mercoledì 28 ottobre 2020

Su Cùmbidu ai tempi del Covid

Il 28 ottobre di ogni anno io sarò in Sardegna. In quel giorno, nel 2017, è morto mio fratello e io sento di passare quella giornata a Casa. Ma vivo in Sardegna, un'isola dove le tradizioni hanno più valore delle leggi scritte. Ogni anno, finché qualcuno della mia famiglia avrà memoria, si terrà la commemorazione di Jons che si articola in queste fasi: si va tutti a messa, da lì si va al cimitero insieme al prete che benedice la tomba e recita le sue preghiere in latino, poi tutti i partecipanti abbracciano la famiglia e piangono il dolore per il caro estinto. Si, in pratica ogni anno si celebra un ulteriore funerale. Terminata questa parte prettamente religiosa, la famiglia offre ai partecipanti "unu cùmbidu" ossia offre da mangiare e da bere per ringraziare quanti ancora si ricordano del defunto. Ma non solo, questo si chiama "piaghere torradu" (cortesia restituita): nei giorni della veglia funebre nella casa del defunto non si cucina, sono parenti e amici che si occupano di portare cibo per alleviare la sofferenza della famiglia. Ecco, quel rinfresco dopo la commemorazione religiosa, si traduce così "mi avete aiutato e dato da mangiare quando ero sofferente, ora sono io che mi prendo cura di voi". È tutto molto bello ma io penso che ogni anno per mia madre è un continuo scavare dentro una ferita mai chiusa. Quest'anno per un attimo ho pensato "col Covid tutto questo è vietato" e sempre per un attimo ho tirato un sospiro di sollievo. Ok, si farà la messa, tutti distanziati e mascherati, ma soprattutto niente cùmbidu-rinfresco e niente assembramenti. Perché io non ho una famiglia, io appartengo ad un clan che solo da parte di mio padre (12 figli) comprende 36 cugini in primo grado (il più grande 67 anni il più piccolo 25), cugini che hanno tutti dei figli (il più grande 43 anni e la più piccola 3 mesi). Vien da sé che una commemorazione "solo la nostra famiglia" comprende oltre un centinaio di persone. Stamane ho fatto un lungo spiegone ai miei genitori riguardo il fatto che il cùmbidu-rinfresco non si poteva fare: solo 6 persone dentro una stanza ampia, con distanze e mascherine, ok papi? Ok mami? Quindi no, quest'anno non si fa, pazienza, si va a messa, andremo in cimitero solo noi e NIENTE CÙMBIDU, È CHIARO??? Dopo un minuto di riflessione mio padre ha esclamato "apriamo la cantina e le casette, in ogni casetta ci mettiamo 6 persone con distanze e mascherine, va bene così?". Sono stata sconfitta. Ho chiesto a mia madre perché tutti gli anni vuole infliggersi tutto questo male, questo continuo allargare la sua ferita. Mi ha risposto "sono loro che mi aiutano ad andare avanti. Ognuno di loro ha condiviso qualcosa con tuo fratello e vederli qua tutti insieme mi da pace, è come averlo ancora qua". Mi sono alzata e sono andata a pulire le casette. Abbiamo una serie di "casette" (stazzi galluresi ristrutturati): la casetta della frutta e verdura, la casetta dei libri e quaderni, la casetta delle campanelle di pecore e mucche e varie ed eventuali. Sono quasi morta quando ho finito di pulire la casetta del vino: c'erano ancora i vapori del mosto e della vinaccia, io sono astemia e sono uscita barcollando. Sono arrivata alla messa sfinita: non sono venuti tutti ma uno per famiglia, tutti distanziati e con la mascherina, poi si sono sparpagliati in gruppi da 6 nelle "casette". Abbiamo parlato molto di Jons, abbiamo ricordato le sue risate, mangiando un amaretto da sotto la mascherina e quando lentamente sono andati via, ci siamo ritrovati noi. Siamo saliti in cimitero da soli, abbiamo messo i fiori nuovi, c'erano ancora quelli che mamma aveva messo una settimana fa, ma fa niente: abitualmente lei toglie quelli vecchi e li distribuisce nelle tombe senza fiori, quelle che nessuno cura più, poi mette quelli nuovi sulla tomba del figlio. Jons è stato seppellito nel ripiano alto, in fondo ad una fila di loculi, mia madre è alta come me, un metro e un Crodino, ed è straziante vederla arrampicarsi su quella foto, sussurrare "scusami, non arrivo neanche a toccarti, non ce la faccio". E rimane lì, appesa a quel marmo, con le unghie che graffiano la lapide, come se volesse strapparlo da quel mondo sconosciuto e riportarlo a casa. Poi si arrende, asciuga le lacrime, guarda la foto, sussurra qualcosa che nessuno di noi riesce a sentire e, sconfitta, esce dal cimitero. E quel dolore oggi è rimasto nostro, qualcosa di intimo che ci siamo spartiti, ciascuno con la sua parte e ognuno con un pezzo di cuore in meno, rimasto incastrato fra un pezzo di marmo e un fiore reciso. E abbiamo cercato di scaldarci a vicenda, ricordando qualche aneddoto divertente di quel fratello immenso e sfortunato, abbiamo riso con gli occhi lucidi e ora mia madre è lì, con il suo uncinetto a intrecciare altre tessere del suo mosaico che rimarrà sempre incompleto. E forse questa tradizione, così dolorosa e a volte crudele, non è poi così sbagliata: in fondo oggi Jons era ancora qua e mia madre ha pianto le lacrime necessarie per lavare via un po' di dolore. 

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