.
Oggi sono andata al supermercato e davanti a me c'era un signore che arrivato alle casse ha messo sul banco 3 candele arancione, ha chiesto alla cassiera se avevano candele bianche e lunghe, le steariche, che costavano poco, perché gli avevano staccato la luce. La cassiera ha detto no, non le avevano, avevano solo quelle profumate. Lui cercava di spiegare che quelle candele profumate gli sarebbero durate un paio d'ore, erano troppo piccole. No, non ne abbiamo altre. Alla fine ha pagato ed è andato via. Sono rimasta immobile col mio carrello di inutilità, senza poter fare nulla. Sono uscita e nel parcheggio c'era un gigantesco albero di Natale che scintillava di luci azzurre, le strade piene di luminarie, tutto splendente e luminoso. L'uomo delle candele non c'era più. E tutte quelle luci sembravano un pugno in pieno viso per qualcuno che in casa aveva solo 3 candele alla pesca per far luce. Non voglio fare l'ipocrita: l'iniqua distribuzione di benessere e felicità è sempre esistita e sempre esisterà, non c'è solo a Natale. Ma a Natale questa disparità diventa dolorosamente più evidente, come se qualcuno passasse sopra alcune persone un velo di vernice fosforescente e tu non puoi che girarti a guardare quella riga maldestra di evidenziatore. Perché se un mercoledì di Ottobre esci da lavoro e cammini per Roma o Milano li vedi tutti di corsa che tornano a casa, chi incazzato, chi ansioso. E quello che ha 3 candele come illuminazione domestica c'è anche quel giorno di Ottobre, ma tu non lo vedi, perché anche tu hai i cazzi tuoi per la testa, il tram che non passa, lo stipendio che non arriva, il lavoro che stai per perdere, la casa da pulire e il telefono da ricaricare. Ma se esci il mercoledì prima di Natale a Roma o a Milano, vedi la corsa ai regali, fiumi di gente che passeggiano sotto le luci scintillanti, i bambini felici (sono bellissimi!), le file nei negozi, le coppie che scelgono i regali. È meraviglioso! Però quell'uomo delle 3 candele è sempre lì, e lo noti di più perché è il contraltare della tua busta stracolma di regali inutili che qualcuno non apprezzerà. E possiamo fare ben poco affinché questa bilancia sbilanciata si raddrizzi.
Quest'anno ho deciso di non lavorare. Ho preso due mesi “sabbatici” per ricaricare le batterie. Ho sempre avuto, e ho anche adesso, la possibilità di passare un Natale meraviglioso, ma passerò un Natale normale, come tutti quelli precedenti: mangerò bene perché mangio bene tutti i giorni, non solo a Natale. Come sempre non farò regali perché da sempre faccio regali quando lo sento e soprattutto, quando le mie finanze me lo permettono, e a Natale non me lo hanno mai permesso. Farò l'albero di Natale perché ci sono abituata, ai miei gatti piacciono le lucine intermittenti, e poi è l'unico momento dell'anno dove posso togliere quella scatola pesante da sopra lo scaffale e spolverarci sotto. Come ogni anno chiamerò mia madre e la mia famiglia, chiuderò il telefono e mi verrà da piangere pensando a quanto sono lontani e a quanto la mia sedia vuota peserà quel giorno. Io sono abituata ad avere 5 sedie vuote a casa, tutti i giorni. Mi mancherà qualcuno che mi dice “Studia!” e che mi chiama “alipedde”. Guarderò sempre a quanto spazio vuoto c'è nella mia strada e non mi accorgerò di quello che ho riempito. Perché sono una nostalgica del cazzo e perché ho sempre un fottuto senso di colpa nei confronti di chi quel giorno non avrà neanche una candela per illuminare la sua giornata. Come ogni anno il mio compagno mi farà il regalo nonostante la promessa di non farcelo. Ma lui me lo farà trovare sotto l'albero. Io gli farò il solito pippone sullo “spreco consumistico natalizio, frutto di una società squilibrata volta alla superflua soddisfazione di bisogni inesistenti e...” lui mi dirà “vaffanculo!” e mi sbatterà sul divano e giocheremo a hockey orizzontale, previo riscaldamento con curling tonsillare. Sarà una lunga giornata di auguri e sorrisi. Sarà l'occasione per guardare il cellulare, rispondere “Buon Natale anche a te...ma scusa ho perso tutti i numeri in rubrica, chi sei?”. Sarà il giorno in cui io e Setayesh ci scambieremo gli auguri di un felice Natale, nonostante lei sia musulmana e io atea: è la magia del Natale. E mi chiederò mille volte perché ho quel velo di malinconia stretto nella gola come un foulard. Perché sono un'imbecille integrale, fanculo, non riesco a godermi questo inutile tutto, e farei come quel sindaco che passò nel mio ufficio dei servizi sociali e disse “A la leàre in culu e a passare bonas festas!” (i sardi capiranno!).
