giovedì 29 ottobre 2020

Quaderni e ricordi

Ieri durante le pulizie delle "casette" ho avuto modo di vedere uno scaffale pieni di vecchi libri e quaderni. Mio padre, che è un poeta, mi ha detto che deve ristrutturare, pertanto scaffale e scartoffie sarebbero finiti in discarica. Oggi mi sono occupata di quello scaffale. Si, c'erano tantissime scartoffie inutili che era giusto buttare, moltissimi libri scolastici di mia sorella, qualche decina di mio fratello e solo 3 erano miei. Ci sono rimasta male: possibile che non abbia conservato niente del mio passato scolastico? Poi mi sono ricordata: all'inizio dell'anno scolastico portavo tutti i vecchi libri a quelli della classe precedente. Ne ho conservato solo tre: due libri di letteratura e uno di storia.Consumati fino a morire, quello foderato da mia madre è l'unico salvabile. Sulla prima pagina c'è una frase esplicativa della mia eterna compagna di banco. Ho trovato qualche mio quaderno, qualche pagella, il primo libretto di "Maria Rosa" che mia madre mi aveva regalato per imparare a fare le torte, qualche altro ricordo sgangherato e in ultimo un Vangelo. Quando mi hanno trascinato per fare la Prima Comunione ero già una terrorista, la catechista parecchie volte ha minacciato di rompermi la chitarra sul cranio, ma solo dopo aver cantato Camminerò Camminerò nella tua strada Signor. Al termine del catechismo ha regalato a tutti un Vangelo con la frase di un apostolo. Io però avevo già capito tutto della vita e sotto ho aggiunto "Raffaella bella ti amo", e questo è tutto ciò che ho appreso dal catechismo. Quando credevo di aver finito ho notato in un angolo un voluminoso involucro verde, coperto da mille anni di polvere: dentro c'erano 20 anni di vita mia madre. È stato come avere in mano la sua adolescenza ed io la sfogliavo con la delicatezza che si usa con le cose preziose. Mia madre ha studiato in un collegio di suore: erano 5 figli, nonno era un muratore e nonna una casalinga, volevano che i figli studiassero ma nel circondario non c'erano scuole superiori. Non avevano risorse economiche e l'unica via fu quella di pagare la retta presso un collegio. Mia madre ora è in pensione dopo 45 anni di insegnamento, raramente ci ha parlato dei 5 anni trascorsi in collegio. Oggi ho trovato i suoi libri ancora foderati con della carta colorata (ma', che fantasia però eh!): tre volumi di Pedagogia, tutti i libri di latino, le antologie e ogni genere di libro sul quale ha studiato, compreso quello di Educazione civica. Ho trovato i suoi quaderni, scritti minuziosamente, senza sbavature, proprio come quei lavori che fa all'uncinetto: lineari e perfetti. Ho trovato un suo diario: mi veniva da piangere vedendo quella grafia, quelle cose da studiare e non riuscivo ad immaginare come fosse studiare dentro un collegio, i ritmi, le modalità. Ho trovato dei fiori dentro alcune pagine...ci sarà stato un giardino nel collegio? Studiava all'aperto? Infine ho trovato un quaderno uguale a tutti gli altri. L'ho aperto e mi sono resa conto che era un quaderno speciale: alla fine dell'anno le collegiali si scrivevano a vicenda dei pensieri, un ricordo dell'anno appena trascorso.Leggendo la prima pagina ho pianto e mi sembrava di violare qualcosa di segreto. Ho chiuso tutto e sono andata da lei "mamma, ho trovato i tuoi quaderni di scuola...vuoi conservarli? Sono bellissimi, li teniamo?". Mia madre, che è una poetessa, ha risposto "cosa diavolo me ne faccio? Mica devo studiarmeli ancora una volta?!". Io invece volevo tenerli "mamma, sono un ricordo di...", mi ha interrotto "non c'è posto per tutti i ricordi, invecchiando si arriva a tenere solo quelli che ti fanno star bene. Qualcuno devi lasciarlo cadere. Se vuoi puoi tenerli tu". Ed è questo che oggi ho messo in valigia: l'adolescenza di mia madre, quella che non conosco, quella che le è scivolata via fra un libro e una divisa da collegiale. E piangerò su quell'aereo, come sempre, ma forse mi sentirò meno sola. 

