C'era una volta una bambina la cui caratteristica principale era
la risata. Il padre diceva che quando rientrava da lavoro sentiva
dalla strada la sua risata esplosiva, e non si sarebbe sorpreso se
avesse sfondato la porta. La madre testimonia che quella bambina da
piccola non camminava ma trotterellava. Saltava sempre come
dovrebbero fare tutti i bambini: solo a loro spetta l'innocenza e
l'incoscienza della vita, e solo i bambini riescono a fare voli
pindarici seguendo la traiettoria di un calabrone stanco. La madre
era un'insegnate e portava sua figlia con se a scuola: le baby sitter
a quell'epoca erano impegnate a cercare marito e a zappare una terra
avara. Quella bambina veniva riposta in una sedia con un quaderno
davanti e sapeva di dover stare composta altrimenti la mamma si
sarebbe alterata e la sera non avrebbe potuto sfogliare i fumetti. A
3 anni quella bambina era l'amore delle bidelle della scuola, perchè
la madre aveva capito che era una grandissima scassa gonadi: quella
nanetta suggeriva ai bambini di prima elementare le paroline che
iniziavano con la lettera S, P e anche con la D. Quindi spesso le
bidelle la prendevano in affidamento per evitare che la mamma
insegnante avesse un travaso di bile e la schiantasse contro
l'ardesia della lavagna. Il che avrebbe reso la lavagna meno tetra, a
dire il vero. A 4 anni la ridente bambina scartavetrava ancora di più
le tube di Falloppio, e suggeriva ai bambini di terza elementare la
capitale dell'Umbria e il risultato di 57+15. Così la mamma si
rassegnò e l'anno successivo iscrisse questa figlia rompipalle nella
sua scuola, in una pluriclasse dove insegnante e alunna erano
rispettivamente mamma e figlia. La noia attanagliava la bambina che
in anni di presenza a scuola con la madre aveva imparato tutto il
primo ciclo di scuola elementare, perciò finiva la paginetta delle A
o delle F in così poco tempo che la madre le dava i fumetti per
poterli leggere mentre gli altri finivano i compiti. Quando la
mamma-maestra insegnava le addizioni elargendo agli alunni una
quantità inestimabile di ceci, la bambina-figlia mangiava i ceci
crudi e faceva i calcoli a mente. I suoi compagni non la vedevano
come “la figlia della maestra” ma come una piacevole bambina che
all'occorrenza ti suggeriva il terzo passo de La cavalla storna o la
data della circumnavigazione del globo terrestre da parte di
Magellano. Per tutta la durata delle elementari per la bambina fu
noia a secchiate: il suo banco era attaccato al muro, vicino alla
cartina dell'Africa; in quinta elementare, all'atto di dare l'esame
finale, la bambina si rese conto che dalla cartina erano scomparse
Johannesburg, Bloemfontein, i monti Drakensberg e Njesuthi, e anche i
fiumi Molopo e Limpopo: erano stati consumati dalla sua stessa testa
che poggiava, dormiente, contro il muro quando per la duecentesima
volta la mamma-maestra spiegava che un'ara equivale a 100 metri
quadrati e che 100 millilitri corrispondono a un decilitro o a 10
centilitri. La noia imperversava nelle molecole di ossigeno di quella
classe, e la bambina cadeva in catalessi sul lago Sudafricano di
Sibhayi. Alle medie fu libertà e scoperta: la mamma non c'era, i
professori ridevano alle battute della ragazzina impertinente e
casinara, spesso neanche si prendeva le giuste punizioni, disarmava
con una battuta al vetriolo seguita da una spruzzata di cipria in un
soffio di cotone idrofilo. I professori dicevano alla madre “è
brava”. La madre della peste rimaneva sbigottita e rispondeva “Non
è possibile, a casa non tocca libro!”. E da lì fu un classico
susseguirsi di “è brava ma se si applicasse di più sarebbe
geniale”. Ma alla bambina non gliene fregava nulla di essere genio
e saltare le medie a piè pari. Quella bambina mangiava la vita, la
mordeva voracemente e correva nei fiumi a catturare girini,
raccoglieva more e ne faceva mosto per le formiche, scagliava sassi
contro un muro per vederli frantumarsi nell'orizzonte e immaginava
fossero esplosioni di stelle. Si, non era una bambina normale, era
evidente. Quando arrivò lo scoppio adolescenziale quella ragazzina
ne fu colpita in maniera devastante. La sua parlata si interruppe e
cominciò a balbettare. Balbettava talmente tanto che quando entrava
in un bar e diceva “buongiorno”, prima che concludesse quel
saluto, si era già fatta sera e faceva prima a dire “buonanotte”.
