C'era una volta una bambina la cui caratteristica principale era
la risata. Il padre diceva che quando rientrava da lavoro sentiva
dalla strada la sua risata esplosiva, e non si sarebbe sorpreso se
avesse sfondato la porta. La madre testimonia che quella bambina da
piccola non camminava ma trotterellava. Saltava sempre come
dovrebbero fare tutti i bambini: solo a loro spetta l'innocenza e
l'incoscienza della vita, e solo i bambini riescono a fare voli
pindarici seguendo la traiettoria di un calabrone stanco. La madre
era un'insegnate e portava sua figlia con se a scuola: le baby sitter
a quell'epoca erano impegnate a cercare marito e a zappare una terra
avara. Quella bambina veniva riposta in una sedia con un quaderno
davanti e sapeva di dover stare composta altrimenti la mamma si
sarebbe alterata e la sera non avrebbe potuto sfogliare i fumetti. A
3 anni quella bambina era l'amore delle bidelle della scuola, perchè
la madre aveva capito che era una grandissima scassa gonadi: quella
nanetta suggeriva ai bambini di prima elementare le paroline che
iniziavano con la lettera S, P e anche con la D. Quindi spesso le
bidelle la prendevano in affidamento per evitare che la mamma
insegnante avesse un travaso di bile e la schiantasse contro
l'ardesia della lavagna. Il che avrebbe reso la lavagna meno tetra, a
dire il vero. A 4 anni la ridente bambina scartavetrava ancora di più
le tube di Falloppio, e suggeriva ai bambini di terza elementare la
capitale dell'Umbria e il risultato di 57+15. Così la mamma si
rassegnò e l'anno successivo iscrisse questa figlia rompipalle nella
sua scuola, in una pluriclasse dove insegnante e alunna erano
rispettivamente mamma e figlia. La noia attanagliava la bambina che
in anni di presenza a scuola con la madre aveva imparato tutto il
primo ciclo di scuola elementare, perciò finiva la paginetta delle A
o delle F in così poco tempo che la madre le dava i fumetti per
poterli leggere mentre gli altri finivano i compiti. Quando la
mamma-maestra insegnava le addizioni elargendo agli alunni una
quantità inestimabile di ceci, la bambina-figlia mangiava i ceci
crudi e faceva i calcoli a mente. I suoi compagni non la vedevano
come “la figlia della maestra” ma come una piacevole bambina che
all'occorrenza ti suggeriva il terzo passo de La cavalla storna o la
data della circumnavigazione del globo terrestre da parte di
Magellano. Per tutta la durata delle elementari per la bambina fu
noia a secchiate: il suo banco era attaccato al muro, vicino alla
cartina dell'Africa; in quinta elementare, all'atto di dare l'esame
finale, la bambina si rese conto che dalla cartina erano scomparse
Johannesburg, Bloemfontein, i monti Drakensberg e Njesuthi, e anche i
fiumi Molopo e Limpopo: erano stati consumati dalla sua stessa testa
che poggiava, dormiente, contro il muro quando per la duecentesima
volta la mamma-maestra spiegava che un'ara equivale a 100 metri
quadrati e che 100 millilitri corrispondono a un decilitro o a 10
centilitri. La noia imperversava nelle molecole di ossigeno di quella
classe, e la bambina cadeva in catalessi sul lago Sudafricano di
Sibhayi. Alle medie fu libertà e scoperta: la mamma non c'era, i
professori ridevano alle battute della ragazzina impertinente e
casinara, spesso neanche si prendeva le giuste punizioni, disarmava
con una battuta al vetriolo seguita da una spruzzata di cipria in un
soffio di cotone idrofilo. I professori dicevano alla madre “è
brava”. La madre della peste rimaneva sbigottita e rispondeva “Non
è possibile, a casa non tocca libro!”. E da lì fu un classico
susseguirsi di “è brava ma se si applicasse di più sarebbe
geniale”. Ma alla bambina non gliene fregava nulla di essere genio
e saltare le medie a piè pari. Quella bambina mangiava la vita, la
mordeva voracemente e correva nei fiumi a catturare girini,
raccoglieva more e ne faceva mosto per le formiche, scagliava sassi
contro un muro per vederli frantumarsi nell'orizzonte e immaginava
fossero esplosioni di stelle. Si, non era una bambina normale, era
evidente. Quando arrivò lo scoppio adolescenziale quella ragazzina
ne fu colpita in maniera devastante. La sua parlata si interruppe e
cominciò a balbettare. Balbettava talmente tanto che quando entrava
in un bar e diceva “buongiorno”, prima che concludesse quel
saluto, si era già fatta sera e faceva prima a dire “buonanotte”.
