C’era una volta un
bambino bellissimo che per comodità chiamerò Jons. Nacque in Sardegna, in un piccolo
paese di collina, e tutti gli abitanti capirono da subito che era speciale:
rendeva bello tutto ciò che gli stava intorno. I genitori di Jons erano felici
di quel primo figlio morbido e sorridente ma quando aveva quasi un anno si
resero conto che quel bambino speciale non stava poi tanto bene. La madre lo
prese con se e cominciò a vagare per gli ospedali, vegliandolo notte e giorno, dormendo
su una sedia e aspettando risposte da qualche camice bianco. Infine la risposta
arrivò. La madre tornò a casa con quel fagotto e spiegò brevemente al marito
parole che non capiva: Talassemia, o Morbo di Cooley, o Anemia Mediterranea. Lo
guardarono e notarono che forse era solo un pochino più pallido di quando
sembrava stesse bene, perciò pensarono che quella strana malattia non poteva
intaccare la sua bellezza e tornarono a pensare che era semplicemente un
bambino speciale. Jons si rimise in fretta, anche se risultava sempre più difficile
spiegare agli altri che quel bambino così speciale si portava dentro una
condanna: i suoi occhi vispi ogni settimana pendevano per ore
infinite da una sacca di sangue, appesi al filo rosso di un palloncino sgonfio.
Forse dei genitori normali si sarebbero fermati a quel primo figlio, invece i
genitori di Jons ne sfornarono altri 3, convinti che una malattia non
potesse intaccare il desiderio e la fame di vita che alloggia in ogni
essere umano. Probabilmente avevano ragione, perché quei bambini crescevano
senza mai sfiorare la tristezza: la malattia di Jons prese da subito le
sembianze di una routine alla quale tutta la famiglia si adeguò senza traumi.
Peraltro Jons era bravissimo a far sembrare tutto straordinariamente normale e
semplice: era un mago che sapeva legare le lacrime di tutti con un filo spesso
di spensieratezza, per poi gettarle in aria come fossero chicchi di grano capaci
di partorire rigogliose risate. Nonostante le attenzioni protettive della madre
niente poté impedire al bambino di avere una vita normale: Jons correva,
saltava, sperimentava nuovi giochi ed era amato da tutti, questo nonostante le
lunghe permanenze in ospedale. Già, perché via via che cresceva i problemi aumentavano,
non solo per la necessità sempre maggiore di trasfusioni di sangue ma per un
sistema immunitario quasi inesistente, per cui anche una banale influenza diventava
una probabile causa di morte. Durante uno di questi sgraditi soggiorni, forse
per l’asportazione della milza o forse per un’appendicite in peritonite, la
madre cominciò a pensare che il buon Dio fosse andato in vacanza, scordandosi
di spedir loro una botta di culo. In quell’occasione insieme a Jons fu
ricoverata anche la sorella Pinchitta per una bronco polmonite virale: quando
si dice che la fortuna è cieca, eh! Pinchitta alloggiava comodamente al 2°
piano e Jons al 4°, e la madre, non avendo il dono dell’ubiquità faceva la
spola passando gran parte del tempo a correre nelle scale più che al capezzale
dei figli. Poi i medici le consigliarono di rimanere con Jons perché Pinchitta
era abbastanza contagiosa e questo poteva aggravare le condizioni del fratello
maggiore. Poco male, perché Pinchitta era una bambina rotonda con la parlantina
di un mangianastri, e quando rideva anche il primario balzava sulla sedia
convinto che 583 pattuglie di pompieri avessero fatto irruzione nel reparto a
sirene spiegate. Le infermiere se la contendevano come fosse un peluche della
Trudi e le coccole arrivavano a vagonate. Passò tanto tempo, forse un mese,
