venerdì 27 dicembre 2013

La mia favola. Di parole e di sorrisi.

C'era una volta una bambina la cui caratteristica principale era la risata. Il padre diceva che quando rientrava da lavoro sentiva dalla strada la sua risata esplosiva, e non si sarebbe sorpreso se avesse sfondato la porta. La madre testimonia che quella bambina da piccola non camminava ma trotterellava. Saltava sempre come dovrebbero fare tutti i bambini: solo a loro spetta l'innocenza e l'incoscienza della vita, e solo i bambini riescono a fare voli pindarici seguendo la traiettoria di un calabrone stanco. La madre era un'insegnate e portava sua figlia con se a scuola: le baby sitter a quell'epoca erano impegnate a cercare marito e a zappare una terra avara. Quella bambina veniva riposta in una sedia con un quaderno davanti e sapeva di dover stare composta altrimenti la mamma si sarebbe alterata e la sera non avrebbe potuto sfogliare i fumetti. A 3 anni quella bambina era l'amore delle bidelle della scuola, perchè la madre aveva capito che era una grandissima scassa gonadi: quella nanetta suggeriva ai bambini di prima elementare le paroline che iniziavano con la lettera S, P e anche con la D. Quindi spesso le bidelle la prendevano in affidamento per evitare che la mamma insegnante avesse un travaso di bile e la schiantasse contro l'ardesia della lavagna. Il che avrebbe reso la lavagna meno tetra, a dire il vero. A 4 anni la ridente bambina scartavetrava ancora di più le tube di Falloppio, e suggeriva ai bambini di terza elementare la capitale dell'Umbria e il risultato di 57+15. Così la mamma si rassegnò e l'anno successivo iscrisse questa figlia rompipalle nella sua scuola, in una pluriclasse dove insegnante e alunna erano rispettivamente mamma e figlia. La noia attanagliava la bambina che in anni di presenza a scuola con la madre aveva imparato tutto il primo ciclo di scuola elementare, perciò finiva la paginetta delle A o delle F in così poco tempo che la madre le dava i fumetti per poterli leggere mentre gli altri finivano i compiti. Quando la mamma-maestra insegnava le addizioni elargendo agli alunni una quantità inestimabile di ceci, la bambina-figlia mangiava i ceci crudi e faceva i calcoli a mente. I suoi compagni non la vedevano come “la figlia della maestra” ma come una piacevole bambina che all'occorrenza ti suggeriva il terzo passo de La cavalla storna o la data della circumnavigazione del globo terrestre da parte di Magellano. Per tutta la durata delle elementari per la bambina fu noia a secchiate: il suo banco era attaccato al muro, vicino alla cartina dell'Africa; in quinta elementare, all'atto di dare l'esame finale, la bambina si rese conto che dalla cartina erano scomparse Johannesburg, Bloemfontein, i monti Drakensberg e Njesuthi, e anche i fiumi Molopo e Limpopo: erano stati consumati dalla sua stessa testa che poggiava, dormiente, contro il muro quando per la duecentesima volta la mamma-maestra spiegava che un'ara equivale a 100 metri quadrati e che 100 millilitri corrispondono a un decilitro o a 10 centilitri. La noia imperversava nelle molecole di ossigeno di quella classe, e la bambina cadeva in catalessi sul lago Sudafricano di Sibhayi. Alle medie fu libertà e scoperta: la mamma non c'era, i professori ridevano alle battute della ragazzina impertinente e casinara, spesso neanche si prendeva le giuste punizioni, disarmava con una battuta al vetriolo seguita da una spruzzata di cipria in un soffio di cotone idrofilo. I professori dicevano alla madre “è brava”. La madre della peste rimaneva sbigottita e rispondeva “Non è possibile, a casa non tocca libro!”. E da lì fu un classico susseguirsi di “è brava ma se si applicasse di più sarebbe geniale”. Ma alla bambina non gliene fregava nulla di essere genio e saltare le medie a piè pari. Quella bambina mangiava la vita, la mordeva voracemente e correva nei fiumi a catturare girini, raccoglieva more e ne faceva mosto per le formiche, scagliava sassi contro un muro per vederli frantumarsi nell'orizzonte e immaginava fossero esplosioni di stelle. Si, non era una bambina normale, era evidente. Quando arrivò lo scoppio adolescenziale quella ragazzina ne fu colpita in maniera devastante. La sua parlata si interruppe e cominciò a balbettare. Balbettava talmente tanto che quando entrava in un bar e diceva “buongiorno”, prima che concludesse quel saluto, si era già fatta sera e faceva prima a dire “buonanotte”. I professori