I professori non la capivano e per lei si aprì un inferno. Le
interrogazioni erano torture dove le parole che aveva dentro non
uscivano, si fermavano fra l'esofago e la lingua, l'aria si fermava e
dalla bocca non usciva nessun suono. Il mutismo, logorante e
devastante di un corpo minuscolo che aveva dentro miliardi di parole
inespresse. I pensieri si accavallano, si attorcigliavano su se
stessi senza trovare forma e spazio nell'atmosfera surreale di una
qualsiasi classe di scuola superiore. “Profe-fessore, po-potrebbe
f-f-farmi f-fare un c-c-ompito scritto inv-vece che
in-terr-rogar-rmi?” - “Assolutamente no, se lo faccio con te,
dovrei farlo con tutti, e io non ho tempo di correggere i compiti
scritti” - “G-gr-razie p-prof-fes-ssore”. Non venne bocciata
perchè probabilmente qualche Santo in paradiso si ricordò che anche
lui non andava tanto bene a scuola e quindi si intromise in sede di
scrutinio e diede uno schiaffo a tutti i professori, che la
rimandarono “solo” in 4 materie. La ragazzina vide in quell'esame
il suo fallimento, la sua incapacità di comunicare col mondo, e si
chiuse in un volontario mutismo elettivo di chi non riesce a dare
suono ai pensieri. E cominciò a scrivere. Pagine infinite di diario,
quaderni e pezzi di carta sparsi ovunque, nella sua camera, nei bus e
in ogni luogo dove c'era lei esisteva anche l'appendice di un
brandello di carta sporcato da sterili gocce d'inchiostro. La madre
rimaneva impotente davanti a quella figlia discola e ribelle che
rifiutava ogni aiuto. Spesso la figlia rientrava a casa e vedeva la
madre piangere con la testa appoggiata al camino che bruciava legna e
sogni; e invece di correre ad abbracciare quelle lacrime si chiudeva
in camera e imbrattava di parole fogli infiniti di carta straccia, di
un diario muto che non la giudicava e sul quale le parole erano
rotonde, senza sbavature e uscivano fluide, senza incepparsi sulla
punta della penna. Ma il mondo ha bisogno di suono, della melodia
della voce che intreccia parole come in una sinfonia. Il mondo lascia
le parole scritte a chi possiede ali troppo grandi ed è incapace di
starnazzare ma solo di volare. L'angoscia, il perenne senso di
inadeguatezza, la solitudine fra la folla, i brividi che le
percorrevano l'anima quando doveva usare il suono della voce davanti
agli sconosciuti, spinsero quella ragazza nel punto più profondo del
precipizio. I tanti amici la vedevano scivolare in qualche nuvola di
fumo e in altro di proibito, “genio del cazzo, prima o poi
riuscirai a parlare come si deve, e se non dovesse succedere ti
prendiamo anche così, con questa tua stronzaggine di negarti”. E
cercare la fine dei battiti, sognare il buio, desiderarlo, provarlo
sulla propria pelle, imprimerlo nella sua vita come un marchio che
non sarebbe più andato via...e si ritrovò un giorno nuda, tremante,
in posizione fetale, rannicchiata nell'angolo buio della sua stanza,
circondata da fogli muti...si avvicinò allo specchio, si guardò e
disse “S-s-sono uov-vo e diven-n-nterò up-pu-p-pa”. E ripetè
quella frase guardandosi negli occhi finchè non riuscì a dirla bene
“Sono uovo e diventerò upupa”. E mentre vomitava quella frase
liscia piangeva ed era felice. Ogni giorno prendeva il dizionario, si
metteva davanti allo specchio e pronunciava parole a caso, finchè
non uscivano fluide, lisce “episte-mologia, epistemologia,
esec-rabile, esecrabile, puer-pera, puerpera, alie-nabile,
alienabile, pro-pe-deuti-co, propedeutico”. Cominciò a parlare con
se stessa, più in là avrebbe parlato col mondo. Dopo il diploma
striminzito prese qualche anno di pausa dove sfiorò i bordi della
sua bolla di sapone...e trovò parole per tutti. Più tardi scelse
una facoltà umanistica perchè decise che voleva aiutare gli altri.