I professori non la capivano e per lei si aprì un inferno. Le
interrogazioni erano torture dove le parole che aveva dentro non
uscivano, si fermavano fra l'esofago e la lingua, l'aria si fermava e
dalla bocca non usciva nessun suono. Il mutismo, logorante e
devastante di un corpo minuscolo che aveva dentro miliardi di parole
inespresse. I pensieri si accavallano, si attorcigliavano su se
stessi senza trovare forma e spazio nell'atmosfera surreale di una
qualsiasi classe di scuola superiore. “Profe-fessore, po-potrebbe
f-f-farmi f-fare un c-c-ompito scritto inv-vece che
in-terr-rogar-rmi?” - “Assolutamente no, se lo faccio con te,
dovrei farlo con tutti, e io non ho tempo di correggere i compiti
scritti” - “G-gr-razie p-prof-fes-ssore”. Non venne bocciata
perchè probabilmente qualche Santo in paradiso si ricordò che anche
lui non andava tanto bene a scuola e quindi si intromise in sede di
scrutinio e diede uno schiaffo a tutti i professori, che la
rimandarono “solo” in 4 materie. La ragazzina vide in quell'esame
il suo fallimento, la sua incapacità di comunicare col mondo, e si
chiuse in un volontario mutismo elettivo di chi non riesce a dare
suono ai pensieri. E cominciò a scrivere. Pagine infinite di diario,
quaderni e pezzi di carta sparsi ovunque, nella sua camera, nei bus e
in ogni luogo dove c'era lei esisteva anche l'appendice di un
brandello di carta sporcato da sterili gocce d'inchiostro. La madre
rimaneva impotente davanti a quella figlia discola e ribelle che
rifiutava ogni aiuto. Spesso la figlia rientrava a casa e vedeva la
madre piangere con la testa appoggiata al camino che bruciava legna e
sogni; e invece di correre ad abbracciare quelle lacrime si chiudeva
in camera e imbrattava di parole fogli infiniti di carta straccia, di
un diario muto che non la giudicava e sul quale le parole erano
rotonde, senza sbavature e uscivano fluide, senza incepparsi sulla
punta della penna. Ma il mondo ha bisogno di suono, della melodia
della voce che intreccia parole come in una sinfonia. Il mondo lascia
le parole scritte a chi possiede ali troppo grandi ed è incapace di
starnazzare ma solo di volare. L'angoscia, il perenne senso di
inadeguatezza, la solitudine fra la folla, i brividi che le
percorrevano l'anima quando doveva usare il suono della voce davanti
agli sconosciuti, spinsero quella ragazza nel punto più profondo del
precipizio. I tanti amici la vedevano scivolare in qualche nuvola di
fumo e in altro di proibito, “genio del cazzo, prima o poi
riuscirai a parlare come si deve, e se non dovesse succedere ti
prendiamo anche così, con questa tua stronzaggine di negarti”. E
cercare la fine dei battiti, sognare il buio, desiderarlo, provarlo
sulla propria pelle, imprimerlo nella sua vita come un marchio che
non sarebbe più andato via...e si ritrovò un giorno nuda, tremante,
in posizione fetale, rannicchiata nell'angolo buio della sua stanza,
circondata da fogli muti...si avvicinò allo specchio, si guardò e
disse “S-s-sono uov-vo e diven-n-nterò up-pu-p-pa”. E ripetè
quella frase guardandosi negli occhi finchè non riuscì a dirla bene
“Sono uovo e diventerò upupa”. E mentre vomitava quella frase
liscia piangeva ed era felice. Ogni giorno prendeva il dizionario, si
metteva davanti allo specchio e pronunciava parole a caso, finchè
non uscivano fluide, lisce “episte-mologia, epistemologia,
esec-rabile, esecrabile, puer-pera, puerpera, alie-nabile,
alienabile, pro-pe-deuti-co, propedeutico”. Cominciò a parlare con
se stessa, più in là avrebbe parlato col mondo. Dopo il diploma
striminzito prese qualche anno di pausa dove sfiorò i bordi della
sua bolla di sapone...e trovò parole per tutti. Più tardi scelse
una facoltà umanistica perchè decise che voleva aiutare gli altri.
Uscì dal mutismo guardandosi negli occhi, polverizzò la balbuzie
scrivendo e leggendo, diventò upupa, si laureò con 110 e lode e
cominciò a lavorare nei servizi sociali negli angoli più bui
dell'Italia. A 16 anni scrisse sulla porta del cesso della scuola
“Ridere è una cura, sorridere è una guarigione”. Ebbe 3 giorni
di sospensione con obbligo di frequenza. A 40 anni quella frase se la
tatuò sul polso. Adesso è una donna di 41 anni con una logorrea
incandescente che non conosce limiti, e nessuno direbbe mai che
quella donna un tempo era muta e avara di parole per il mondo. In
tutto questo non perse mai per un attimo la sua risata. E pian piano
ha cominciato a sorridere, soprattutto di se stessa.
…
Quella bambina ero io, quella ragazzina ero io e quella donna sono
io. Vi racconto questa mia favola affinchè ciascuno trasformi le sue
debolezze in punti di forza, affinché da ogni sconfitta riusciate a
trarne fuori il massimo vantaggio. Oggi parlo spedita come un treno
in corsa, ma ho paura di cadere perché mi rendo conto che non so
camminare bene. Una persona è monade e si basta, due persone sono
coppia e solitudine camuffata, tre persone sono gruppo e dispersione,
quattro o più persone sono folla della quale ancora ho paura. E ogni
tanto quando sono fra la gente la mia lingua non emette suono e si
inceppa, e un brivido mi corre sulla pelle e ho paura di tornare
muta. Vivo di sfide e cerco l'impossibile, il limite di me stessa. In
un albero di mele dolci e succose scelgo sempre quella acerba e secca
che sta in cima, incapace di saziarmi, e mi piace arrampicarmi per
andare a coglierla, incurante di una possibile caduta e della
conseguente morte. Vivo di parole, mi piace cucirle insieme finché
non diventano coriandoli di stoffa e scintille. Queste parole che
sono la mia dannazione e il mio regalo più grande: scelgo sempre
persone che non badano alle parole e si stancano di esse, e
irrimediabilmente perdo chi amo, incapace come sono di stare zitta e
accontentarmi del silenzio. Ma sono io: una minuscola goccia
d'inchiostro su un foglio immenso di silenzio.
venerdì 27 dicembre 2013
venerdì 15 novembre 2013
Voglio andare a vivere in Tanzania.
Una mattina mi svegliai e corsi in giardino a fumare una sigaretta. Già,
perché a Londra è proibito fumare in quasi tutte le case. È proibito
fumare anche nei parchi degli ospedali, sotto le pensiline del bus, nei
cortili del college...si può fumare praticamente solo per strada. Vedi tutta questa gente che si butta in strada e smaniosa, accende la
sigaretta come se la strada fosse il luogo ideale per farsi due tiri.
Qua Anfora Nera per fumare il calumet della pace con Custer avrebbe
dovuto schiodarsi dalla capanna e scendere fino a Cazzius Road per
suggellare un armistizio fasullo con una sana pipata. Ergo, uscii in
giardino e accesi la prima sigaretta della giornata. Il prato era cosparso di scatole di sardine vuote, di latte, di birra e altra
spazzatura del coinquilino, che mangia sano quanto un detenuto ad
Alcatraz. C'è da sapere che nel mio quartiere, chi possiede il giardino
(nel retro della casa), ha sempre un contenitore per la spazzatura nel
prato. Si, perché davanti a casa ci sono i bidoni per la differenziata
ma la spazzatura si può mettere solo il giorno che passano a ritirarla.