non la capivano e per lei si aprì un inferno. Le interrogazioni erano torture dove le parole che aveva dentro non uscivano, si fermavano fra l'esofago e la lingua, l'aria si fermava e dalla bocca non usciva nessun suono. Il mutismo, logorante e devastante di un corpo minuscolo che aveva dentro miliardi di parole inespresse. I pensieri si accavallano, si attorcigliavano su se stessi senza trovare forma e spazio nell'atmosfera surreale di una qualsiasi classe di scuola superiore. “Profe-fessore, po-potrebbe f-f-farmi f-fare un c-c-ompito scritto inv-vece che in-terr-rogar-rmi?” - “Assolutamente no, se lo faccio con te, dovrei farlo con tutti, e io non ho tempo di correggere i compiti scritti” - “G-gr-razie p-prof-fes-ssore”. Non venne bocciata perchè probabilmente qualche Santo in paradiso si ricordò che anche lui non andava tanto bene a scuola e quindi si intromise in sede di scrutinio e diede uno schiaffo a tutti i professori, che la rimandarono “solo” in 4 materie. La ragazzina vide in quell'esame il suo fallimento, la sua incapacità di comunicare col mondo, e si chiuse in un volontario mutismo elettivo di chi non riesce a dare suono ai pensieri. E cominciò a scrivere. Pagine infinite di diario, quaderni e pezzi di carta sparsi ovunque, nella sua camera, nei bus e in ogni luogo dove c'era lei esisteva anche l'appendice di un brandello di carta sporcato da sterili gocce d'inchiostro. La madre rimaneva impotente davanti a quella figlia discola e ribelle che rifiutava ogni aiuto. Spesso la figlia rientrava a casa e vedeva la madre piangere con la testa appoggiata al camino che bruciava legna e sogni; e invece di correre ad abbracciare quelle lacrime si chiudeva in camera e imbrattava di parole fogli infiniti di carta straccia, di un diario muto che non la giudicava e sul quale le parole erano rotonde, senza sbavature e uscivano fluide, senza incepparsi sulla punta della penna. Ma il mondo ha bisogno di suono, della melodia della voce che intreccia parole come in una sinfonia. Il mondo lascia le parole scritte a chi possiede ali troppo grandi ed è incapace di starnazzare ma solo di volare. L'angoscia, il perenne senso di inadeguatezza, la solitudine fra la folla, i brividi che le percorrevano l'anima quando doveva usare il suono della voce davanti agli sconosciuti, spinsero quella ragazza nel punto più profondo del precipizio. I tanti amici la vedevano scivolare in qualche nuvola di fumo e in altro di proibito, “genio del cazzo, prima o poi riuscirai a parlare come si deve, e se non dovesse succedere ti prendiamo anche così, con questa tua stronzaggine di negarti”. E cercare la fine dei battiti, sognare il buio, desiderarlo, provarlo sulla propria pelle, imprimerlo nella sua vita come un marchio che non sarebbe più andato via...e si ritrovò un giorno nuda, tremante, in posizione fetale, rannicchiata nell'angolo buio della sua stanza, circondata da fogli muti...si avvicinò allo specchio, si guardò e disse “S-s-sono uov-vo e diven-n-nterò up-pu-p-pa”. E ripetè quella frase guardandosi negli occhi finchè non riuscì a dirla bene “Sono uovo e diventerò upupa”. E mentre vomitava quella frase liscia piangeva ed era felice. Ogni giorno prendeva il dizionario, si metteva davanti allo specchio e pronunciava parole a caso, finchè non uscivano fluide, lisce “episte-mologia, epistemologia, esec-rabile, esecrabile, puer-pera, puerpera, alie-nabile, alienabile, pro-pe-deuti-co, propedeutico”. Cominciò a parlare con se stessa, più in là avrebbe parlato col mondo. Dopo il diploma striminzito prese qualche anno di pausa dove sfiorò i bordi della sua bolla di sapone...e trovò parole per tutti. Più tardi scelse una facoltà umanistica perchè decise che voleva aiutare gli altri. Uscì dal mutismo guardandosi negli occhi, polverizzò la balbuzie scrivendo e leggendo, diventò upupa, si laureò con 110 e lode e cominciò a lavorare nei servizi sociali negli angoli più bui dell'Italia. A 16 anni scrisse sulla porta del cesso della scuola “Ridere è una cura, sorridere è una guarigione”. Ebbe 3 giorni di sospensione con obbligo di frequenza. A 40 anni quella frase se la tatuò sul polso. Adesso è una donna di 41 anni con una logorrea incandescente che non conosce limiti, e nessuno direbbe mai che quella donna un tempo era muta e avara di parole per il mondo. In tutto questo non perse mai per un attimo la sua risata. E pian piano ha cominciato a sorridere, soprattutto di se stessa.