mercoledì 28 ottobre 2020

Su Cùmbidu ai tempi del Covid

Il 28 ottobre di ogni anno io sarò in Sardegna. In quel giorno, nel 2017, è morto mio fratello e io sento di passare quella giornata a Casa. Ma vivo in Sardegna, un'isola dove le tradizioni hanno più valore delle leggi scritte. Ogni anno, finché qualcuno della mia famiglia avrà memoria, si terrà la commemorazione di Jons che si articola in queste fasi: si va tutti a messa, da lì si va al cimitero insieme al prete che benedice la tomba e recita le sue preghiere in latino, poi tutti i partecipanti abbracciano la famiglia e piangono il dolore per il caro estinto. Si, in pratica ogni anno si celebra un ulteriore funerale. Terminata questa parte prettamente religiosa, la famiglia offre ai partecipanti "unu cùmbidu" ossia offre da mangiare e da bere per ringraziare quanti ancora si ricordano del defunto. Ma non solo, questo si chiama "piaghere torradu" (cortesia restituita): nei giorni della veglia funebre nella casa del defunto non si cucina, sono parenti e amici che si occupano di portare cibo per alleviare la sofferenza della famiglia. Ecco, quel rinfresco dopo la commemorazione religiosa, si traduce così "mi avete aiutato e dato da mangiare quando ero sofferente, ora sono io che mi prendo cura di voi". È tutto molto bello ma io penso che ogni anno per mia madre è un continuo scavare dentro una ferita mai chiusa. Quest'anno per un attimo ho pensato "col Covid tutto questo è vietato" e sempre per un attimo ho tirato un sospiro di sollievo. Ok, si farà la messa, tutti distanziati e mascherati, ma soprattutto niente cùmbidu-rinfresco e niente assembramenti. Perché io non ho una famiglia, io appartengo ad un clan che solo da parte di mio padre (12 figli) comprende 36 cugini in primo grado (il più grande 67 anni il più piccolo 25), cugini che hanno tutti dei figli (il più grande 43 anni e la più piccola 3 mesi). Vien da sé che una commemorazione "solo la nostra famiglia" comprende oltre un centinaio di persone. Stamane ho fatto un lungo spiegone ai miei genitori riguardo il fatto che il cùmbidu-rinfresco non si poteva fare: solo 6 persone dentro una stanza ampia, con distanze e mascherine, ok papi? Ok mami? Quindi no, quest'anno non si fa, pazienza, si va a messa, andremo in cimitero solo noi e NIENTE CÙMBIDU, È CHIARO??? Dopo un minuto di riflessione mio padre ha esclamato "apriamo la cantina e le casette, in ogni casetta ci mettiamo 6 persone con distanze e mascherine, va bene così?". Sono stata sconfitta. Ho chiesto a mia madre perché tutti gli anni vuole infliggersi tutto questo male, questo continuo allargare la sua ferita. Mi ha risposto "sono loro che mi aiutano ad andare avanti. Ognuno di loro ha condiviso qualcosa con tuo fratello e vederli qua tutti insieme mi da pace, è come averlo ancora qua". Mi sono alzata e sono andata a pulire le casette. Abbiamo una serie di "casette" (stazzi galluresi ristrutturati): la casetta della frutta e verdura, la casetta dei libri e quaderni, la casetta delle campanelle di pecore e mucche e varie ed eventuali. Sono quasi morta quando ho finito di pulire la casetta del vino: c'erano ancora i vapori del mosto e della vinaccia, io sono astemia e sono uscita barcollando. Sono arrivata alla messa sfinita: non sono venuti tutti ma uno per famiglia, tutti distanziati e con la mascherina, poi si sono sparpagliati in gruppi da 6 nelle "casette". Abbiamo parlato molto di Jons, abbiamo ricordato le sue risate, mangiando un amaretto da sotto la mascherina e quando lentamente sono andati via, ci siamo ritrovati noi. Siamo saliti in cimitero da soli, abbiamo messo i fiori nuovi, c'erano ancora quelli che mamma aveva messo una settimana fa, ma fa niente: abitualmente lei toglie quelli vecchi e li distribuisce nelle tombe senza fiori, quelle che nessuno cura più, poi mette quelli nuovi sulla tomba del figlio. Jons è stato seppellito nel ripiano alto, in fondo ad una fila di loculi, mia madre è alta come me, un metro e un Crodino, ed è straziante vederla arrampicarsi su quella foto, sussurrare "scusami, non arrivo neanche a toccarti, non ce la faccio". E rimane lì, appesa a quel marmo, con le unghie che graffiano la lapide, come se volesse strapparlo da quel mondo sconosciuto e riportarlo a casa. Poi si arrende, asciuga le lacrime, guarda la foto, sussurra qualcosa che nessuno di noi riesce a sentire e, sconfitta, esce dal cimitero. E quel dolore oggi è rimasto nostro, qualcosa di intimo che ci siamo spartiti, ciascuno con la sua parte e ognuno con un pezzo di cuore in meno, rimasto incastrato fra un pezzo di marmo e un fiore reciso. E abbiamo cercato di scaldarci a vicenda, ricordando qualche aneddoto divertente di quel fratello immenso e sfortunato, abbiamo riso con gli occhi lucidi e ora mia madre è lì, con il suo uncinetto a intrecciare altre tessere del suo mosaico che rimarrà sempre incompleto. E forse questa tradizione, così dolorosa e a volte crudele, non è poi così sbagliata: in fondo oggi Jons era ancora qua e mia madre ha pianto le lacrime necessarie per lavare via un po' di dolore. 