Ergo, non è che se io mangio una scatoletta di tonno me la devo tenere
in casa finché non passano a ritirare le lattine, ovviamente la metto in
giardino, manco a dirlo, altrimenti dentro casa ci sarebbe un lezzo
paragonabile a quello della Cloaca Maxima. Così la facciata di casa resta pulita, mentre nel giardino dietro casa hai la spazzatura a
quintali. Ma son problemi tuoi, te la tieni. Comunque la spazzatura era
in giro per il prato, come se durante la notte avesse assunto sembianze
umane e se ne fosse andata a spasso per il giardino. Non avevo neanche
finito il pensiero che vedo passare davanti a me...una volpe. Nel mio
giardino. Una volpe. Mentre fumavo. A Londra. Di mattina. Rimango con la
sigaretta a mezz'aria come se avessi visto la regina madre in tanga che
ballava la mazurka con Rocco Siffredi.
La volpe si ferma in mezzo al giardino e annusa una confezione vuota di ravioli in scatola. Ma siccome fanno schifo anche a lei, disgustata, si allontana. Poi si accorge di me. Alza lo sguardo e mi guarda. Io ero impietrita, il fumo nei polmoni non usciva nonostante avessi la bocca spalancata come Glauco al Parco di Bomarzo. La volpe fece una faccia come per dire "caxxo ti guardi? Non hai mai visto una volpe, pirla che non sei altra?" Se avesse potuto mi avrebbe fatto persino una pernacchia, prima di girarsi e, comodamente, senza fretta, flemmatica, dirigersi verso la staccionata e saltarla a piè pari per andare indisturbata nel giardino del vicino che, come ben si sa, ha l'erba sempre più verde. Il mio vicino poi, essendo pakistano, ha l'erba più verde e più buona del quartiere, gliela invidiano in tanti e vengono persino a chiedergliela. Corsi alla staccionata per cercare la volpe e riuscii a vedere giusto la coda fluffotta e spumosa che spariva dentro un pertugio. Raccolsi i pensieri e le ciabatte zuppe di rugiada che avevo perso poco prima, e mi precipitai dentro casa alla velocità del neutrino, urlando "The foooooooox". Dentro c'era solo il coinquilino croato che, sornione, leggeva un quotidiano con la stessa aria interessata di chi contempla un flacone scaduto di Dash liquido. Sollevò lo sguardo e disse "O". Disse O senza acca, non quell'oohh bello, aspirato, pieno di sorpresa, ma O, semplicemente. Con lo stesso stupore che avrebbe avuto se gli avessi detto "Fuori piove". Identico. Allora insistetti "in The garden, there is a fox, the bin, the rubbish is in the ground, do you understand? Capisci? Volpe, fox, in giardino, tutto incasinato, understand?". Yes, disse yes. E basta. Odioso. Non mollai la preda e iniziai da capo ma mi bloccò, dicendo che le volpi a Londra sono comuni come in Italia gli spaghetti al pomodoro: in ogni casa c'è una volpe che passa una o più volte al giorno.
Mi raccontò una storia che ovviamente pensai di aver capito male vista la mia conoscenza dell'inglisc. Quando arrivò il coinquilino italiano gli riproposi la situazione, e lui mi confermò il tutto, compresa la storia che pensavo (speravo) di non aver capito bene. Pare che un giorno la coinquilina che occupava la mia stanza prima del mio arrivo, fosse uscita per qualche ora nel tardo pomeriggio, dimenticando la finestra aperta. Al suo rientro trovò sul suo letto una volpe che mangiava i resti di un piatto di carta che un tempo conteneva la sua cena. Quel letto adesso era il MIO letto, e in quel giaciglio una sera qualunque, una volpe aveva fatto orge bucoliche con dei sandwich al formaggio e bacon. Salii su, chiusi ermeticamente la finestra, smontai il letto e girai il materasso dall'altro lato, poi infilai il coprimaterasso e due paia di lenzuola, così da evitare che qualche traccia potesse toccarmi. Che poi magari sono docili, no? Si, sono timide dicono, sono shy. Dicono. Dopo qualche giorno presi un quotidiano e vidi una notizia allarmante: una bambina aveva trovato una volpe nella sua cameretta. L'articolo diceva che era stata fortunata perché tempo prima un bambino nella stessa situazione aveva avuto delle lesioni e qualche osso rotto in un incontro ravvicinato con la volpe. Ogni volta che uscivo in giardino ero guardinga come se fossi sotto il bersaglio di un cecchino. Uno di quei giorni uscii e trovai la spazzatura che tappezzava metà giardino. La volpe era stata lì. Mi voltai di scatto per vedere la finestra della mia camera...fffiiiuuuuu! Era chiusa! Raccolsi un barattolo di pomodoro Napolina e lo lancia dentro il cesto con la precisione di Michael Jordan dai 3 punti. Ma era mattina presto, avevo sonno a quintali, e il tiro uscì sbilenco come se a tirarlo fosse stato la cieca di Sorrento, e rimbalzò sul bordo. Al rumore dal cesto venne fuori, con un balzo degno di Andrew Howe, una bestia scura e pelosa. Io ruotai su me stessa e mi scaraventai dentro casa che neanche Bolt mi avrebbe potuto inseguire. Lanciai un urlo in Sol maggiore che tutto il vicinato avrà pensato che qualche sirena di allarme antiatomico si fosse incappata ad libitum.