Ma io lo so, mi volterò spesso a guardare dalla parte di quelli che qualcuno ha imbrattato con la vernice fosforescente. E spero che cada la pioggia a lavare quelle macchie. O che scenda la neve a coprire le nostre miserie. Oppure che le lacrime possano lavare via il dolore.
E che sia un Buon Natale, per Tutti.

mercoledì 18 novembre 2015

Siate rivoluzionari, non ignoranti.

Per me la TV è un parallelepipedo scomposto, un suppellettile da spolverare pigramente con lo Swiffer. Preferisco informarmi con la carta stampata o sui siti web. Perciò il 13 novembre alle 21 la TV era spenta, ero lontana da Parigi e leggevo “Grande seno Fianchi larghi” di Mo Yan. Andai a letto con l'immagine della Cina rurale invasa dai giapponesi nel distretto di Shandong, e col tredicenne Jantong che lottava col suo disturbo psico-somatico di svezzamento dal latte materno. La mattina successiva mi svegliai con la voglia di fare un viaggio in Oriente ma venni catapultata a Parigi. Aprii Twitter e mi resi conto che era successo qualcosa. A quel punto ho acceso la TV. Ogni tanto entravo sul Web per leggere ulteriori notizie e ovviamente c'era anche l'eco dei social network: polemiche sul tweet di Me Cojons, indignazione sul post di Stigran Cazzis. Come se il destino del mondo dipendesse dal tweet di qualcuno, dal lancio di qualche improbabile hashtag o dai Like racimolati. È mia consuetudine di fronte alle tragedie umane rimanere in silenzio: lo preferisco di gran lunga al chiassoso starnazzare di chi ostenta un dolore talvolta fuori luogo. È giusto esternare, ognuno lo fa come meglio crede, ma ostentare è davvero abominevole. Mi sono quindi limitata a scrivere la mia scelta silenziosa e ho chiuso le finestre del web fino a ieri, quando ho aperto Twitter e Facebook e mi sono resa conto della moltitudine di commenti, post e tweet carichi di una violenza barbara che avrebbe fatto impallidire anche Erode il Grande. Mi riferisco in particolar modo a Facebook dove i miei “amici” sono per il 70/80% persone che realmente conosco, con le quali ho degli scambi più o meno frequenti, alcuni li ho visti nascere e crescere, altri sono amici sparsi nel mondo e altri ancora sono follower di Twitter che come me, ogni tanto travasano su Facebook, e che ho avuto il piacere di conoscere di persona e instaurare con loro delle belle relazioni. La prima cosa che ho notato è stata una moltitudine di post stile “bombardiamo gli islamici/distruggiamo i musulmani/buttiamo fuori gli stranieri” e via sulla stessa falsariga, tutti scritti da ragazzi e ragazze che conosco e che abbraccio quando li incontro. Ma come ragazzi? Avete sbagliato la formulazione della frase, calma! Le parole sono importanti, magari avete letto il titolo di quel “quotidiano” e avete pensato che fosse giusto generalizzare e fare di tutta la merda una cloaca. A me spiacerebbe se bombardassimo TUTTI gli islamici perché ci andrebbe di mezzo Majida, la mia amica iraniana e il fratello che era in piazza a farsi massacrare quando Ahmadinejād attuava la sua politica repressiva contro gli studenti. Loro considerano l'Isis un gruppo di criminali che infangano il nome di Allah. E anche Setayesh e la sua famiglia afgana, che sono musulmani ma non portano il burqa, che quando vedono le foto dei terroristi dell'Isis si appartano e pregano Allah affinché li fulmini. O Kamal, il mio amico marocchino al quale l'Isis ha distrutto mezza famiglia in una di quelle stragi che non fanno notizia. Forse volevate scrivere “distruggiamo l'Isis” e vi è scappata la tastiera dalle mani. E io sono d'accordo, perché l'Isis è composta da terroristi fanatici che uccidono occidentali e musulmani senza nessuna distinzione, criminali che devono essere fermati e anche in fretta. E non ho alcuna soluzione per eliminare i terroristi, mi affido a chi ne sa più di me, a chi fa della diplomazia e delle relazioni internazionali il proprio lavoro. Mi limito ad ascoltare, consapevole che non è semplice trovare una soluzione indolore, e spero solo che agiscano in fretta. E mi sfugge l'utilità della genialata di buttar fuori gli stranieri, perché vorrebbe dire riprenderci gli italiani sparsi nel mondo, e mentre gli stranieri in Italia sono 3.929.916 (dati ISTAT) gli italiani all'estero sono 4.636.647 (dati AIRE – Anagrafe degli