venerdì 10 aprile 2015

La danza di un palloncino sgonfio.



C’era una volta un bambino bellissimo che per comodità chiamerò Jons. Nacque in Sardegna, in un piccolo paese di collina, e tutti gli abitanti capirono da subito che era speciale: rendeva bello tutto ciò che gli stava intorno. I genitori di Jons erano felici di quel primo figlio morbido e sorridente ma quando aveva quasi un anno si resero conto che quel bambino speciale non stava poi tanto bene. La madre lo prese con se e cominciò a vagare per gli ospedali, vegliandolo notte e giorno, dormendo su una sedia e aspettando risposte da qualche camice bianco. Infine la risposta arrivò. La madre tornò a casa con quel fagotto e spiegò brevemente al marito parole che non capiva: Talassemia, o Morbo di Cooley, o Anemia Mediterranea. Lo guardarono e notarono che forse era solo un pochino più pallido di quando sembrava stesse bene, perciò pensarono che quella strana malattia non poteva intaccare la sua bellezza e tornarono a pensare che era semplicemente un bambino speciale. Jons si rimise in fretta, anche se risultava sempre più difficile spiegare agli altri che quel bambino così speciale si portava dentro una condanna: i suoi occhi vispi ogni settimana pendevano per ore infinite da una sacca di sangue, appesi al filo rosso di un palloncino sgonfio. Forse dei genitori normali si sarebbero fermati a quel primo figlio, invece i genitori di Jons ne sfornarono altri 3, convinti che una malattia non potesse intaccare il desiderio e la fame di vita che alloggia in ogni essere umano. Probabilmente avevano ragione, perché quei bambini crescevano senza mai sfiorare la tristezza: la malattia di Jons prese da subito le sembianze di una routine alla quale tutta la famiglia si adeguò senza traumi. Peraltro Jons era bravissimo a far sembrare tutto straordinariamente normale e semplice: era un mago che sapeva legare le lacrime di tutti con un filo spesso di spensieratezza, per poi gettarle in aria come fossero chicchi di grano capaci di partorire rigogliose risate. Nonostante le attenzioni protettive della madre niente poté impedire al bambino di avere una vita normale: Jons correva, saltava, sperimentava nuovi giochi ed era amato da tutti, questo nonostante le lunghe permanenze in ospedale. Già, perché via via che cresceva i problemi aumentavano, non solo per la necessità sempre maggiore di trasfusioni di sangue ma per un sistema immunitario quasi inesistente, per cui anche una banale influenza diventava una probabile causa di morte. Durante uno di questi sgraditi soggiorni, forse per l’asportazione della milza o forse per un’appendicite in peritonite, la madre cominciò a pensare che il buon Dio fosse andato in vacanza, scordandosi di spedir loro una botta di culo. In quell’occasione insieme a Jons fu ricoverata anche la sorella Pinchitta per una bronco polmonite virale: quando si dice che la fortuna è cieca, eh! Pinchitta alloggiava comodamente al 2° piano e Jons al 4°, e la madre, non avendo il dono dell’ubiquità faceva la spola passando gran parte del tempo a correre nelle scale più che al capezzale dei figli. Poi i medici le consigliarono di rimanere con Jons perché Pinchitta era abbastanza contagiosa e questo poteva aggravare le condizioni del fratello maggiore. Poco male, perché Pinchitta era una bambina rotonda con la parlantina di un mangianastri, e quando rideva anche il primario balzava sulla sedia convinto che 583 pattuglie di pompieri avessero fatto irruzione nel reparto a sirene spiegate. Le infermiere se la contendevano come fosse un peluche della Trudi e le coccole arrivavano a vagonate. Passò tanto tempo, forse un mese, finché un giorno l’infermiera grassa coi capelli di fieno arrotolato la prese in braccio, la mise in ascensore, le coprì la faccia con una mascherina e quando le porte si aprirono Pinchitta sentì una voce che le riempì le orecchie fino a toccarle le viscere. Dalla porta Pinchitta vide la madre con un piatto di cibo dall’aspetto nauseante, che cercava di convincere Jons che quel polpettone era il più buono del mondo, ma lui la sapeva lunga e implorava le salsicce arrosto che abitualmente mangiava a casa. Jons era pieno di fili rossi, bianchi e gialli, sembrava un burattino legato alle corde maldestre del destino. Mentre la mamma correva ad abbracciarla, Pinchitta non riusciva a distogliere lo sguardo dalla sacca di sangue, dal tubicino che scivolava ai piedi del letto, dalla bottiglia che gocciolava nel braccio di Jons. “Sta meglio, gli antibiotici l’hanno devastata ma si sta riprendendo, torneranno a casa insieme” disse l’infermiera mentre stringeva