finché un giorno l’infermiera grassa coi capelli di fieno arrotolato la prese
in braccio, la mise in ascensore, le coprì la faccia con una mascherina e
quando le porte si aprirono Pinchitta sentì una voce che le riempì le orecchie
fino a toccarle le viscere. Dalla porta Pinchitta vide la madre con un piatto
di cibo dall’aspetto nauseante, che cercava di convincere Jons che quel polpettone
era il più buono del mondo, ma lui la sapeva lunga e implorava le salsicce
arrosto che abitualmente mangiava a casa. Jons era pieno di fili rossi, bianchi
e gialli, sembrava un burattino legato alle corde maldestre del destino. Mentre
la mamma correva ad abbracciarla, Pinchitta non riusciva a distogliere lo
sguardo dalla sacca di sangue, dal tubicino che scivolava ai piedi del letto,
dalla bottiglia che gocciolava nel braccio di Jons. “Sta meglio, gli
antibiotici l’hanno devastata ma si sta riprendendo, torneranno a casa insieme”
disse l’infermiera mentre stringeva Pinchitta col suo braccio morbido e caldo,
come se volesse proteggerla da tutto il male del mondo. Jons era inchiodato al
letto, la guardava come se volesse dirle tantissime cose, Pinchitta lo salutò
agitando la mano, lui le strizzò l’occhio e le sorrise con quella sua maniera
indelebile, e fu come se i fili che lo avvolgevano avessero imprigionato anche
la sorella, in una sorta di abbraccio dal quale nessuno dei due si sarebbe più
liberato. E tornarono a casa insieme, un giorno di quasi primavera, trovarono
il camino acceso, affinché nessuno potesse sentire freddo aprendo la porta di
casa. Era stato solo un beffardo urto del destino che non fermò la voglia di
vivere di quei due. Sarebbe bello avere per sempre l’inconsapevolezza dei
bambini che cadendo dal precipizio sorridono pensando che è bello volare e non
si curano dello schianto o delle ferite che avranno addosso. Jons e Pinchitta
divennero compagni di giochi e complici, dormivano in camera insieme, e per la
madre non fu un compito facile tenerli a bada, visto che l’uragano Katrina era
una brezza leggera in confronto a quei due tsunami. Andavano nella piazza del
paese a giocare con le biglie, e Jons era bravissimo: vinceva e le biglie
di troppo le regalava a Pinchitta. La casa venne invasa da biglie colorate e
ogni membro della famiglia era solito scivolarci sopra prendendo la sua
quotidiana culata sul pavimento. La mamma pensò bene di cucire le tasche dei
pantaloni dei due affinché non avessero modo di portare a casa le biglie vinte.
Peccato che un giorno Pinchitta trovando le sue tasche chiuse a 4 mandate di
punto croce, pensò di metterle in bocca usando le sue guance come tasche.
Orrore! Quando i due tornarono a casa sembravano due scoiattoli con un melone
Cantalupo in bocca. La madre scucì tutte le tasche per evitare un altro
soggiorno in ospedale dovuto all’ingestione di una quintalata di palline. Finite
le biglie i due si diedero all’allevamento delle più disparate specie di fauna
locale. Cominciarono ad allevare formiche sottraendo graminacee dal deposito
del padre. I formicai ebbero presto le dimensioni del Krakatoa. La zia vi sprofondò
dentro e ne uscì una quantità di formiche impazzite che coprirono metà del
giardino. Il giardino venne zappato e i formicai distrutti. Allevarono passeri, tordi, quaglie e qualsiasi volatile si aggirasse spensierato sotto
le tegole della casa della nonna. Ma gli uccellini non erano animali di compagnia:
tornavano solo se i due unni in miniatura avevano fra le mani quantità
inestimabili di cibo, poi volavano via. Poco male, ripiegarono sui piccioni. Ne catturarono
uno, lo nutrirono fino a fargli assumere le proporzioni di un fagiano obeso.