Italiani Residenti all'Estero), e magari riprenderci tutti gli italiani che nel corso della storia si sono stabiliti in altri paesi acquisendone la cittadinanza, e anche i loro figli oriundi, che secondo il Ministero degli Esteri nel 1995 erano 58,5 milioni (sito emigrati.it). A conti fatti questo scambio non gioverebbe alla nostra economia. E non pensiamo di riprenderci gli italiani all'estero “brava gente” e mandar via gli stranieri delinquenti. Basta con quest'idea che gli stranieri in Italia delinquono mentre gli italiani all'estero sono tutti bravi ragazzi che lavorano sodo: all'estero ci sono tanti italiani splendidi ma anche fancazzisti e dediti al malaffare esattamente comme in Italia. A Londra il fumo buono lo compri solo dagli “italian guys” a King's Cross St. Pancras. Il tatuaggio che ho nel polso l'ho fatto vicino a Tottenham Court Road, dove ho scoperto che gli “italian tattoo studios” hanno i prezzi più bassi di Londra perché i loro negozi non risultano da nessuna parte e fanno tutto in nero: riusciamo ad esportare l'arte dell'inchiostro insieme a quella dell'evasione fiscale. Potremo continuare con gli esempi, esattamente come potremo continuare con storie di italiani all'estero che invece danno lustro al nostro stivale con la loro tenacia e genialità. Come gli stranieri: ne abbiamo di buoni e cattivi, ovunque. Comprendo la rabbia del momento ma le parole in questi casi sono fondamentali, perché si rischia di fomentare odio che notoriamente porta solo a distruzione. “Andare a fare la guerra/invadere gli stati islamici” non è esattamente facile come prendere lo zainetto e fare trekking nel Sacro Monte di Varallo. Ma la maggior parte hanno la soluzione in tasca, infallibile, la ricetta per tutti i mali, sanno tutto di politica estera, di economia e finanza, e ovviamente anche di politica interna, religioni, fisica quantistica e minchiologia. E non vanno bene i comunistoni buonisti che schifo, e Renzi imbecille non capisce un cazzo, e Alfano burattino. e bombardiamo tutto il medio oriente, e gli americani assassini si devono fare i cazzi loro, e i musulmani vanno eliminati, e la Fallaci gran donna che ci vedeva lontano, e Putin è l'unico che fa le cose giuste, e tutti con Salvini che ha capito tutto, e mio nonno lo diceva che bisogna sterminarli tutti questi bastardi, e mia zia ha fatto le lasagne con le polpette minchia che buone oh. Tutto questo scritto da persone che io conosco personalmente. Ora ragazzi, le cose son due: o voi negli ultimi mesi/anni avete ingoiato intere biblioteche come contorno alle lasagne, oppure io in 43 anni ho letto solo Topolino. Va benissimo farsi un'idea della situazione globale del pianeta con tutte le trame sociologiche e storiche, ma tali idee vanno supportate da una conoscenza. E badate, non sto dicendo che per essere intelligenti bisogna essere colti, mangiando pane e Feuerbach a colazione, semplicemente bisogna quantomeno avere cognizione di causa quando si esprime un'idea, magari non facendola passare come l'assioma di Peano. Ho imparato più da mio nonno che da tutti i libri dell'università, anche se mio nonno firmava con la X. Ma mio nonno era umile e cercava di imparare ogni giorno una cosa nuova, mi invitava a dubitare e di studiare per risolvere i dubbi. Lui non aveva scelto di non saper leggere e scrivere, lui non POTEVA farlo, perché a 6 anni era su una montagna a sorvegliare capre, e quando c'era la guerra aveva 12 figli da campare. E si sentiva in debito col mondo per la sua ignoranza, ma cercava di imparare. Ma voi no, voi no cazzo, voi non avete giustificazione per la vostra florida e strabiliante ignoranza, voi no, voi avete tutti gli strumenti per istruirvi, per avere delle conoscenze almeno basilari, voi avete tutto ciò che vi serve per crescere e migliorare. Perciò la vostra ignoranza è una SCELTA. E non voglio giudicare le scelte altrui ma almeno siate consapevoli dei vostri limiti. E io vi conosco, vi stringo la mano al bar quando vi incontro e ho rispetto per voi, tanto, ma non potete fare i tuttologi su uno sterile social quando l'unica cosa che avete letto nell'ultimo mese è il bugiardino dei profilattici ritardanti. Profondi conoscitori di politica estera quando l'unico posto lontano che avete visitato è la caserma alla visita di leva, ed