Pinchitta col suo braccio morbido e caldo, come se volesse proteggerla da tutto il male del mondo. Jons era inchiodato al letto, la guardava come se volesse dirle tantissime cose, Pinchitta lo salutò agitando la mano, lui le strizzò l’occhio e le sorrise con quella sua maniera indelebile, e fu come se i fili che lo avvolgevano avessero imprigionato anche la sorella, in una sorta di abbraccio dal quale nessuno dei due si sarebbe più liberato. E tornarono a casa insieme, un giorno di quasi primavera, trovarono il camino acceso, affinché nessuno potesse sentire freddo aprendo la porta di casa. Era stato solo un beffardo urto del destino che non fermò la voglia di vivere di quei due. Sarebbe bello avere per sempre l’inconsapevolezza dei bambini che cadendo dal precipizio sorridono pensando che è bello volare e non si curano dello schianto o delle ferite che avranno addosso. Jons e Pinchitta divennero compagni di giochi e complici, dormivano in camera insieme, e per la madre non fu un compito facile tenerli a bada, visto che l’uragano Katrina era una brezza leggera in confronto a quei due tsunami. Andavano nella piazza del paese a giocare con le biglie, e Jons era bravissimo: vinceva e le biglie di troppo le regalava a Pinchitta. La casa venne invasa da biglie colorate e ogni membro della famiglia era solito scivolarci sopra prendendo la sua quotidiana culata sul pavimento. La mamma pensò bene di cucire le tasche dei pantaloni dei due affinché non avessero modo di portare a casa le biglie vinte. Peccato che un giorno Pinchitta trovando le sue tasche chiuse a 4 mandate di punto croce, pensò di metterle in bocca usando le sue guance come tasche. Orrore! Quando i due tornarono a casa sembravano due scoiattoli con un melone Cantalupo in bocca. La madre scucì tutte le tasche per evitare un altro soggiorno in ospedale dovuto all’ingestione di una quintalata di palline. Finite le biglie i due si diedero all’allevamento delle più disparate specie di fauna locale. Cominciarono ad allevare formiche sottraendo graminacee dal deposito del padre. I formicai ebbero presto le dimensioni del Krakatoa. La zia vi sprofondò dentro e ne uscì una quantità di formiche impazzite che coprirono metà del giardino. Il giardino venne zappato e i formicai distrutti. Allevarono passeri, tordi, quaglie e qualsiasi volatile si aggirasse spensierato sotto le tegole della casa della nonna. Ma gli uccellini non erano animali di compagnia: tornavano solo se i due unni in miniatura avevano fra le mani quantità inestimabili di cibo, poi volavano via. Poco male, ripiegarono sui piccioni. Ne catturarono uno, lo nutrirono fino a fargli assumere le proporzioni di un fagiano obeso. Probabilmente quel volatile aveva una mailing list più lunga del WWF e nel giro di poco tempo il cortile venne invaso da piccioni che sostavano ovunque in attesa di cibo. Un giorno la madre lasciò le finestre aperte per il caldo e l’indomani trovò in cucina volatili, piume e una coltre di guano che trasformò le maioliche di casa di un colore MarroNero. Bastarono due spari in aria di un cacciatore e dei piccioni non se ne ebbe più notizia. Stessa sorte toccò ai pulcini: quando i due tornavano da scuola trovavano qualche piuma sparsa nel patio, un coccodè in meno nel cortile e una coscia di pollo in più sul piatto. Quando sul piatto trovarono il coniglio alla cacciatora, i due bambini capirono che anche Bachisio e Lola, i due conigli che avevano sfornato una cinquantina di figli, erano passati nel purgatorio della cucina materna. L’infanzia finì con l’ultimo tentativo di allevamento: i topi. Dopo che i due ebbero sottratto ingenti quantità di formaggio dalla cantina familiare per nutrirli, il capostipite riuscì a scappare dal recinto, che ingrato! Qualche settimana dopo la nonna tirò fuori dalla credenza un enorme vassoio di dolci avvolto nella carta velina. Quando lo aprì svenne, visto che al posto di tiricche e amaretti vi era un gigantesco topo obeso coi baffi ancora sporchi di pasta di mandorle che a stenti riuscì a scappare fra le gambe delle signore riunite per il caffè. Finì la loro infanzia e iniziò l’adolescenza con tutti i suoi problemi e le sue bruciature ancora tutte da scoprire. Jons crescendo aveva sempre più bisogno del sangue degli altri. Per le sorelle di Jons era diventato normale chiedere agli amici se conoscevano qualcuno che potesse donare il sangue al fratello. Forse a quell’età sarebbe stato più normale per loro chiedere un passaggio in motorino piuttosto che una sacca di sangue. Ma la madre era stata bravissima nel rendere quella malattia una cosa normalissima, perciò