Probabilmente quel volatile aveva una mailing list più lunga del WWF e nel giro
di poco tempo il cortile venne invaso da piccioni che sostavano ovunque in
attesa di cibo. Un giorno la madre lasciò le finestre aperte per il caldo e l’indomani
trovò in cucina volatili, piume e una coltre di guano che trasformò le
maioliche di casa di un colore MarroNero. Bastarono due spari in aria di un
cacciatore e dei piccioni non se ne ebbe più notizia. Stessa sorte toccò ai
pulcini: quando i due tornavano da scuola trovavano qualche piuma sparsa nel
patio, un coccodè in meno nel cortile e una coscia di pollo in più sul piatto. Quando
sul piatto trovarono il coniglio alla cacciatora, i due bambini capirono che
anche Bachisio e Lola, i due conigli che avevano sfornato una cinquantina di
figli, erano passati nel purgatorio della cucina materna. L’infanzia finì con l’ultimo
tentativo di allevamento: i topi. Dopo che i due ebbero sottratto ingenti
quantità di formaggio dalla cantina familiare per nutrirli, il capostipite
riuscì a scappare dal recinto, che ingrato! Qualche settimana dopo la nonna
tirò fuori dalla credenza un enorme vassoio di dolci avvolto nella carta
velina. Quando lo aprì svenne, visto che al posto di tiricche e amaretti vi era
un gigantesco topo obeso coi baffi ancora sporchi di pasta di mandorle che a
stenti riuscì a scappare fra le gambe delle signore riunite per il caffè. Finì
la loro infanzia e iniziò l’adolescenza con tutti i suoi problemi e le sue
bruciature ancora tutte da scoprire. Jons crescendo aveva sempre più bisogno
del sangue degli altri. Per le sorelle di Jons era diventato normale chiedere
agli amici se conoscevano qualcuno che potesse donare il sangue al fratello. Forse
a quell’età sarebbe stato più normale per loro chiedere un passaggio in
motorino piuttosto che una sacca di sangue. Ma la madre era stata bravissima
nel rendere quella malattia una cosa normalissima, perciò ciascuno faceva il
suo pezzo con la stessa naturalezza con la quale si beve un sorso d’acqua
fresca dopo una corsa. Pinchitta un giorno cercò sull’enciclopedia “Anemia
mediterranea”, “Beta Talassemia Major” e “Morbo di Cooley” e l’unica cosa che
capì fu che erano 3 sinonimi. Chiese alla madre perché Jons andava sempre più
spesso in ospedale e perché il suo colorito era sempre più scuro. La madre
spiegò le cose così come si devono spiegare ai bambini: “L’emoglobina di Jons è
capricciosa e rende i suoi globuli rossi deboli, o addirittura li fa
scomparire, pufff! come un mago maligno! Perciò i medici prendono altri globuli
rossi, li mettono nelle sacche e li regalano a Jons. Solo che tutto questo via
vai di globuli produce un sacco di ferro nel fegato, ma noi non ci facciamo mica
fregare dal ferro eh! Perciò Jons ogni giorno mette 3 fiale di Desferal nel suo
sangue per sconfiggere il ferro. Eh si, diventa un po’ più scuro e giallognolo
degli altri perché a volte vince il ferro…ma non per sempre eh!”. È un vero
peccato che non si possa restare sempre bambini e vedere le cose come in un
cartone animato, colorato, pieno di suoni e allegria, e con un lieto epilogo
prima che compaia la scritta “The End”. Jons crescendo conobbe tutti i reparti
degli ospedali del circondario, Pinchitta scoprì che bastava una banale
bronchite per ridurlo quasi cadavere fra le lenzuola madide di una brandina.
Col tempo la madre di Jons poteva fare l’infermiera ad honorem, era in grado di
cambiare le flebo, sapeva dove stavano pappagallo e padelle di ogni reparto, era
conoscenza di tutti i turni del personale medico e paramedico di ogni presidio
ospedaliero. Questo ruolo toccò presto alle sorelle. Pinchitta si rendeva conto
che ogni volta che Jons veniva ricoverato in ospedale, erano il ferro e l’emoglobina
stronza a vincere su Jons. Diventava straziante vedere quel ragazzo appeso ai
tubi, voltarsi e chiedere “Sto per morire, vero?”. Queste frasi si dovrebbero
pronunciare a 90 anni, non a vent’anni. Ma Jons era speciale, ve l’ho gia
detto: si riprendeva in fretta e una volta sconfitta la cattiva sorte, giocava
a rimpiattino col destino, a mordere e a nutrirsi della vita come si fa con un
gelato, che lo devi mangiare subito altrimenti fra un minuto si è già sciolto,
e a te rimangono solo le mani sporche di gocce da leccare. Jons lavorava,
allevava cani, gatti, piante e tutto ciò che gli desse l’idea di nuova vita;
non si perdeva un concerto, ogni sera usciva con gli amici fino a notte fonda,
appassionato di cinema, di motori, ma soprattutto innamorato delle persone,
alle quali dava tutto ciò che riusciva a dare, così come di solito fa chi non
ha più niente da perdere o da guadagnare. Circa 15 anni fa il
ferro di Jons si impennò a dismisura. Già i medici consideravano un miracolo
che fosse ancora vivo, perciò pensarono a una delle tante possibili
complicazioni della Talassemia. Invece Jons aveva contratto l’Epatite C da una
trasfusione. Chi è che aveva detto che la sfiga ha la mira di un cecchino?