è indicativo come gli unici esperti di cultura straniera siano quelli che non sono mai usciti dall'Italia o al massimo hanno visitato i bordelli di Amsterdam o il puttanesimo della Thailandia. Avete una conoscenza religiosa che si limita al catechismo della terza elementare ma sapete tutto del Corano, della Bibbia, dei testi sacri dell'induismo e anche dei Vangeli. Probabilmente anche di Buddha, anche se dovete sapere che dal vivo non era così grasso, lo disegnavano così. L'Islam che tanto odiate e gli ebrei che vi stanno sulle palle, hanno un punto in comune: il patriarca Abramo, che però è anche il patriarca del Cristianesimo. Io sono atea, credo negli esseri umani, nella loro bontà e nella loro capacità di sbagliare e redimersi, ma voi, così, a spanne, mi sa che siete tutti figli dello stesso padre-patriarca. Tenetelo a mente quando insultate il Dio degli ebrei: magari il vostro Dio cristiano non sarebbe tanto d'accordo. E non voglio sembrare quella che sfoggia il proprio misero sapere: sono quella che legge, a volte bulimicamente, dai 5 ai 7 libri al mese e mi sento sempre all'ultimo banco, quella che ne sa un paragrafo in meno di mio nonno, ma voi parlate con la sicumera di chi conosce un capitolo in più del libro...che non avete mai letto. Ne sapete di più di quegli “sfigati” che si sono consumati gli occhi studiando economia, finanza, politica estera, sociologia e relazioni internazionali. Ma perché quegli “sfigati” hanno perso i loro anni migliori a studiare strumenti e strategie quando bastava incontrarvi al Bar Sport per sapere esattamente come risolvere conflitti bellici, sociologici e politici? Bisogna avere grande, enorme rispetto per chi studia, per chi legge, per chi ha sete di conoscenza, perché da loro possiamo apprendere e migliorare. Ho scelto di studiare, ho scelto di leggere e ascoltare, perché penso che solo così si possa crescere. Sono andata all'università spaccandomi la schiena nelle cucine dei ristoranti di Sassari, perché a casa non c'erano soldi e studiare è stata una mia scelta. Andavo a dare gli esami e nascondevo le mani sotto la cattedra perché erano piene di ferite infette che mi procuravo pulendo il dentice e aprendo ostriche per il sindaco o grigliando costate per il presidente. Ho incassato con dolore i vostri “tanto la laurea non serve a un cazzo”, e avevate ragione, perché quel poco che so l'ho imparato ascoltando chi ne sapeva più di me, leggendo al di fuori del percorso accademico e confrontandomi con persone di ogni etnia e religione. Quando in estate facevo la cameriera per i VIP nei ristoranti della Costa Smeralda, per poi pagarmi gli studi, voi avete scelto di andare in spiaggia a prendere il sole. E avete fatto benissimo, però un libro potevate portarlo sotto l'ombrellone, magari uno di grammatica, giusto per sapere che il condizionale non è un pezzo del motore simile al differenziale, e questo vi avrebbe impedito di scrivere su Facebook “questi islamici anno rotto il cazzo”, lasciando la h a far compagnia ai tasti obsoleti della tastiera. Siete stati, e ancora lo siete, liberi di scegliere fra l'ignoranza e l'umiltà del sapere, e avete scelto la prima. Non condanno la vostra scelta e neanche la giudico, semplicemente non rompete i coglioni con i vostri postulati che ricadono su tutti: anzitutto sui vostri figli, sulla nostra società, sul nostro futuro e sul nostro benessere biliare e sfinterico. E a me spiace tanto che abbiate l'idea della politica alla Salvini e simili. Mi spiace che voi ignoriate il vero senso (perduto) della politica, di quell'arte di amministrare la polis per il bene di tutti. Mi spiace che non abbiate mai letto Gramsci, che non abbiate sentito parlare Berlinguer su un palco, o ascoltato De Gasperi, e che non abbiate mai sentito urlare Pertini che oggi, a quelli che sfoggiano cartelli idioti sugli scranni del parlamento, li avrebbe presi per un orecchio e mandati a spalare letame nell'Agro Pontino. Mi spiace che per voi la politica sia rappresentata da uno che mostra la pistola in TV, da chi usa il Vaffanculo risolutivo e l'insulto come dialettica. Mi spiace che per voi la politica sia
comunisti= dittatura Russia/Cina,
destra=capitalismo/America,
centro=Andreotti/Democrazia Cristiana che quando c'erano loro rubavano ma ce n'era per tutti.
