venerdì 27 settembre 2013

Le bugie delle stanze di incontri

Senza molta fretta decido di cercare lavoro a Londra. Un esiguo gruzzoletto messo da parte mi permette un'autonomia di qualche mese, tanto da finanziarmi questa vacanza-studio, ma se trovassi un lavoretto?! Che fai, te ne privi? Oltre ai Job Centre (paragonabili ai nostri Centri per l'impiego ma straordinariamente funzionanti) esistono delle agenzie private che ti trovano lavoro part time, un po' come le nostre agenzie interinali, però funzionanti anche queste. Così decido di rivolgermi ad un'agenzia, non avendo voglia di addentrarmi nei meandri di Gumtree e interview varie. Mi venne in mente di rivolgermi ad un'agenzia italiana, cosa che tutti mi sconsigliarono. La differenza fra le agenzie private italiane e inglesi sta nella politica che le supporta. Le agenzie italiane si basano su questo presupposto: tu, lavoratore, vuoi un lavoro? Bene, paga 100 sterline e noi ti troviamo un lavoro. Le agenzie inglesi si basano su un altro presupposto: tu, datore di lavoro, hai bisogno di un lavoratore? Paga 100 sterline e ti troviamo un lavoratore. Ovviamente scelsi un'agenzia inglese, completamente gratuita per me (ma non per chi voleva assumermi) che dopo un test, mi inserì nelle sue liste, dicendomi che mi avrebbero chiamato quando qualcuno avrebbe richiesto il mio profilo di cameriera. Esattamente all'indomani della mia iscrizione ricevetti la telefonata di Willy dall'agenzia. Mi disse di munirmi di divisa “black and white” e di andare in un certo posto per una giornata di lavoro. Arrivai stralunata come chi non ha mai fatto la cameriera nella sua vita, dimenticandomi che sono diventata Chef de rangue pur di pagarmi gli studi all'università. Arrivata a destinazione mi chiesi se per caso non avessi sbagliato indirizzo. Il posto non era un ristorante ma un grande e splendido palazzo in una via famosissima di Londra. Guardai il messaggio di Willy sul cellulare: il posto era giusto. Entrai e mi trovai di fronte una gigantesca hall con uno stewart sdraiabile che mi accolse. Dissi chi ero e chi cercavo, lo gnocco mi diede un pass con un numero e disse “third floor”. Un altro mi mostrò i 4 ascensori più avanti. Ma io ero affascinata da tutto quello scintillare e passai oltre gli ascensori finchè il tipo che me li aveva indicati non venne a recuperarmi e mi fece entrare in ascensore. Dove cazzo ero finita?!? Arrivai al terzo piano e ai lati del corridoio c'erano due porte, una con la scritta che cercavo. Entrai e mi accolse un ragazzo con un gigantesco “Haaallooooooo!” mi disse che mi stavano aspettando e che ero persino in anticipo e che ciò era straordinario. Quel posto poteva essere tutto fuorchè un ristorante. Quel ragazzo era il mio manager e si chiamava Manuel. Le receptionist mi salutarono come se fossi la regina in carne e ossa. Ero confusa e un leggero mal di testa cominciava ad emergere dal mio cranio in subbuglio. Manuel mi fece entrare in un back office splendente e mi spiegò il lavoro. Mi disse anzitutto che era colombiano, che si occupava dell'organizzazione delle “meeting rooms” nelle quali avrei dovuto lavorare. Coooosaaaaa? Meeting rooms?! Tradussi alla lettera “stanze di incontri”. Dove cazzo mi ha mandato Willy? Quel pirlone integrale dell'agenzia per chi mi ha preso? Dovevo spiegargli che ho appeso la patata al chiodo e io non faccio certe cose! Meeting rooms?! Che incontri fanno in questo posto? È un hotel? Ma che hotel? Perchè si incontrano? Manuel si rese conto della mia faccia da imbecille e capì che non avevo mai sentito parlare delle “meeting rooms”. Mi spiegò che in quel posto i businessman si incontrano per affari. Per la cronaca la sera stessa con una semplice Googlata scoprii che Londra è piena di Meeting Rooms, c'è persino un sito simile ad Hotel Bookers che ti cerca le Meeting Rooms più fighe o più economiche della City. Quando lo scoprii mi sentii profondamente ignorante. Ma ancora non lo sapevo e il discorso del mio manager Manuel non mi convinceva. Mi spiegò il mio compito: visto che ero italiana dovevo fare il caffè e mi presento una macchina oscena da dove usciva quell'acqua brodosa e puzzolente che osano chiamare caffè. Mi sentii offesa e riuscii a dirgli in un inglese orribile che noi italiani facevamo il caffè “espresso” non questo caffè. Sorrise e mi disse che avevo ragione, anche se a suo dire il caffè colombiano era migliore. Lascia perdere bello de zia, che è meglio, dissi fra me e me. Mi presentò il mio monitor dove c'erano una ventina di colonne, a ciascuna corrispondeva una stanza, ciascuna aveva il nome di una capitale, quando c'era un meeting compariva un pallino blu o bianco: blu clienti esterni, bianco interni che incontravano esterni. Nel pallino c'era scritto numero dei clienti, nome e ora di inizio. 