Quella bambina ero io, quella ragazzina ero io e quella donna sono io. Vi racconto questa mia favola affinchè ciascuno trasformi le sue debolezze in punti di forza, affinché da ogni sconfitta riusciate a trarne fuori il massimo vantaggio. Oggi parlo spedita come un treno in corsa, ma ho paura di cadere perché mi rendo conto che non so camminare bene. Una persona è monade e si basta, due persone sono coppia e solitudine camuffata, tre persone sono gruppo e dispersione, quattro o più persone sono folla della quale ancora ho paura. E ogni tanto quando sono fra la gente la mia lingua non emette suono e si inceppa, e un brivido mi corre sulla pelle e ho paura di tornare muta. Vivo di sfide e cerco l'impossibile, il limite di me stessa. In un albero di mele dolci e succose scelgo sempre quella acerba e secca che sta in cima, incapace di saziarmi, e mi piace arrampicarmi per andare a coglierla, incurante di una possibile caduta e della conseguente morte. Vivo di parole, mi piace cucirle insieme finché non diventano coriandoli di stoffa e scintille. Queste parole che sono la mia dannazione e il mio regalo più grande: scelgo sempre persone che non badano alle parole e si stancano di esse, e irrimediabilmente perdo chi amo, incapace come sono di stare zitta e accontentarmi del silenzio. Ma sono io: una minuscola goccia d'inchiostro su un foglio immenso di silenzio.

12 commenti:

  1. Che meraviglia!
    È bello leggere che c'è ancora qualcuno, là fuori, che non ha paura di essere se stesso, che si ama e per proprio amore non si lascia abbattere da un mondo che ci vuole omologati!
    Prima o poi amerai qualcuno che non vorrà andare via nemmeno se spinto fuori a calci!
    Continua a parlare che le parole sono importanti!
    Dafne

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    1. Come vedi questo blog lo curo molto poco nelle risposte, ma quando entro, anche qua, mi piace rispondere e abbracciarti <3

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  2. Bellissima storia, vedi di proseguirla nel modo giusto, ma credo tu lo stia facendo...
    PS. Sapendo che sei logorroica quanti spasimanti avrai perso? :-)

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    1. Per fortuna ho il buon senso di tenere a bada gli spasimanti ;)

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  3. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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  4. Grazie per averla condivisa..a me leggerla ha dato tanto..perdonami dell'errore.
    P.S.: Per fortuna che le favole ogni tanto si avverano...

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  5. Brava, Sfigy! :-* Sei forte e...GRANDE ! ;-)))*

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    1. Perdonami cara...anche qua rispondo tardissimo...ma spero tu riesca a perdonarmi...ti abbraccio ;)

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    1. Ma sei proprio tu? Eccoti! Non sono puntuale neanche qua nelle risposte :D

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