Ovviamente io che sono imbecille ho dovuto studiarmi Keynes e Adam Smith per farmi un'idea minima del capitalismo, e per un'infarinatura del comunismo ho dovuto scomodare oltre a quel mattone di Marx anche Tolstoj e Solženicyn. E per questo non mi sento migliore di chi non li ha letti, ma almeno faccio l'unico atto rivoluzionario concesso in questo periodo storico: istruirmi. E voi dovete leggere ragazzi, perché essere ignoranti non è più una scusa e neanche uno status accettabile. Perché l'ignoranza è pericolosa, è un cancro che distrugge e uccide. I terroristi sono criminali ignoranti, chi inneggia alla morte è ignorante, chi predica l'odio razziale è ignorante, e scegliendo l'ignoranza diventate il pasto preferito di quattro sciacalli avvezzi alla demagogia. E l'ignoranza quando sale al potere è pericolosa quanto una bomba sull'uscio di casa, perciò istruitevi perché siete voi il futuro e si spera che riusciate a renderlo migliore. E per favore, evitate di postare i video di De Andrè subito dopo aver scritto quelle minchiate. Perché se il buon Faber fosse ancora fra noi, vi avrebbe sorriso con tenerezza, e fra uno sbuffo di fumo e un sorso di vino, avrebbe fischiettato “se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo”.  E poi, con una sottile lacrima, vi avrebbe regalato un bel libro.
Lanciandovelo a mano piena sulla calotta cranica.

venerdì 10 aprile 2015

La danza di un palloncino sgonfio.



C’era una volta un bambino bellissimo che per comodità chiamerò Jons. Nacque in Sardegna, in un piccolo paese di collina, e tutti gli abitanti capirono da subito che era speciale: rendeva bello tutto ciò che gli stava intorno. I genitori di Jons erano felici di quel primo figlio morbido e sorridente ma quando aveva quasi un anno si resero conto che quel bambino speciale non stava poi tanto bene. La madre lo prese con se e cominciò a vagare per gli ospedali, vegliandolo notte e giorno, dormendo su una sedia e aspettando risposte da qualche camice bianco. Infine la risposta arrivò. La madre tornò a casa con quel fagotto e spiegò brevemente al marito parole che non capiva: Talassemia, o Morbo di Cooley, o Anemia Mediterranea. Lo guardarono e notarono che forse era solo un pochino più pallido di quando sembrava stesse bene, perciò pensarono che quella strana malattia non poteva intaccare la sua bellezza e tornarono a pensare che era semplicemente un bambino speciale. Jons si rimise in fretta, anche se risultava sempre più difficile spiegare agli altri che quel bambino così speciale si portava dentro una condanna: i suoi occhi vispi ogni settimana pendevano per ore infinite da una sacca di sangue, appesi al filo rosso di un palloncino sgonfio. Forse dei genitori normali si sarebbero fermati a quel primo figlio, invece i genitori di Jons ne sfornarono altri 3, convinti che una malattia non potesse intaccare il desiderio e la fame di vita che alloggia in ogni essere umano. Probabilmente avevano ragione, perché quei bambini crescevano senza mai sfiorare la tristezza: la malattia di Jons prese da subito le sembianze di una routine alla quale tutta la famiglia si adeguò senza traumi. Peraltro Jons era bravissimo a far sembrare tutto straordinariamente normale e semplice: era un mago che sapeva legare le lacrime di tutti con un filo spesso di spensieratezza, per poi gettarle in aria come fossero chicchi di grano capaci di partorire rigogliose risate. Nonostante le attenzioni protettive della madre niente poté impedire al bambino di avere una vita normale: Jons correva, saltava, sperimentava nuovi giochi ed era amato da tutti, questo nonostante le lunghe permanenze in ospedale. Già, perché via via che cresceva i problemi aumentavano, non solo per la necessità sempre maggiore di trasfusioni di sangue ma per un sistema immunitario quasi inesistente, per cui anche una banale influenza diventava una probabile causa di morte. Durante uno di questi sgraditi soggiorni, forse per l’asportazione della milza o forse per un’appendicite in peritonite, la madre cominciò a pensare che il buon Dio fosse andato in vacanza, scordandosi di spedir loro una botta di culo. In quell’occasione insieme a Jons fu ricoverata anche la sorella Pinchitta per una bronco polmonite virale: quando si dice che la fortuna è cieca, eh! Pinchitta alloggiava comodamente al 2° piano e