20 minuti prima di tale orario io avrei dovuto riempire un thermos argentato di caffè schifosamente acquoso, uno di acqua calda per un eventuale the, e portarlo nella stanza ancora vuota. Quando il pallino diventava rosso significava che la riunione era finita, dovevo entrare nella stanza vuota, prendere i miei thermos e uscire in attesa di altri pallini blu, bianchi o rossi. Lo guardai come se mi stesse pigliando per il culo in maniera paradossale, e gli chiesi: e poi? E poi “stop” mi disse. Non mi convinceva, questi cazzo di incontri....mmmhhhh....puzzavano strano, non è che fra un thermos e l'altro dovevo fare la danza dei 753 veli? O andare sotto la tavola rotonda per cercare la spada di Re Artù? Manuel mi fece fare un giro nelle 25 stanze coi nomi delle capitali mondiali: con mio grande disappunto non c'era Roma, ma in compenso c'erano Firenze e Venezia. Feci il primo caffè, andai a Barcellona e portai i thermos. Dentro non c'era nessuno, a parte un tavolo splendido, delle sedie girevoli, un divano, un frigo bar, delle tazze, the e zucchero sul tavolo, fiori freschi sul ripiano e un panorama mozzafiato dalla finestra. Non era possibile che il mio lavoro consistesse solo in questo. Nella prima ora di lavoro la noia si tagliava a fette spesse come un Pan di Spagna farcito di crema Chantilly. La ragazza spagnola che passava dopo di me doveva ritirare le tazze e pulire la stanza (da cosa doveva pulirla?! Era più sterilizzata della rianimazione del Gemelli!) ma spesso non c'era: la vedevo appesa al cellulare, messaggiando forse col principe color puffo. Quindi le prime volte portavo via le tazze, considerando che non avevo una beneamata minchia da fare. Quando mi vide portare via le tazze, venne da me e si presentò: si chiamava Dulcinea ed era spagnola, dell'Estremadura per l'esatezza. Mi ringraziò anche in cirillico per aver portato via 2 tazze. Io non sapevo cosa rispondere: erano 2 tazze del picchio, santi numi! Non stavo facendo niente e pensavo di morire di noia, ancora non credevo che mi pagassero per non fare un cactus in quelle ore di lavoro! I signori incravattati si succedevano, li incrociavo in corridoio, mi sorridevano, a volte venivano senza prenotare la stanza, si illuminava un pallino giallo, voleva dire che c'era un cambio di programma improvviso. Portavo i thermos, bussando prima alla porta e chiedendo scusa, e loro mi ringraziavano come se stessi portando oro, incenso e mirra. Poi venne la mia boss. Una donna irlandese che dirigeva le meeting rooms di questa immensa azienda. Mi trovò che preparavo il filtro da 6 litri di caffè visto che stava per finire. Avevo le maniche della camicia bianca appena tirate su per non macchiarmi e nel mio polso sinistro risplendeva un cerchio rosso, visibile come un sacco di torba su valle innevata di soffice neve. Era il mio tatuaggio della falce e martello su uno sfondo rosso: il primo dei miei 9 tattoo che porto stampati sul mio minuscolo corpo. Certo che quel tatuaggio era uno schiaffo sul muso a tutto quell'estremo capitalismo che circolava in quelle stanze. Non lo nascosi, la mia boss mi stava alle spalle, sentivo che lo fissava, mi diceva che aveva saputo del mio arrivo in anticipo a lavoro e che ciò era lodevole e lo aveva apprezzato molto, e di questo l'azienda ne avrebbe tenuto conto. Premetto che ero arrivata con 10 minuti di anticipo e non 27 ore prima. Imbarazzata risposi qualcosa che non ricordo. Tutta questa cortesia mi devastava: non c'ero abituata. Mi chiese se volevo fare un break, che dovevo essere sicuramente stanca. Pensai che da 1 a 10 mi stesse prendendo per il culo almeno 13 o 14. Le dissi che no, non ero stanca, assolutamente no. Mi disse che l'azienda metteva a disposizione