Una volta dentro mi accorsi che la bestia era...un gatto. Un bellissimo gatto, che mi guardava come dire "ma perché non sei rimasta in Italia se volevi spaccare i timpani e le pelotas alla gente?". Uscii fuori, mi scusai col gatto e gli offrii una scatoletta di tonno. Accettò di buon grado e mi fece le fusa prima di fare la pipì sulla mia pantofola fucsia. Diventammo amici. Dopo due giorni la spazzatura era sparsa in maniera così armonica e spiritosa che quasi mi venne voglia di complimentarmi col gatto. O con la volpe. Neanche avevo messo il piede destro fuori dal gradino che vedo spuntare dal cesto una coda pelosa. Troppo pelosa per essere quella di un gatto. Quella cosa pelosa stava frugando fra le bottiglie di vino da mezza sterlina che comprano i miei coinquilini. Era la volpe, ne ero certa. Entrai dentro casa con un dietro front repentino che mi fece inciampare nello stipite e cadere di natica mollemente, ma con un tonfo autorevole, così come spetta a un deretano di un certo spessore. La bestia al rumore spuntò fuori e si precipitò verso il tronco dell'albero. Si fermò a metà e mi guardò: ero seduta per terra con un gran dolore all'osso sacro, la sigaretta spezzata in due fra le labbra, che cercavo, inutilmente, di rialzarmi. Era uno scoiattolo. Splendido. Mi guardava con aria pietosa, quasi volesse dire: ma tu a 41 anni ancora giochi a fare le capriole di culo? Non lo vedi che cadi, pirla?! Forse mi fece una pernacchia prima di scappare. Lo corteggiai per giorni con le noci. Le prendeva e scappava prima che riuscissi a toccarlo e a farle una foto. Dopo aver speso mezzo stipendio in noci e semini, un giorno mi fece la grazia di fermarsi a debita distanza, sgranocchiando una noce per farsi fare una foto. Ma uscì sfuocata, però ho la foto del mio amico peloso. Mi diede il contentino, lo squirrel infame. Diventammo amici. Un giorno lascio una scatoletta al gatto, il giorno dopo una noce per lo scoiattolo. Alla volpe niente.
Però ogni giorno raccolgo l'immondizia da ogni angolo, e non so chi sia stato dei 3 animaletti. Ho persino scoperto che è inutile mettere il coperchio sul cesto: dopo aver comprato 17 coperchi i coinquilini si sono arresi perchè, oltre a raccogliere l'immondizia, dovevano anche raccogliere i brandelli del coperchio fatto a pezzi dalla volpe. Ieri sera mentre deambulavo in direzione letto per assumere posizione marmotta, sento un peso sotto la pantofola. Pensai: non posso aver pestato una cacca dentro casa visto che il mio coinquipirla è fuori a cena, e poi non è così sottile come questa cosa che...cos'è??! Colla per topi??? Eeeeehhhhh?? In casa mia c'è un cartone con la colla per topi?? Perché?? Why?? Chiesi al coinquilino croato. Con l'entusiasmo e la partecipazione di chi toglie i pelucchi al Mocio, mi disse che era normale avere topi in casa visto che la casa era quasi tutta di legno, pavimento compreso. Ma che vor di'?!? Che dentro un seggiolone della Foppapedretti ci sono i topi perché è di legno?? No, i topi no, non ce la posso fare. Per la volpe ormai mi sono rassegnata a tenere la finestra chiusa in maniera imperitura. Il gatto e lo scoiattolo, vabbè, frantumano le gonadi, ché ogni giorno devi raccogliere monnezza anche dal filo per stendere, però siamo amici. Ma i topi non ce la posso fare.
Ieri ho sentito Gabriele, è in Tanzania per lavoro: consulenza aziendale import-export, 6 mesi di Africa. Ha riso per 3 ore dopo la storia dei topi. Mi ha detto: ma neanche qua in Africa ho i topi in casa, dove sei andata a vivere?!
A Londra o in qualche bidonville?! Ecco, tutto ciò mi ha fatto riflettere. E pensavo: la Tanzania...perché no? Why Not? Un posto dove non ci sono topi che circolano impunemente dentro casa...che posto civile! E il lavoro? Beh, potrei raddrizzare banane e lanciare un nuovo business: le banane dritte stanno meglio in frigo, rimangono più ordinate, sono più digeribili e si prestano a molteplici usi.
Amo la Tanzania.
La volpe si ferma in mezzo al giardino e annusa una confezione vuota di ravioli in scatola. Ma siccome fanno schifo anche a lei, disgustata, si allontana. Poi si accorge di me. Alza lo sguardo e mi guarda. Io ero impietrita, il fumo nei polmoni non usciva nonostante avessi la bocca spalancata come Glauco al Parco di Bomarzo. La volpe fece una faccia come per dire "caxxo ti guardi? Non hai mai visto una volpe, pirla che non sei altra?" Se avesse potuto mi avrebbe fatto persino una pernacchia, prima di girarsi e, comodamente, senza fretta, flemmatica, dirigersi verso la staccionata e saltarla a piè pari per andare indisturbata nel giardino del vicino che, come ben si sa, ha l'erba sempre più verde. Il mio vicino poi, essendo pakistano, ha l'erba più verde e più buona del quartiere, gliela invidiano in tanti e vengono persino a chiedergliela. Corsi alla staccionata per cercare la volpe e riuscii a vedere giusto la coda fluffotta e spumosa che spariva dentro un pertugio. Raccolsi i pensieri e le ciabatte zuppe di rugiada che avevo perso poco prima, e mi precipitai dentro casa alla velocità del neutrino, urlando "The foooooooox". Dentro c'era solo il coinquilino croato che, sornione, leggeva un quotidiano con la stessa aria interessata di chi contempla un flacone scaduto di Dash liquido. Sollevò lo sguardo e disse "O". Disse O senza acca, non quell'oohh bello, aspirato, pieno di sorpresa, ma O, semplicemente. Con lo stesso stupore che avrebbe avuto se gli avessi detto "Fuori piove". Identico. Allora insistetti "in The garden, there is a fox, the bin, the rubbish is in the ground, do you understand? Capisci? Volpe, fox, in giardino, tutto incasinato, understand?". Yes, disse yes. E basta. Odioso. Non mollai la preda e iniziai da capo ma mi bloccò, dicendo che le volpi a Londra sono comuni come in Italia gli spaghetti al pomodoro: in ogni casa c'è una volpe che passa una o più volte al giorno.