ciascuno faceva il suo pezzo con la stessa naturalezza con la quale si beve un sorso d’acqua fresca dopo una corsa. Pinchitta un giorno cercò sull’enciclopedia “Anemia mediterranea”, “Beta Talassemia Major” e “Morbo di Cooley” e l’unica cosa che capì fu che erano 3 sinonimi. Chiese alla madre perché Jons andava sempre più spesso in ospedale e perché il suo colorito era sempre più scuro. La madre spiegò le cose così come si devono spiegare ai bambini: “L’emoglobina di Jons è capricciosa e rende i suoi globuli rossi deboli, o addirittura li fa scomparire, pufff! come un mago maligno! Perciò i medici prendono altri globuli rossi, li mettono nelle sacche e li regalano a Jons. Solo che tutto questo via vai di globuli produce un sacco di ferro nel fegato, ma noi non ci facciamo mica fregare dal ferro eh! Perciò Jons ogni giorno mette 3 fiale di Desferal nel suo sangue per sconfiggere il ferro. Eh si, diventa un po’ più scuro e giallognolo degli altri perché a volte vince il ferro…ma non per sempre eh!”. È un vero peccato che non si possa restare sempre bambini e vedere le cose come in un cartone animato, colorato, pieno di suoni e allegria, e con un lieto epilogo prima che compaia la scritta “The End”. Jons crescendo conobbe tutti i reparti degli ospedali del circondario, Pinchitta scoprì che bastava una banale bronchite per ridurlo quasi cadavere fra le lenzuola madide di una brandina. Col tempo la madre di Jons poteva fare l’infermiera ad honorem, era in grado di cambiare le flebo, sapeva dove stavano pappagallo e padelle di ogni reparto, era conoscenza di tutti i turni del personale medico e paramedico di ogni presidio ospedaliero. Questo ruolo toccò presto alle sorelle. Pinchitta si rendeva conto che ogni volta che Jons veniva ricoverato in ospedale, erano il ferro e l’emoglobina stronza a vincere su Jons. Diventava straziante vedere quel ragazzo appeso ai tubi, voltarsi e chiedere “Sto per morire, vero?”. Queste frasi si dovrebbero pronunciare a 90 anni, non a vent’anni. Ma Jons era speciale, ve l’ho gia detto: si riprendeva in fretta e una volta sconfitta la cattiva sorte, giocava a rimpiattino col destino, a mordere e a nutrirsi della vita come si fa con un gelato, che lo devi mangiare subito altrimenti fra un minuto si è già sciolto, e a te rimangono solo le mani sporche di gocce da leccare. Jons lavorava, allevava cani, gatti, piante e tutto ciò che gli desse l’idea di nuova vita; non si perdeva un concerto, ogni sera usciva con gli amici fino a notte fonda, appassionato di cinema, di motori, ma soprattutto innamorato delle persone, alle quali dava tutto ciò che riusciva a dare, così come di solito fa chi non ha più niente da perdere o da guadagnare. Circa 15 anni fa il ferro di Jons si impennò a dismisura. Già i medici consideravano un miracolo che fosse ancora vivo, perciò pensarono a una delle tante possibili complicazioni della Talassemia. Invece Jons aveva contratto l’Epatite C da una trasfusione. Chi è che aveva detto che la sfiga ha la mira di un cecchino? Quando si cercò di capire di chi fossero le responsabilità fu davvero curioso notare come lo Stato, l’ospedale militare, i medici e chiunque avesse manipolato quel sangue infetto che contagiò centinaia di politrasfusi, si rimbalzavano la palla a vicenda, lavandosi le mani di fronte a un danno irreparabile perpetrato ai danni di chi ha già un bel paiolo di cazzi suoi da risolvere. Ma Jons era speciale, lo sapete già, se ne fregò dell’epatite, del ferro che lo divorava, e andò avanti, lui e la sua tenace voglia di vivere, tenendosi per mano un po’ di dolore, quel tanto che basta per dare all’esistenza uno schiaffo di meraviglia. Jons è ancora vivo, nonostante tutto, adesso ha 47 anni: è il più vecchio del Centro Trafusionale dove si reca ogni settimana per nutrirsi di 2 sacche di sangue. È il più vecchio perché gli altri sono tutti morti prima di lui. È orribile dire che un uomo di appena 47 anni è vecchio. È ingiusto. Gli altri lo guardano e pensano si, che Jons è davvero speciale perché ha saputo guardare oltre il suo metro quadro ed è stato in grado di volare oltre, senza aver paura di cadere. Jons è arrivato fin qua solo per dire che il segreto della vita è che devi averne rispetto, e devi amarla, e devi voler vivere fortemente e lottarci per averne una briciola in più. E devi prenderla per il culo questa vita: devi sorriderle e darle una carezza mentre le stai rubando qualche minuto in più di emozioni da portarti dietro nel tuo viaggio. In fondo solo quando si perde tutto si riesce a gioire anche per il volo sgraziato di un palloncino sgonfio.