tutto, tutto era free, potevo prendere tutto ciò che c'era in frigo, andare nell'altra ala dell'azienda e prendere ciò che c'era e se non bastava andare al piano di sotto, sempre dell'azienda, e mangiare nella sala che l'azienda metteva a disposizione dello staff. Dissi che stavo bene e la ringraziai. Quando andò via pensai che ci doveva essere una fregatura: non potevano pagarmi per annoiarmi davanti a una gigantesca macchina di caffè aspettando che un pallino si illuminasse sullo schermo e offrirmi anche break e snacks. Mi chiedevo come potevo spiegare tutto questo a mia madre, le avrei detto una bugia: mai avrebbe capito cosa sono le meeting rooms e quale fosse il mio ruolo! Comunque era solo un giorno, una bugia di un giorno non fa mai male (maledetto retaggio culturale cattolico che impedisce al mio ateismo di dire comunque bugie!). Verso le 4 di pomeriggio arrivò il manger Manuel, mi disse se l'indomani avevo impegni di lavoro. No, non ne ho, perchè? Perchè la ragazza che aveva preso un giorno di malattia per visite mediche in realtà ne aveva preso due. Quindi la boss lo aveva chiamato e gli aveva detto che era molto contenta di me, lui le aveva confermato che anche a lui piacevo molto e avevano telefonato in agenzia chiedendo se l'indomani potevo andare nuovamente io, perchè ero perfetta. La mia risposta fu “Ah”. E pensai a mille cose, al mio tattoo che era stato visto ma che non era stato discriminante, al mio inglese impreciso e cacofonico a cui non avevano dato peso, alla cortesia estrema che tutti avevano usato...ed io mi sentivo così imbarazzata, non essendo abituata a venire ringraziata per svolgere un lavoro per il quale mi pagano. Uscii da lavoro frastornata e chiamai mia madre. Riporto di seguito la telefonata integrale:
-Pronto? -Ciao mà -Oh ciao, com'è? -Bene, stavo lavorando -Dove? -Ehm...in un fast-food...diciamo particolare, ecco -Particolare? Come particolare? Perchè? Com'è? Che succede? -Niente! È un fast-food...per pochi intimi diciamo -Che vuol dire? Dove sei finita? -Eccheccazzo, lasciami finire oh! Niente, il punto è che servo solo caffè in questo fast-food, punto! -Solo caffè? Perchè? E il resto? Perchè particolare? Per pochi intimi? In che senso intimi, poi?? -Oh ma niente, è un fast-food aziendale ecco e quindi... -E che azienda? -Ma non la conosci! È inglese, già non conosci le italiane! -Ma cosa fai tu in quel posto oltre al caffè? -Niente, solo caffè! -Come solo caffè?? Ma che fast-food è questo?? -Di un'aziendaaaaa! E ci devo andare anche domani perchè al manager sono piaciuta e.... -Come al manager sei piaciuta??? Chi è il manager? Che manager? -Il manager è il mio superiore, è un colombiano che... -Colombiano?? Quelli della cocaina?? -Ma cazzo, che discorsi razzisti! Non è che tutti i colombiani tirano piste quanto l'autodromo di Monza e sculettano come Shakira eh! Ti ricordo che la Colombia ha partorito anche quell'illustre premio Nobel di Gabriel Garcia Marquéz. Santi numi, togliti quel castello medioevale dalla testa e vedi di non fare del razzismo gratuito! -Ma non è razzismo, era un'esclamazione...di fatto com'è che sei piaciuta al manager? Perchè? -Oh senti, sto finendo il credito, ti chiamo domani che sto entrando in Tube e non prende -In tubo? Quale tubo? Cosa stai prendendo?! -Noooo la tube, la metro, capisci? -No, non capisco, ti richiamo se non hai soldi, aspe.. -No, non aspetto, ciao a domani, sto bene, sono una brava ragazza, guardo prima di attraversare la strada e stasera mangio leggero, ci sentiamo domani -Ma in che tubo devi entrare? O era tunnel? Fammi capire... -La metrooooooooo! Sto entrandooooo! A domani mà! -Ma chi è il manager? È perchè pochi intimi? Ma che fast-foo..... -Ciaooooo cilck!
Non oso pensare a cosa sarebbe successo se avessi detto “mamma, oggi e domani lavoro nelle stanze di incontri: era la volta buona che mia madre veniva a bordo di un cormorano motorizzato, a prelevarmi dalle grinfie della perfida Albione e a trascinarmi per i capelli in Sardegna, relegandomi a vita dentro il nuraghe reale di Santu Antine. Diciamo la verità: le bugie servono a regalare alle mamme un sonno sereno, e se ci fosse un Dio oggi mi strizzerebbe l'occhio e direbbe “Brava Sfiggy, portami un caffè che quassù fa freddino”.