Quando si cercò di capire di chi fossero le responsabilità fu davvero curioso
notare come lo Stato, l’ospedale militare, i medici e chiunque avesse
manipolato quel sangue infetto che contagiò centinaia di politrasfusi, si
rimbalzavano la palla a vicenda, lavandosi le mani di fronte a un danno
irreparabile perpetrato ai danni di chi ha già un bel paiolo di cazzi suoi da
risolvere. Ma Jons era speciale, lo sapete già, se ne fregò dell’epatite, del
ferro che lo divorava, e andò avanti, lui e la sua tenace voglia di vivere,
tenendosi per mano un po’ di dolore, quel tanto che basta per dare all’esistenza
uno schiaffo di meraviglia. Jons è ancora vivo, nonostante tutto, adesso ha 47
anni: è il più vecchio del Centro Trafusionale dove si reca ogni settimana per
nutrirsi di 2 sacche di sangue. È il più vecchio perché gli altri sono tutti
morti prima di lui. È orribile dire che un uomo di appena 47 anni è vecchio. È ingiusto.
Gli altri lo guardano e pensano si, che Jons è davvero speciale perché ha
saputo guardare oltre il suo metro quadro ed è stato in grado di volare oltre,
senza aver paura di cadere. Jons è arrivato fin qua solo per dire che il
segreto della vita è che devi averne rispetto, e devi amarla, e devi voler
vivere fortemente e lottarci per averne una briciola in più. E devi prenderla
per il culo questa vita: devi sorriderle e darle una carezza mentre le stai
rubando qualche minuto in più di emozioni da portarti dietro nel tuo viaggio. In
fondo solo quando si perde tutto si riesce a gioire anche per il volo sgraziato
di un palloncino sgonfio.
Jons è mio fratello,
Pinchitta sono io. Con questo post volevo ringraziare tutti i donatori di
sangue: sappiate che ogni volta che avete donato il sangue lo avete fatto anche
per me, per la parte più importante e viva di me. Vi chiedo di continuare a
farlo per tutti quelli che come Jons vivono appesi a quel palloncino rosso e sgonfio che
aspetta di volare. Jons la settimana scorsa ha avuto una diagnosi di cirrosi
epatica. Entrambi eravamo divisi da un telefono, io cercavo di dirgli che non è
grave, e mentre glielo dicevo cercavo di convincere me stessa che no, non è
grave, Jons ce la farà anche stavolta. Probabilmente mi sarei dovuta aspettare
una resa da parte sua, una frase del tipo “Beh, ho vissuto 47 anni, i miei
amici sono morti a vent’anni, me la sono goduta, mi sono bevuto di questa vita
tutto quello che potevo bere, e finché ce n’è continuerò a berla”. Invece no,
dall’altra parte del telefono sentivo palpabile la sua disperazione, come un
rasoio che ti strazia ogni lembo di carne, quella frase che non avrei mai voluto
sentire: “Non voglio morire sorella”. Ed io che non ho saputo far altro che
mentirgli “Non morirai neanche stavolta, vedrai”. E ho sentito quei fili che mi
hanno legato a lui quel giorno in ospedale, farsi improvvisamente fragili. E ho
avuto paura. Ho solo la paura egoista di perdere la parte migliore di me, di
smarrire quelle orme che ho seguito da quando ho visto quel palloncino rosso appeso
alle sue vene. Perché lui è il mio maestro di vita: è solo grazie a lui che ho
imparato a sorridere anche quando il mondo si sbriciola fra le tue mani e ti
rimane solo l’odore acre del misero sterco umano. Ho paura della sua morte, di
questo vecchio di 47 anni che ha ancora i poster di Mark Knopfler appesi in
camera, che colleziona film in bianco e nero, che gioca coi suoi cani come un
bambino, che vive del sangue altrui e che elemosina scampoli di vita ad un
destino ingrato. Non farmi questo Jons, non devi andartene. In fondo voglio
solo che in questo mondo di palloni gonfiati ci sia ancora posto per le
traiettorie magiche e sgraziate di un palloncino sgonfio.
In bocca al lupo x tuo fratello.
RispondiEliminaUn abbraccio virtuale da una sconosciuta.
Un fortissimo abbraccio a te, a lui e a colei che, in questa storia, è la parte più straziata ed eroica: tua madre. Coraggio!
RispondiEliminaNon e' facile, ma e' bello per questo ... grazie!
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