Mi raccontò una storia che ovviamente pensai di aver capito male vista la mia conoscenza dell'inglisc. Quando arrivò il coinquilino italiano gli riproposi la situazione, e lui mi confermò il tutto, compresa la storia che pensavo (speravo) di non aver capito bene. Pare che un giorno la coinquilina che occupava la mia stanza prima del mio arrivo, fosse uscita per qualche ora nel tardo pomeriggio, dimenticando la finestra aperta. Al suo rientro trovò sul suo letto una volpe che mangiava i resti di un piatto di carta che un tempo conteneva la sua cena. Quel letto adesso era il MIO letto, e in quel giaciglio una sera qualunque, una volpe aveva fatto orge bucoliche con dei sandwich al formaggio e bacon. Salii su, chiusi ermeticamente la finestra, smontai il letto e girai il materasso dall'altro lato, poi infilai il coprimaterasso e due paia di lenzuola, così da evitare che qualche traccia potesse toccarmi. Che poi magari sono docili, no? Si, sono timide dicono, sono shy. Dicono. Dopo qualche giorno presi un quotidiano e vidi una notizia allarmante: una bambina aveva trovato una volpe nella sua cameretta. L'articolo diceva che era stata fortunata perché tempo prima un bambino nella stessa situazione aveva avuto delle lesioni e qualche osso rotto in un incontro ravvicinato con la volpe. Ogni volta che uscivo in giardino ero guardinga come se fossi sotto il bersaglio di un cecchino. Uno di quei giorni uscii e trovai la spazzatura che tappezzava metà giardino. La volpe era stata lì. Mi voltai di scatto per vedere la finestra della mia camera...fffiiiuuuuu! Era chiusa! Raccolsi un barattolo di pomodoro Napolina e lo lancia dentro il cesto con la precisione di Michael Jordan dai 3 punti. Ma era mattina presto, avevo sonno a quintali, e il tiro uscì sbilenco come se a tirarlo fosse stato la cieca di Sorrento, e rimbalzò sul bordo. Al rumore dal cesto venne fuori, con un balzo degno di Andrew Howe, una bestia scura e pelosa. Io ruotai su me stessa e mi scaraventai dentro casa che neanche Bolt mi avrebbe potuto inseguire. Lanciai un urlo in Sol maggiore che tutto il vicinato avrà pensato che qualche sirena di allarme antiatomico si fosse incappata ad libitum.
Una volta dentro mi accorsi che la bestia era...un gatto. Un bellissimo gatto, che mi guardava come dire "ma perché non sei rimasta in Italia se volevi spaccare i timpani e le pelotas alla gente?". Uscii fuori, mi scusai col gatto e gli offrii una scatoletta di tonno. Accettò di buon grado e mi fece le fusa prima di fare la pipì sulla mia pantofola fucsia. Diventammo amici. Dopo due giorni la spazzatura era sparsa in maniera così armonica e spiritosa che quasi mi venne voglia di complimentarmi col gatto. O con la volpe. Neanche avevo messo il piede destro fuori dal gradino che vedo spuntare dal cesto una coda pelosa. Troppo pelosa per essere quella di un gatto. Quella cosa pelosa stava frugando fra le bottiglie di vino da mezza sterlina che comprano i miei coinquilini. Era la volpe, ne ero certa. Entrai dentro casa con un dietro front repentino che mi fece inciampare nello stipite e cadere di natica mollemente, ma con un tonfo autorevole, così come spetta a un deretano di un certo spessore. La bestia al rumore spuntò fuori e si precipitò verso il tronco dell'albero. Si fermò a metà e mi guardò: ero seduta per terra con un gran dolore all'osso sacro, la sigaretta spezzata in due fra le labbra, che cercavo, inutilmente, di rialzarmi. Era uno scoiattolo. Splendido. Mi guardava con aria pietosa, quasi volesse dire: ma tu a 41 anni ancora giochi a fare le capriole di culo? Non lo vedi che cadi, pirla?! Forse mi fece una pernacchia prima di scappare. Lo corteggiai per giorni con le noci. Le prendeva e scappava prima che riuscissi a toccarlo e a farle una foto. Dopo aver speso mezzo stipendio in noci e semini, un giorno mi fece la grazia di fermarsi a debita distanza, sgranocchiando una noce per farsi fare una foto. Ma uscì sfuocata, però ho la foto del mio amico peloso. Mi diede il contentino, lo squirrel infame. Diventammo amici. Un giorno lascio una scatoletta al gatto, il giorno dopo una noce per lo scoiattolo. Alla volpe niente.
Però ogni giorno raccolgo l'immondizia da ogni angolo, e non so chi sia stato dei 3 animaletti. Ho persino scoperto che è inutile mettere il coperchio sul cesto: dopo aver comprato 17 coperchi i coinquilini si sono arresi perchè, oltre a raccogliere l'immondizia, dovevano anche raccogliere i brandelli del coperchio fatto a pezzi dalla volpe. Ieri sera mentre deambulavo in direzione letto per assumere posizione marmotta, sento un peso sotto la pantofola. Pensai: non posso aver pestato una cacca dentro casa visto che il mio coinquipirla è fuori a cena, e poi non è così sottile come questa cosa che...cos'è??! Colla per topi??? Eeeeehhhhh?? In casa mia c'è un cartone con la colla per topi?? Perché?? Why?? Chiesi al coinquilino croato. Con l'entusiasmo e la partecipazione di chi toglie i pelucchi al Mocio, mi disse che era normale avere topi in casa visto che la casa era quasi tutta di legno, pavimento compreso. Ma che vor di'?!? Che dentro un seggiolone della Foppapedretti ci sono i topi perché è di legno?? No, i topi no, non ce la posso fare. Per la volpe ormai mi sono rassegnata a tenere la finestra chiusa in maniera imperitura. Il gatto e lo scoiattolo, vabbè, frantumano le gonadi, ché ogni giorno devi raccogliere monnezza anche dal filo per stendere, però siamo amici. Ma i topi non ce la posso fare.