martedì 27 ottobre 2020

La paura di tornare a volare

Da febbraio 2020 non ho più viaggiato su treni, bus e aerei, ma solo in auto o traghetto. Per me che prendevo voli e treni come fossero ciliegie, questo è un record traumatico che prima o poi doveva terminare. Stamane sono uscita di casa e giunta in stazione, bardata come neanche Lancillotto nel duello con Meleagant. Alle 9:00 del mattino ad attendere il treno per Milano Centrale c'ero io, un piccione, un signore con un gilet catarifrangente e il capostazione. Mi convinco che forse non si può prendere il treno, che è uscito un nuovo DPCM, che forse il coprifuoco è stato esteso, che la Regione Piemonte ha vietato gli spostamenti o che a breve arrivi Yoda e mi trafigga con una spada laser. Ma invece no, il treno arriva e la vera notizia è che arriva puntuale. Prima di salire ipotizzo di rifugiarmi nel bagno del terzo scompartimento se dovesse esserci la calca di umani. Ma no, neanche quello, il mio spazio vitale è ampiamente rispettato e mai nella mia carriera pluri decennale da pendolare, ho avuto così tanto spazio. La brutta notizia è che i sedili della Trenord fanno schifo come sempre. L'arrivo a Milano mi emoziona: questa città mi ha offerto un lavoro decente al mio rientro da Londra, Milano mi ha preso per mano e mi ha tenuto stretta finché non ero pronta per volare altrove. Vederla dal treno, dopo tanto tempo, mi fa cadere qualche lacrima...mi ricompongo subito ché altrimenti bagno la FFP2. In stazione ci sono corridoi in entrata e altri in uscita, ed io ovviamente sono andata controcorrente: deformazione professionale, subito corretta da un Carabiniere che mi ha inseguito per farmi ritrovare la retta via. Il bus per Linate si rivela ancora più agevole: siamo in 6 su tutto il pullman, fra le quali una meravigliosa signora pugliese che ha offerto dolci fatti in casa a tutti, da mangiare sotto la mascherina e diceva che era più semplice aspettare il bus dopo una cartellata al miele o un bucconotto. L'aeroporto di Linate è quasi spettrale: non c'è bisogno di quei nastri divisori per mantenere la distanza, l'aeroporto è quasi vuoto, siamo davvero due gatti, neanche quattro. E questo fa riflettere su come questa situazione ci abbia trasformato: quei negozi vuoti, l'estrema distanza della quale tutti siamo rispettosi, gli annunci così diversi dal solito e noi, con quei trolley pieni di inutilità che ormai abbiamo paura di prendere un volo. Le hostess sono belle, brave e giustamente rigide: a quei pochi che lasciano il naso fuori dalla mascherina (ma perché? PERCHÉ??) li riprendono come alle scuole elementari, e quando non basta parlano al microfono "indossare correttamente la mascherina...si, anche sul naso...signore, ha capito??" così la figura di m...arrone è più epica. Il volo mi rimette in pace col mondo: da qua tutto è piccolo e insignificante ed io mi sento dentro una ciotola di bambagia. Piango quando la vedo da lontano, mi ero scordata l'immagine della mia Casa dall'alto: immensa, maestosa, madre. Si scende una fila per volta, se qualcuno si alza prima del dovuto, l'hostess ti bacchetta al microfono con una flemma simile a quella di Tyson con Holyfield. Ed è strano scendere e non poter abbracciare nessuno quando invece vorrei stringere e abbandonarmi. E trovare la porta di casa spalancata, la luce accesa, mia madre che mi aspetta, col suo sorriso disarmante e i suoi occhi chiari. Ed è crudele non poterla baciare, darle quella carezza che ho annodato nella gola da troppo tempo, mentre lei continua ad intrecciare i fili della sua vita con precisione, passione e ostinazione. E non bastano tutte le lacrime per rimpiangere tutte le volte che potevo abbracciarla e non l'ho fatto. 