 

8 commenti:

  1. MMMMH....Allora mia figlia da Londra mi racconta anche lei bugie...Così dormo fessa e contenta !? Ma va bene così ...Tanto non potremmo far nulla, se non ricordarvi di aprire gli occhi e tenere ben saldo il timone! Auguri e Buon..Lavoro ?!..

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Nessuna bugia cattiva...solo bugie bianche, lo sai anche tu ;-)

      Elimina
  2. Letto tutto d'un fiato. Incredibile... un mondo sognato da tutti e reale. Bellissima avventura :)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sulle condizioni di lavoro sono anni luce più avanti di noi. Incredibile l'enorme cultura del lavoro di questa città!

      Elimina
  3. Ma dirle che hai fatto la Cameriera in un posto dove si fanno riunioni di lavoro no??

    RispondiElimina
  4. Ma dirle che hai fatto la Cameriera in un posto dove si fanno riunioni di lavoro no??

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Si, sarebbe stato più semplice...ma la prima a vederci qualcosa di strano ero io...non sarei stata convincente! Abituata a lavorare con turni massacranti non pare vero stare ferma per ore e venire pagata!!!

      Elimina
  5. Ciò che scrivi riguardo la "cultura del lavoro" di lì conferma quello che dicono due miei amici che lavorano parte dell'anno in Inghilterra. Sintetizzando: è tutta un'altra cosa :-o .. E se qua in ItaGlia continua così -e stante la mia situazione disoccupazionale-, mi sa che tra non molto pure io e Claudia dovremo volare là :-/

    RispondiElimina