Jons al 4°, e la madre, non avendo il dono dell’ubiquità faceva la spola passando gran parte del tempo a correre nelle scale più che al capezzale dei figli. Poi i medici le consigliarono di rimanere con Jons perché Pinchitta era abbastanza contagiosa e questo poteva aggravare le condizioni del fratello maggiore. Poco male, perché Pinchitta era una bambina rotonda con la parlantina di un mangianastri, e quando rideva anche il primario balzava sulla sedia convinto che 583 pattuglie di pompieri avessero fatto irruzione nel reparto a sirene spiegate. Le infermiere se la contendevano come fosse un peluche della Trudi e le coccole arrivavano a vagonate. Passò tanto tempo, forse un mese, finché un giorno l’infermiera grassa coi capelli di fieno arrotolato la prese in braccio, la mise in ascensore, le coprì la faccia con una mascherina e quando le porte si aprirono Pinchitta sentì una voce che le riempì le orecchie fino a toccarle le viscere. Dalla porta Pinchitta vide la madre con un piatto di cibo dall’aspetto nauseante, che cercava di convincere Jons che quel polpettone era il più buono del mondo, ma lui la sapeva lunga e implorava le salsicce arrosto che abitualmente mangiava a casa. Jons era pieno di fili rossi, bianchi e gialli, sembrava un burattino legato alle corde maldestre del destino. Mentre la mamma correva ad abbracciarla, Pinchitta non riusciva a distogliere lo sguardo dalla sacca di sangue, dal tubicino che scivolava ai piedi del letto, dalla bottiglia che gocciolava nel braccio di Jons. “Sta meglio, gli antibiotici l’hanno devastata ma si sta riprendendo, torneranno a casa insieme” disse l’infermiera mentre stringeva Pinchitta col suo braccio morbido e caldo, come se volesse proteggerla da tutto il male del mondo. Jons era inchiodato al letto, la guardava come se volesse dirle tantissime cose, Pinchitta lo salutò agitando la mano, lui le strizzò l’occhio e le sorrise con quella sua maniera indelebile, e fu come se i fili che lo avvolgevano avessero imprigionato anche la sorella, in una sorta di abbraccio dal quale nessuno dei due si sarebbe più liberato. E tornarono a casa insieme, un giorno di quasi primavera, trovarono il camino acceso, affinché nessuno potesse sentire freddo aprendo la porta di casa. Era stato solo un beffardo urto del destino che non fermò la voglia di vivere di quei due. Sarebbe bello avere per sempre l’inconsapevolezza dei bambini che cadendo dal precipizio sorridono pensando che è bello volare e non si curano dello schianto o delle ferite che avranno addosso. Jons e Pinchitta divennero compagni di giochi e complici, dormivano in camera insieme, e per la madre non fu un compito facile tenerli a bada, visto che l’uragano Katrina era una brezza leggera in confronto a quei due tsunami. Andavano nella piazza del paese a giocare con le biglie, e Jons era bravissimo: vinceva e le biglie di troppo le regalava a Pinchitta. La casa venne invasa da biglie colorate e ogni membro della famiglia era solito scivolarci sopra prendendo la sua quotidiana culata sul pavimento. La mamma pensò bene di cucire le tasche dei pantaloni dei due affinché non avessero modo di portare a casa le biglie vinte. Peccato che un giorno Pinchitta trovando le sue tasche chiuse a 4 mandate di punto croce, pensò di metterle in bocca usando le sue guance come tasche. Orrore! Quando i due tornarono a casa sembravano due scoiattoli con un melone Cantalupo in bocca. La madre scucì tutte le tasche per evitare un altro soggiorno in ospedale dovuto all’ingestione di una quintalata di palline. Finite le biglie i due si diedero all’allevamento delle più disparate specie di fauna locale. Cominciarono ad allevare formiche sottraendo graminacee dal deposito del padre. I formicai ebbero presto le dimensioni del Krakatoa. La zia vi sprofondò dentro e ne uscì una quantità di formiche impazzite che coprirono metà del giardino. Il giardino venne zappato e i formicai distrutti. Allevarono passeri, tordi, quaglie e qualsiasi volatile si aggirasse spensierato sotto le tegole della casa della nonna. Ma gli uccellini non erano animali di compagnia: tornavano solo se i due unni in miniatura avevano fra le mani quantità inestimabili di cibo, poi volavano via. Poco male, ripiegarono sui piccioni. Ne catturarono uno, lo nutrirono fino a fargli assumere le proporzioni di un