sabato 12 settembre 2020

Lo strappo

Stamane Alghero mi ha salutato prendendo spunto dal mio umore. Pioveva ed io dovevo chiudere la valigia. Avrei potuto lasciare tutto in quell'albergo ché tanto ciò che mi serve non può essere contenuto dentro un trolley. Ho preso la strada litoranea e sono arrivata a Castelsardo, che appare così, imponente e friabile. Ho cercato di smaltire qualche grammo in quelle salite fino al castello, conservando l'illusione di tornare in Piemonte con dei glutei marmorei. Poi mi sono persa nei vicoli, dove le donne intrecciano cestini: quei disegni e geometrie che si intersecano, un po' come tirare i fili del destino e cercare di mettere in ordine l'esistenza con un altro giro di ruota.  La malinconia però era entrata dentro le mie tasche e l'unica cosa che potevo fare era andare a fare l'ultimo bagno. E in quell'acqua dove tante volte mi sono specchiata, mi vedevo scomparire: in fondo una parte di me resta su quest'isola. Non è semplice spiegare cosa si prova nel partire: è un pezzo di carne che si strappa e rimane su questa terra. E vado via sapendo che sarò incompleta finché non ritorno a prendemela questa parte di me. Allo stesso tempo parto sapendo che tornerò alla mia Vita, al mio lavoro, la mia casa in Piemonte. Quella regione che per quanto fredda e nebbiosa mi ha accolto e mi permette un'esistenza dignitosa, e anche quella è casa mia. Una casa diversa dalla Sardegna, dove cerco di metterci dentro tutta la mia isola: i campanacci presi dall'azienda di mio padre, la bandiera dei 4 mori alla parete, i legnetti raccolti dalla spiaggia, il mirto sempre in fresco da offrire agli amici. Ed è così che mi avvicino al porto, c'è Superman ad accogliermi, e ho davvero bisogno di un supereroe per riuscire a salire sul traghetto senza piangere.Perché ogni volta è uno strappo sulla carne viva, è il profumo dei cespugli, i cui nomi ho imparato da mio nonno "custa este sa chessa, custu su mudejiu, su lidone, sa multa...", è il suono della lingua sarda che non sentirò per molto tempo, il mio nome urlato dalla finestra di casa, ma soprattutto è il distacco dagli occhi chiari di mia madre che ho lasciato con la speranza di poterli rivedere. E se rimanessi qua non l'amerei così tanto, come adesso che sto per lasciarla. 