Uscì dal mutismo guardandosi negli occhi, polverizzò la balbuzie
scrivendo e leggendo, diventò upupa, si laureò con 110 e lode e
cominciò a lavorare nei servizi sociali negli angoli più bui
dell'Italia. A 16 anni scrisse sulla porta del cesso della scuola
“Ridere è una cura, sorridere è una guarigione”. Ebbe 3 giorni
di sospensione con obbligo di frequenza. A 40 anni quella frase se la
tatuò sul polso. Adesso è una donna di 41 anni con una logorrea
incandescente che non conosce limiti, e nessuno direbbe mai che
quella donna un tempo era muta e avara di parole per il mondo. In
tutto questo non perse mai per un attimo la sua risata. E pian piano
ha cominciato a sorridere, soprattutto di se stessa.
…
Quella bambina ero io, quella ragazzina ero io e quella donna sono
io. Vi racconto questa mia favola affinchè ciascuno trasformi le sue
debolezze in punti di forza, affinché da ogni sconfitta riusciate a
trarne fuori il massimo vantaggio. Oggi parlo spedita come un treno
in corsa, ma ho paura di cadere perché mi rendo conto che non so
camminare bene. Una persona è monade e si basta, due persone sono
coppia e solitudine camuffata, tre persone sono gruppo e dispersione,
quattro o più persone sono folla della quale ancora ho paura. E ogni
tanto quando sono fra la gente la mia lingua non emette suono e si
inceppa, e un brivido mi corre sulla pelle e ho paura di tornare
muta. Vivo di sfide e cerco l'impossibile, il limite di me stessa. In
un albero di mele dolci e succose scelgo sempre quella acerba e secca
che sta in cima, incapace di saziarmi, e mi piace arrampicarmi per
andare a coglierla, incurante di una possibile caduta e della
conseguente morte. Vivo di parole, mi piace cucirle insieme finché
non diventano coriandoli di stoffa e scintille. Queste parole che
sono la mia dannazione e il mio regalo più grande: scelgo sempre
persone che non badano alle parole e si stancano di esse, e
irrimediabilmente perdo chi amo, incapace come sono di stare zitta e
accontentarmi del silenzio. Ma sono io: una minuscola goccia
d'inchiostro su un foglio immenso di silenzio.
Che meraviglia!
RispondiEliminaÈ bello leggere che c'è ancora qualcuno, là fuori, che non ha paura di essere se stesso, che si ama e per proprio amore non si lascia abbattere da un mondo che ci vuole omologati!
Prima o poi amerai qualcuno che non vorrà andare via nemmeno se spinto fuori a calci!
Continua a parlare che le parole sono importanti!
Dafne
Come vedi questo blog lo curo molto poco nelle risposte, ma quando entro, anche qua, mi piace rispondere e abbracciarti <3
EliminaBellissima storia, vedi di proseguirla nel modo giusto, ma credo tu lo stia facendo...
RispondiEliminaPS. Sapendo che sei logorroica quanti spasimanti avrai perso? :-)
Per fortuna ho il buon senso di tenere a bada gli spasimanti ;)
Elimina<3
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaGrazie per averla condivisa..a me leggerla ha dato tanto..perdonami dell'errore.
RispondiEliminaP.S.: Per fortuna che le favole ogni tanto si avverano...
Ogni tanto succede...basta crederci ;)
EliminaBrava, Sfigy! :-* Sei forte e...GRANDE ! ;-)))*
RispondiEliminaPerdonami cara...anche qua rispondo tardissimo...ma spero tu riesca a perdonarmi...ti abbraccio ;)
EliminaSei forte, ragazza!
RispondiEliminaMa sei proprio tu? Eccoti! Non sono puntuale neanche qua nelle risposte :D
Elimina