fagiano obeso. Probabilmente quel volatile aveva una mailing list più lunga del WWF e nel giro di poco tempo il cortile venne invaso da piccioni che sostavano ovunque in attesa di cibo. Un giorno la madre lasciò le finestre aperte per il caldo e l’indomani trovò in cucina volatili, piume e una coltre di guano che trasformò le maioliche di casa di un colore MarroNero. Bastarono due spari in aria di un cacciatore e dei piccioni non se ne ebbe più notizia. Stessa sorte toccò ai pulcini: quando i due tornavano da scuola trovavano qualche piuma sparsa nel patio, un coccodè in meno nel cortile e una coscia di pollo in più sul piatto. Quando sul piatto trovarono il coniglio alla cacciatora, i due bambini capirono che anche Bachisio e Lola, i due conigli che avevano sfornato una cinquantina di figli, erano passati nel purgatorio della cucina materna. L’infanzia finì con l’ultimo tentativo di allevamento: i topi. Dopo che i due ebbero sottratto ingenti quantità di formaggio dalla cantina familiare per nutrirli, il capostipite riuscì a scappare dal recinto, che ingrato! Qualche settimana dopo la nonna tirò fuori dalla credenza un enorme vassoio di dolci avvolto nella carta velina. Quando lo aprì svenne, visto che al posto di tiricche e amaretti vi era un gigantesco topo obeso coi baffi ancora sporchi di pasta di mandorle che a stenti riuscì a scappare fra le gambe delle signore riunite per il caffè. Finì la loro infanzia e iniziò l’adolescenza con tutti i suoi problemi e le sue bruciature ancora tutte da scoprire. Jons crescendo aveva sempre più bisogno del sangue degli altri. Per le sorelle di Jons era diventato normale chiedere agli amici se conoscevano qualcuno che potesse donare il sangue al fratello. Forse a quell’età sarebbe stato più normale per loro chiedere un passaggio in motorino piuttosto che una sacca di sangue. Ma la madre era stata bravissima nel rendere quella malattia una cosa normalissima, perciò ciascuno faceva il suo pezzo con la stessa naturalezza con la quale si beve un sorso d’acqua fresca dopo una corsa. Pinchitta un giorno cercò sull’enciclopedia “Anemia mediterranea”, “Beta Talassemia Major” e “Morbo di Cooley” e l’unica cosa che capì fu che erano 3 sinonimi. Chiese alla madre perché Jons andava sempre più spesso in ospedale e perché il suo colorito era sempre più scuro. La madre spiegò le cose così come si devono spiegare ai bambini: “L’emoglobina di Jons è capricciosa e rende i suoi globuli rossi deboli, o addirittura li fa scomparire, pufff! come un mago maligno! Perciò i medici prendono altri globuli rossi, li mettono nelle sacche e li regalano a Jons. Solo che tutto questo via vai di globuli produce un sacco di ferro nel fegato, ma noi non ci facciamo mica fregare dal ferro eh! Perciò Jons ogni giorno mette 3 fiale di Desferal nel suo sangue per sconfiggere il ferro. Eh si, diventa un po’ più scuro e giallognolo degli altri perché a volte vince il ferro…ma non per sempre eh!”. È un vero peccato che non si possa restare sempre bambini e vedere le cose come in un cartone animato, colorato, pieno di suoni e allegria, e con un lieto epilogo prima che compaia la scritta “The End”. Jons crescendo conobbe tutti i reparti degli ospedali del circondario, Pinchitta scoprì che bastava una banale bronchite per ridurlo quasi cadavere fra le lenzuola madide di una brandina. Col tempo la madre di Jons poteva fare l’infermiera ad honorem, era in grado di cambiare le flebo, sapeva dove stavano pappagallo e padelle di ogni reparto, era conoscenza di tutti i turni del personale medico e paramedico di ogni presidio ospedaliero. Questo ruolo toccò presto alle sorelle. Pinchitta si rendeva conto che ogni volta che Jons veniva ricoverato in ospedale, erano il ferro e l’emoglobina stronza a vincere su Jons. Diventava straziante vedere quel ragazzo appeso ai tubi, voltarsi e chiedere “Sto per morire, vero?”