Ieri ho sentito Gabriele, è in Tanzania per lavoro: consulenza aziendale import-export, 6 mesi di Africa. Ha riso per 3 ore dopo la storia dei topi. Mi ha detto: ma neanche qua in Africa ho i topi in casa, dove sei andata a vivere?!
A Londra o in qualche bidonville?! Ecco, tutto ciò mi ha fatto riflettere. E pensavo: la Tanzania...perché no? Why Not? Un posto dove non ci sono topi che circolano impunemente dentro casa...che posto civile! E il lavoro? Beh, potrei raddrizzare banane e lanciare un nuovo business: le banane dritte stanno meglio in frigo, rimangono più ordinate, sono più digeribili e si prestano a molteplici usi.
Amo la Tanzania.
giovedì 24 ottobre 2013
Sentirsi stranieri, feriti da parole nauseanti come la Marmite
Ieri mattina sono andata a lavorare nelle
stanze degli incontri. Una giornata dove il mio tasso di rincolemia
era ai massimi livelli: reduce da una notte di chiacchiere con Alex e
Steven, finita tardissimo e alle 11 sono entrata a lavoro col mezzo neurone
ancora in catalessi. Col mio sorriso da emiparesi ho cominciato a
preparare il caffè. Non avevo aperto Twitter (inesauribile fonte di
informazioni per gli italiani all'estero) non pensavo minimamente
all'Italia. Da un po' di tempo mi sforzo di pensare in inglese.
Immagino discussioni in inglese, cerco parole che mi
mancano e provo a ripetere mentalmente, soffiando improbabili suoni,
al fine di immagazzinarli nel mio encefalo forato. Dopo pranzo entrò
Setayesh. Era diventata importante col passare del tempo. Splendida,
eterea e diafana nel suo essere maledettamente scura. Un rapporto di
parole non dette, di sguardi, di pelle, di protezione reciproca e
similitudini che si intersecavano in chissà quale terra di nessuno.
Mi disse che un ragazzo italiano di 19 anni era stato ucciso a
Madistone, nel Kent, da un gruppo di ragazzi che avevano accusato lui
ed il suo amico di essere italiani arrivati in UK a rubare il lavoro
agli inglesi. Il primo pensiero è stato verso la madre di quel
ragazzo, gli amici, i parenti, che lo hanno visto partire con una
valigia di sogni e lo avrebbero rivisto dentro una scatola di legno,
chiuso insieme ai sogni spenti. Pensai a mia madre e a tutte le madri
che vedono partire i propri figli e guardando la TV, sentono il nome
di una città, di quella città...all'angoscia che si portano dentro
senza mai poterla esternare, senza mai poter esplodere in un boato di
rabbia disperata: rocce imponenti e sicure, ma friabili se sfiorate
nell'anima. Non riuscivo a dire una parola, incapace di partorire
alcun pensiero. Mi disse che lo aveva detto Bryan, il dirigente della
filiale in Italia, quello che sa tutto del nostro stivale. Era venuto
in reception a riferire la notizia, chiedendo alla boss di essere
comprensiva nel caso mi avesse visto un po' triste o distratta.
Premetto che in quel posto ho visto Bryan una sola volta,
nell'occasione della tragedia di Lampedusa, e non fu un incontro
piacevole il nostro. Ma si era preoccupato per me. La boss aveva
detto che ero sorridente come sempre, che forse non lo sapevo, e
Setayesh aveva detto che si sarebbe occupata lei di dirmelo. Aggiunse
solo poche parole. Ti capisco, mi disse, lasci la tua terra ma
comunque te la porti dentro, e ogni cosa ti ferisce perchè non puoi
far niente, sei sola e devi andare avanti...questo posto è
accogliente, aggiunse, non badare a queste cose, prendi il meglio che
puoi e dai il meglio di te, e non andare via da qua finchè non hai
dimostrato a te stessa che puoi vincere anche contro i fantasmi. You
can win against ghosts, sweetheart, you can, remember. Nella
solitudine di quella stanza cercai su
Internet qualche notizia. 19 anni, cazzo, 19 anni, un bambino! A 19
anni avevo un diploma fresco in tasca, lavoravo, risparmiavo soldi
perchè volevo andare all'università dopo qualche anno. Studierò,
pensavo a quell'età, imparerò tante cose e aiuterò gli altri,
voglio fare questo da grande. Avevo un materasso soffice di sogni che
mi esplodeva sotto i piedi, avevo ancora tante lacrime da farmi
scivolare addosso e tanti treni da perdere. E nonostante tutto di
quell'età ricordo solo ed esclusivamente una cosa: la sensazione
irripetibile di avere il mondo fra le mani. Mi sentivo potente, come
se nulla al mondo potesse scalfire la mia sicurezza, mi apparteneva
l'universo intero, lo sentivo mio ed ero convinta di poterlo
cavalcare con la stessa facilità con cui accarezzavo il vento,
regalando alla brezza il lusso di spettinarmi i capelli. Ero questo a
19 anni: la testa sui libri, sudore di lavoro, le mani su una
sigaretta, al collo una macchina fotografica, i piedi in qualunque
strada, a calpestare tempo e destino come fossero inutili coriandoli
da sprecare, gettandoli nell'aria come la cattiva sorte. Appena
Google mi diede risposta, vidi la foto di quel ragazzo ucciso di
botte in un qualsiasi appartamento del Regno Unito. E non ebbi il
tempo di piangerlo. Cominciò un incessante andirivieni di persone
nel mio backoffice, che volevano farmi sapere che loro no, non erano
così. Tutti, venivano e mi dicevano che loro non pensavano male
degli italiani, che io ero “great”, “amazing”, “lovely” e
un sacco di altre cose, che sicuramente c'era uno sbaglio, che no,
questo posto non era razzista, ancor meno con gli italiani. Manuel,
la Boss, Dulcinea, Alan, Debbie e altre persone che in questo mese
abbondante di lavoro ho avuto il privilegio di conoscere, si
avvicendavano in quella stanza a dirmi che loro non la pensavano
così. Li vedevo scusarsi come se fossero stati loro quelli feriti a
morte, in un punto vivo e vitale, come se quella morte fosse un'onta
di vergogna che li stava sommergendo in un giorno qualunque di
ottobre, insieme alle foglie che cadevano nel parco di fronte alla