venerdì 11 settembre 2020

Le ricche stuoie e i tramonti

Da quest'anno la spiaggia de La Pelosa di Stintino è a numero chiuso, si paga via web un biglietto fino al raggiungimento di una certa soglia, mentre da qualche anno è obbligatorio l'uso della stuoia sotto l'asciugamano per evitare di portare via la sabbia. Per me sono scelte giuste: conosco questa spiaggia dai tempi dell'università, quando noi studenti andavamo alla Pelosa fra una sessione e l'altra, non c'erano turisti, i parcheggi erano gratuiti e noi poveri disgraziati potevamo accedere ad un paradiso per ricchi. Col tempo è diventata talmente rinomata che negli ultimi anni ho fatto fatica a riconoscerla, tanta era la gente e gli ombrelloni disseminati sul litorale: una calca che neanche all'Ikea di Corsico la domenica mattina. Ho prenotato circa un mese fa, e stamane a grandi falcate mi sono diretta verso Stintino. Le mie grandi falcate hanno dovuto fare i conti col traffico. No, non c'era traffico ma ovviamente quando vorresti arrivare il prima possibile a destinazione per sfruttare il sole tanto atteso, trovi sempre lo zio col Pandino che sta andando a mietere il fieno. A 30 all'ora. E una volta che superi il nonnino, vuoi non mettere un camion carico di piombo che va a 20 km/h? Perché farne a meno? Ma poi si arriva, e arrivano i colori e il sole, così all'improvviso che rimani senza fiato. All'Info point danno dei simpatici braccialetti azzurri, di quelli che non si staccano neanche con la cesoia. Mi rendo conto che intorno a me, in spiaggia, quasi nessuno possiede questo meraviglioso braccialetto. Sono un'anima romantica, penso che non lo abbiano messo per non rovinare l'abbronzatura. All'arrivo degli agenti della compagnia barracellare apprendo che nei 20 m² che mi circondano nessuno ha pagato il biglietto d'ingresso, e molti non avevano la stuoia. Scene esilaranti: un signore ha detto "non capire, io spagnolo" diceva, poi ha concluso che sarebbe andato via appena la moglie usciva dall'acqua. Quando questa è emersa, con calma, improvvisamente il signore parlava perfettamente l'italiano, ha riferito il tutto alla signora e poi hanno dato avvio ad una serie di improperi "ma come si fa a mettere il biglietto? In una spiaggia così piccola poi! Vergogna!...vabbè, adesso mi asciugo poi vediamo". I due passano l'ora successiva a prendere il sole e a lamentarsi del biglietto d'ingresso, che comunque non pagano. Gli altri hanno fatto lo stesso, compresa una coppia che non aveva neanche la stuoia e che sono stati invitati ad andare sugli scogli: le loro lamentele si sentivano anche a largo "perché devo usare la stuoia? Io mi faccio il bagno e non mi porto via la sabbia con l'asciugamano, perché dovrei usarla? Io non la userò mai!". Mentre lo dicevano io non riuscivo a decifrare il tatuaggio della signora perché aveva una coltre di sabbia sulla schiena pari a quella di una jeep nella Parigi - Dakar. L'esosa cifra del biglietto d'ingresso è di TRE EURO E CINQUANTA CENTESIMI A TESTA. Il prezzo di una stuoia è di circa 4/5 euro (da Tiger l'ho pagata €3,99). Perche devi far finta di andare via, aspettare che i barracelli si allontanino e rimetterti dov'eri per non pagare €3,50? Sei in vacanza e dovresti stare sereno e rilassato, ma no, devi cercare il pelo biondo nel pube di Hulk anche in spiaggia e fare sterili polemiche tali da infastidire anche i gabbiani. Peraltro le regole sono scritte all'ingresso, puoi sempre scegliere un altro posto.
Da ciò ne deduco che alcune persone sono così, sempre incazzate col mondo, che siano al mare, in montagna o in ufficio. Fortunatamente arrivano le nuvole e tutti cominciano a sbuffare, scegliendo di andare altrove. Anche io lentamente mi alzo e arguisco che all'Argentiera sicuramente c'è il sole, me lo sento. Ma evidentemente sentivo male visto che sulla provinciale sembra debba esplodere l'uragano Katrina, sempre con camion davanti, of course. Non demordo, io in fondo il sole lo vedo, è solo un po' timido e si nasconde, è palese! Ma no, non è così, all'Argentiera diluvia e io non sono più tanto sicura di voler arrivare fino in fondo. Invece arrivo, piove ma questo posto mi regala sempre una malinconia bella e pulita, anche sotto la pioggia. Forse c'è un po' di disastro in questo posto, e probabilmente questo me lo fa amare in maniera incondizionata. Sono bagnata fino al piloro e mi rifugio nel mio albergo, e poi vado a prendere il mio regalo: un sorriso e dei colori di una bella persona. E così mi godo l'ultimo tramonto sulla mia terra: quel sole che si nasconde dietro le nuvole, che gioca a nascondino con la mia pelle, mi mancherà fino a stare male.E allora me lo prendo tutto, fino all'ultima goccia che si spegne fra le onde, perché questo è ciò metterò nello zaino stasera. 