. Queste frasi si dovrebbero pronunciare a 90 anni, non a vent’anni. Ma Jons era speciale, ve l’ho gia detto: si riprendeva in fretta e una volta sconfitta la cattiva sorte, giocava a rimpiattino col destino, a mordere e a nutrirsi della vita come si fa con un gelato, che lo devi mangiare subito altrimenti fra un minuto si è già sciolto, e a te rimangono solo le mani sporche di gocce da leccare. Jons lavorava, allevava cani, gatti, piante e tutto ciò che gli desse l’idea di nuova vita; non si perdeva un concerto, ogni sera usciva con gli amici fino a notte fonda, appassionato di cinema, di motori, ma soprattutto innamorato delle persone, alle quali dava tutto ciò che riusciva a dare, così come di solito fa chi non ha più niente da perdere o da guadagnare. Circa 15 anni fa il ferro di Jons si impennò a dismisura. Già i medici consideravano un miracolo che fosse ancora vivo, perciò pensarono a una delle tante possibili complicazioni della Talassemia. Invece Jons aveva contratto l’Epatite C da una trasfusione. Chi è che aveva detto che la sfiga ha la mira di un cecchino? Quando si cercò di capire di chi fossero le responsabilità fu davvero curioso notare come lo Stato, l’ospedale militare, i medici e chiunque avesse manipolato quel sangue infetto che contagiò centinaia di politrasfusi, si rimbalzavano la palla a vicenda, lavandosi le mani di fronte a un danno irreparabile perpetrato ai danni di chi ha già un bel paiolo di cazzi suoi da risolvere. Ma Jons era speciale, lo sapete già, se ne fregò dell’epatite, del ferro che lo divorava, e andò avanti, lui e la sua tenace voglia di vivere, tenendosi per mano un po’ di dolore, quel tanto che basta per dare all’esistenza uno schiaffo di meraviglia. Jons è ancora vivo, nonostante tutto, adesso ha 47 anni: è il più vecchio del Centro Trafusionale dove si reca ogni settimana per nutrirsi di 2 sacche di sangue. È il più vecchio perché gli altri sono tutti morti prima di lui. È orribile dire che un uomo di appena 47 anni è vecchio. È ingiusto. Gli altri lo guardano e pensano si, che Jons è davvero speciale perché ha saputo guardare oltre il suo metro quadro ed è stato in grado di volare oltre, senza aver paura di cadere. Jons è arrivato fin qua solo per dire che il segreto della vita è che devi averne rispetto, e devi amarla, e devi voler vivere fortemente e lottarci per averne una briciola in più. E devi prenderla per il culo questa vita: devi sorriderle e darle una carezza mentre le stai rubando qualche minuto in più di emozioni da portarti dietro nel tuo viaggio. In fondo solo quando si perde tutto si riesce a gioire anche per il volo sgraziato di un palloncino sgonfio.

Jons è mio fratello, Pinchitta sono io. Con questo post volevo ringraziare tutti i donatori di sangue: sappiate che ogni volta che avete donato il sangue lo avete fatto anche per me, per la parte più importante e viva di me. Vi chiedo di continuare a farlo per tutti quelli che come Jons vivono appesi a quel palloncino rosso e sgonfio che aspetta di volare. Jons la settimana scorsa ha avuto una diagnosi di cirrosi epatica. Entrambi eravamo divisi da un telefono, io cercavo di dirgli che non è grave, e mentre glielo dicevo cercavo di convincere me stessa che no, non è grave, Jons ce la farà anche stavolta. Probabilmente mi sarei dovuta aspettare una resa da parte sua, una frase del tipo “Beh, ho vissuto 47 anni, i miei amici sono morti a vent’anni, me la sono goduta, mi sono bevuto di questa vita tutto quello che potevo bere, e finché ce n’è continuerò a berla”. Invece no, dall’altra parte del telefono sentivo palpabile la sua disperazione, come un rasoio che ti strazia ogni lembo di carne, quella frase che non avrei mai voluto sentire: “Non voglio morire sorella”. Ed io che non ho saputo far altro che mentirgli “Non morirai neanche stavolta, vedrai”. E ho sentito quei fili che mi hanno legato a lui quel giorno in ospedale, farsi improvvisamente fragili. E ho avuto paura. Ho solo la paura egoista di perdere la parte migliore di me, di smarrire quelle orme che ho seguito da quando ho visto quel palloncino rosso appeso alle sue vene. Perché lui è il mio maestro di vita: è solo grazie a lui che ho imparato a sorridere anche quando il mondo si sbriciola fra le tue mani e ti rimane solo l’odore acre del misero sterco umano. Ho paura della sua morte, di questo vecchio di 47 anni che ha ancora i poster di Mark Knopfler appesi in camera, che colleziona film in bianco e nero, che gioca coi suoi cani come un bambino, che vive del sangue altrui e che elemosina scampoli di vita ad un destino ingrato. Non farmi questo Jons, non devi andartene. In fondo voglio solo che in questo mondo di palloni gonfiati ci sia ancora posto per le traiettorie magiche e sgraziate di un palloncino sgonfio.