mia finestra. Bryan venne a trovarmi nel pomeriggio. Mi aggiornò
sulle indagini. Forse lituani, solo uno inglese, storia intricata,
ancora buio. Ma non cambiava molto. Ammise che i gruppi estremisti,
le gang, avevano un gran risentimento verso l'ondata migratoria degli
ultimi tempi: spagnoli, italiani e altri. Disse che dalla Spagna e
dall'Italia erano arrivati tantissimi ragazzi, statisticamente più
del solito. Mi spiegò che il suo paese era ambiguo e freddo, ma
sapeva abbracciare. Mi disse che si, erano colonialisti, avevano
fatto la loro fortuna con le colonie, e che si, avevano succhiato il
meglio da ogni posto in cui erano stati, ma no, disse, non siamo
razzisti. Questo paese abbraccia tutti, gli stranieri qua sono una
risorsa, pagano le tasse, mandano avanti l'economia, diceva, la
politica UK vuole che tu lavori, che paghi le tasse e contribuisci
così al benessere di questa nazione. Mi spiegò cose noiose ma vere
di questo paese, pregi e difetti di un popolo che sto ancora
conoscendo. Andò via dicendo: Londra è come la Marmite, o la ami o
la odi, se riesci ad amarla ti darà tanto...provaci! Prima che
scomparisse chiesi: What's Marmite? Si fece una risata e uscì senza
rispondere. Dopo neanche un'ora arrivò un fattorino del supermercato
vicino con un barattolo di Marmite. Lo lasciò in reception e
Setayesh me lo diede. Aprii il barattolo e credetti di morire: una
zaffata di lezzo nauseante invase le mie narici e credetti di
vomitare l'anima e il latte materno che succhiai a 5 mesi. Entrò
Dulcinea e urlò “Woooowww, Marmite!” chiese se era mia, se
poteva mangiarne un po'. Anche tutta per me: fa schifo, fu
la mia risposta in italiano, che Dulcinea capiva perfettamente. Mi
disse che lei aveva imparato a mangiarla dal suo compagno: quando lo
baciava sentiva il sapore di quella crema nella sua bocca, e così
aveva imparato a farsela piacere. Andarono via quasi tutti verso le
18:30. Mi salutarono come se fossero colpevoli, dicendomi qualcosa di
inutilmente straordinario. Rimasi sola. Guardai su Internet, pensai,
piansi, riflettei su tutto. Questo paese mi aveva accolto a braccia
spalancate: dopo 15 giorni avevo un lavoro, persone che mi adoravano
e servizi funzionanti. Si, avevo incontrato persone stupide e
razziste, ma...posso dirlo senza essere tacciata di scarso
patriottismo? La maggior parte erano italiani. Certi italiani
chiamano le donne col Burka “le ninja”, il mio coinquilino
italiano non parla con la mia coinquilina inglese perchè è “negra”.
Per non parlare dell'omofobia: anche a Londra ci facciamo riconoscere
per quella cultura bigotta verso gli omosessuali, in una Londra che è
“la capitale dei froci”, come dice un mio amico gay, gli italiani sono fra i pochi a usare un razzismo omofobo. Dagli
inglesi non ho mai subito nessun attacco per il mio essere italiana,
MAI. Mi trattano con un rispetto persino imbarazzante, al quale non
sono abituata, e divento rossa quando la Boss mi dice che sono lovely
e mi chiama darling o my love. Fanno le battute sugli italiani
esattamente come noi italiani prendiamo per i fondelli gli inglesi
per l'assenza del bidè: sfottò reciproco e innocente. La carta
stampata si diverte a scandagliare i nostri mali, si discute di
politica e siamo noi italiani ad ammettere i difetti e a giustificare
che non siamo tutti bunga-bunga, mafia e Concordia. Ma gli inglesi lo
sanno: questa è una città melting pot, un gigantesco frullatore che
contiene pezzi di frutta da tutto il mondo, qualcuno ha schiacciato
il pulsante troppo a lungo e quella frutta si è mescolata,
diventando poltiglia, omogenea, amalgamata, mescolata come una jam
multicolore e multisfaccettata. I razzisti a Londra? Si, esistono, ma
è dura vita per loro: in questo paese è più facile vedere una
donna col chador piuttosto che una ragazza inglese con i leggins
pitonati, o un uomo col kandura piuttosto che un londoner con
ombrello e bombetta. Esistono gli stronzi inglesi così come gli
stronzi italiani, ma l'allarmismo e la tensione sono figli di questo
tempo caotico e animalesco. La storia del ragazzo 19enne deve far
riflettere però: gli italiani devono rendersi conto che noi siamo
schegge volate via dal nostro paese, e speriamo sempre di venir
accolti, di avere un lavoro o un'ancora a cui aggrapparci, e ci
teniamo a dimostrare che siamo “italiani brava gente”. Siamo
italiani, ne andiamo orgogliosi, e ci fa male essere così tanti, e
ci fa male sapere che abbiamo invaso una terra e ci sorge il dubbio
se davvero non stiamo rubando qualcosa, se diamo fastidio, e ci fa
male sapere che quando da noi arriva una zattera a pezzi qualche
connazionale ci gode e spera che affondino tutti, mentre qua ci hanno
accolto e ci trattano con rispetto. Non sarebbe giusto accusare gli
inglesi di razzismo così come non è giusto generalizzare sugli
italiani: i microcefali leghisti sono pochi, gli italiani che hanno
aperto la porta ai disperati “emigranti” sono tantissimi, e mi sento rappresentata da loro, non dai leghisti. Ci
ferisce quella frase che aleggia nell'aria “avete rubato il
lavoro agli inglesi”. Ci fa male ed è una ferita profonda, e
speriamo che gli inglesi non siano tutti così (e non lo sono) o almeno di non incontrarli mai. Perchè probabilmente
quel figlio di 19 anni è stato ucciso per altri motivi, ma il
problema è reale: siamo qua, siamo in tanti, forse troppi e ce ne
rendiamo conto. E speriamo solo che il nostro essere onesti
lavoratori faccia cambiare idea a quegli inglesi che non ci
vorrebbero qua. Perché in quel ragazzo c'erano i miei sogni da
19enne, c'erano i sogni di tutti gli italiani che vanno via sperando
in un futuro migliore, e qualunque sia il motivo (razzismo? Rapina?