Jons è mio fratello, Pinchitta sono io. Con questo post volevo ringraziare tutti i donatori di sangue: sappiate che ogni volta che avete donato il sangue lo avete fatto anche per me, per la parte più importante e viva di me. Vi chiedo di continuare a farlo per tutti quelli che come Jons vivono appesi a quel palloncino rosso e sgonfio che aspetta di volare. Jons la settimana scorsa ha avuto una diagnosi di cirrosi epatica. Entrambi eravamo divisi da un telefono, io cercavo di dirgli che non è grave, e mentre glielo dicevo cercavo di convincere me stessa che no, non è grave, Jons ce la farà anche stavolta. Probabilmente mi sarei dovuta aspettare una resa da parte sua, una frase del tipo “Beh, ho vissuto 47 anni, i miei amici sono morti a vent’anni, me la sono goduta, mi sono bevuto di questa vita tutto quello che potevo bere, e finché ce n’è continuerò a berla”. Invece no, dall’altra parte del telefono sentivo palpabile la sua disperazione, come un rasoio che ti strazia ogni lembo di carne, quella frase che non avrei mai voluto sentire: “Non voglio morire sorella”. Ed io che non ho saputo far altro che mentirgli “Non morirai neanche stavolta, vedrai”. E ho sentito quei fili che mi hanno legato a lui quel giorno in ospedale, farsi improvvisamente fragili. E ho avuto paura. Ho solo la paura egoista di perdere la parte migliore di me, di smarrire quelle orme che ho seguito da quando ho visto quel palloncino rosso appeso alle sue vene. Perché lui è il mio maestro di vita: è solo grazie a lui che ho imparato a sorridere anche quando il mondo si sbriciola fra le tue mani e ti rimane solo l’odore acre del misero sterco umano. Ho paura della sua morte, di questo vecchio di 47 anni che ha ancora i poster di Mark Knopfler appesi in camera, che colleziona film in bianco e nero, che gioca coi suoi cani come un bambino, che vive del sangue altrui e che elemosina scampoli di vita ad un destino ingrato. Non farmi questo Jons, non devi andartene. In fondo voglio solo che in questo mondo di palloni gonfiati ci sia ancora posto per le traiettorie magiche e sgraziate di un palloncino sgonfio.

4 commenti:

  1. In bocca al lupo x tuo fratello.
    Un abbraccio virtuale da una sconosciuta.

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  2. Un fortissimo abbraccio a te, a lui e a colei che, in questa storia, è la parte più straziata ed eroica: tua madre. Coraggio!

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  3. Non e' facile, ma e' bello per questo ... grazie!

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