giovedì 10 settembre 2020

Di alberi, colori e tempeste

Stamattina saluto Oristano col sorriso: da qua ho esplorato la penisola del Sinis che mi ha emozionato e sorpreso. Mi ha accolto e ora, nel lasciarla, me ne porto un pezzo dietro, e sa di confini che si confondono e si mescolano. Prendo la Nord Occidentale, così da avere il mare alla mia sinistra: ovviamente la signorina di Google maps non apprezza visto che impiegherò il doppio del tempo. Ma io non ho fretta. Il cielo no, non è sereno, ma io sono impavida e decido di andare a S'Archittu. All'inizio della spiaggia trovo una casetta dei libri: mi sembra un segno di grande civiltà lasciare un libro e prenderne un altro. Faccio una piacevole passeggiata sul lungomare, il panorama aiuta a rendere tutto più interessante. L'arco scavato nella roccia è in fondo, lo vedo e mi perdo. La natura fa delle cose sorprendenti, stabili e sicure, senza bisogno di alcun architetto. Riparto e toh! Non ci vuoi mettere un camion che viaggia a 30 km/h?! Certo, ho il tempo di gustarmi tutto il panorama ma dopo un po' anche basta. Vedo un cartello con scritto "albero millenario" e perché no? Così nel frattempo il camion si sciacquerà dai culurgiones. La strada per l'albero millenario ad un certo punto diventa lastricata e/o sterrata, a seconda delle curve. Arrivata ad una curva con dosso decido di tornare indietro, visto che questo genere di strade in Sardegna spesso riservano l'effetto pentolaccia: può essere che dopo il dosso la strada si allarghi ma può essere che diventi un imbuto dal quale non riesci più a uscire. Viste le precedenti esperienze torno indietro, parcheggio e ci vado a piedi. La signorina di Google maps non la prende benissimo. Cammino in mezzo ai sassi, con le infradito, non proprio agevole, guardo il cellulare: non c'è campo, qua non prende neanche il termometro. Arrivata al dosso incriminato mi rendo conto...che dopo c'è una strada ampia, lastricata e con una serie di slarghi per fare manovra e tornare indietro. Non fa niente, avevo voglia di passeggiare, no? (la signorina di Google maps sghignazza). Quando mancano 30 metri dall'albero...spunta fuori un cane. Non c'è ombra di un umano, silenzio assoluto, il cane non ha guinzaglio e forse di lavoro fa il guardiano dell'albero millenario. Forse non è il caso di farlo incazzare, peraltro neanche abbaia e mi guarda in cagnesco, manco a dirlo! Torno indietro senza arrivare all'albero, evitando una rissa col cagnone della quale faccio volentieri a meno. Ostinata, riprendo la macchina e arrivo esattamente sotto l'albero: tutta la fatica è ripagata da ciò che vedo. È immenso, non riesco a prenderlo tutto con l'obiettivo 50 mm, devo mettere il grandangolo ma anche qua non rientra nella cornice convenzionale e sono costretta a catturarlo in diagonale: è un albero vanitoso, è necessario impegnarsi per fargli un ritratto. Entro sotto le sue fronde e mi sento dentro una casa: chissà quanti ne avrà ospitato questo olivastro, e sotto le sue grandi braccia avrà protetto pastori, pellegrini o banditi, ché siamo tutti uguali quando abbiamo bisogno di un tetto dove ripararci. Vado via con una bella sensazione, di fiducia e speranza. Attraverso paesini che sono una sfida alla logopedia: Tresnuraghes mi riserva un bel dipinto; Magomadas mi fa capire che dietro l'angolo c'è il mare. Bosa arriva senza preavviso con la sua esplosione di colori, e se dovessi scegliere una foto dei vicoli di questo paese non saprei quale scegliere. Di certo è un posto fiorito: ovunque ci sono barattoli, scarpe e vasi di fiori, mi perdo nelle sue strade, parlo con le signore affacciate ai portoni, ciascuna col suo uscio abbellito di colori e foglie. Vado via sazia e appagata, e tralasciando la poesia, a saziarmi non sono stati i colori di Bosa ma un lauto pasto in un ristorante impertugiato in un vicolo. Il cielo minaccia pioggia ma io sono sempre fiduciosa e vado a Cumpoltittu. Mi avvio nell'agevole stradina che dovrebbe portarmi al mare ma a metà percorso una serie di tuoni e fulmini mi fa desistere. Mi accontento di vedere la spiaggia, splendida e verde anche col cielo in tempesta, dall'alto. Apro una piccola parentesi: se abbasso l'inquadratura continuo a vedere lo splendore di Cumpoltittu ma anche la miseria e la stronzaggine umana, ché i rifiuti ve li dovete portare a casa o infilarveli nelle narici. Arrivo ad Alghero e la mia giornata finisce con una pioggia battente, ma io sono contenta: il rumore della pioggia mi riconcilia col mondo intero e posso scrivere i miei pensieri, quelli che nascondo in fondo al cassetto del tempo. Peraltro il mio albergo è iper moderno e avveniristico, e ora scusate, vado a chiamare Bernacca e Baroni per sapere le previsioni meteo per domani.