Gang giovanili? Altro?) adesso quei sogni si sono persi dentro una
stanza del Kent, e gli inglesi per bene, tantissimi, si vergognano di
aver bruciato i nostri disegni da incorniciare con una scarica
infuocata di calci e pugni.
Uscii nella hall e indossai il giubbotto, sentii l'odore della Marmite nel naso: Dulcinea era nei paraggi. Seguii l'odore per salutarla. La trovai che divorava una fetta di pane tostato, imbrattato di quello schifo. Ci salutammo con un bacio, pequeña mia, disse, e mi strinse. L'odore della Marmite mi aveva invaso...non mi dava più fastidio, in fondo apparteneva a Dulcinea e a quel bacio forte stampato sulla guancia, come un francobollo che sai che non potrai mai staccare dall'anima. Have a nice evening, disse il portiere a piano terra. Goodnight, dissi io. La sigaretta. L'accendino. Il cellulare
-Pronto? -Ciao mà... -Hai sentito di quel ragazzo? -Si, ma non credo lo abbiano ucciso perchè era italiano...non si sa nulla, è confusa la storia... -Stai attenta -A che cosa? -A tutto -Tutto cosa? -Tutto...sei una brava donna, sai come comportarti, sai farti amare, forse nel concepimento ti ho inserito una calamita da qualche parte e sarà per questo che attiri a te tante persone...ma riesci a sentirti sola anche in mezzo agli amici e alla folla. Stai attenta a questo: a non sentirti mai sola -Ok mà -Stai andando nel tubo? -Si chiama tube mà, è la metro -Quella si...Stai attenta a non sentirti sola, se puoi non tornare, ma se torni mi troverai qua -Ci sentiamo presto -Stai bene? -Si, mi vogliono bene qua, molto -Anche qua te ne vogliamo -Lo so
Click.
Uscii nella hall e indossai il giubbotto, sentii l'odore della Marmite nel naso: Dulcinea era nei paraggi. Seguii l'odore per salutarla. La trovai che divorava una fetta di pane tostato, imbrattato di quello schifo. Ci salutammo con un bacio, pequeña mia, disse, e mi strinse. L'odore della Marmite mi aveva invaso...non mi dava più fastidio, in fondo apparteneva a Dulcinea e a quel bacio forte stampato sulla guancia, come un francobollo che sai che non potrai mai staccare dall'anima. Have a nice evening, disse il portiere a piano terra. Goodnight, dissi io. La sigaretta. L'accendino. Il cellulare
-Pronto? -Ciao mà... -Hai sentito di quel ragazzo? -Si, ma non credo lo abbiano ucciso perchè era italiano...non si sa nulla, è confusa la storia... -Stai attenta -A che cosa? -A tutto -Tutto cosa? -Tutto...sei una brava donna, sai come comportarti, sai farti amare, forse nel concepimento ti ho inserito una calamita da qualche parte e sarà per questo che attiri a te tante persone...ma riesci a sentirti sola anche in mezzo agli amici e alla folla. Stai attenta a questo: a non sentirti mai sola -Ok mà -Stai andando nel tubo? -Si chiama tube mà, è la metro -Quella si...Stai attenta a non sentirti sola, se puoi non tornare, ma se torni mi troverai qua -Ci sentiamo presto -Stai bene? -Si, mi vogliono bene qua, molto -Anche qua te ne vogliamo -Lo so
Click.
venerdì 18 ottobre 2013
Italiani: popolo di burattinai, evasori fiscali e...twitteri.
Quando arrivai a Londra mi sono chiesta: cosa penserà di noi questo popolo londinese? Dopo un paio d'ore avevo conferma dei loro pensieri: si materializzavano in una risata accompagnata dalle parole "Bunga-Bunga" o "Schettino". Ovviamente ho comprato subito i newspaper quando andai a fare la spesa. Già, perchè qua le edicole non esistono, i giornali li trovi in qualunque supermercato. Qualcosa che somiglia a un'edicola sono i chioschetti fuori o dentro le stazioni della Tube. La cosa che contraddistingue i quotidiani londinesi da quelli italiani è che sui vari newspaper anglosassoni si parla di tutto. Ma proprio di tutto: dalle pirlate del figlio discolo di Carlo d'Inghilterra (eppure questo Harry a me sta tanto simpatico) alla politica della Cina, dalle pedalate del sindaco di Londra ai giudici di X Factor (quello inglese), dalle storie di bullismo e buonismo alla politica...italiana. Si, parlano anche di noi. Con tutto quello che succede a Londra questi trovano il tempo di occupparsi dei cazzi nostri, incredibile! Perchè ovviamente è preferibile che si scordino di noi, che trovino un posticino nell'oblio e ci schiaffino là dentro. Lo so, voi davvero pensate che al di fuori del nostro perimetro non si sappia niente, tipo "i panni sporchi ce li laviamo in casa"...e le mutande pure che magari è scappata qualcosa...invece questi sanno tutto di noi. Non ci credete?! Faccio parlare le immagini. Spero che qualcuno capisca just a little bit di inglisc (altrimenti Google translate può essere un valido alleato), guardate e capirete perchè quando andate all'estero vi guardano con quella faccia tipo...come dire...quasi come voler dire..."italiani, ma quando cazzo vi svegliate??"
Se pensavate che il termine "Scilipotismo" non avesse varcato le Alpi...sbagliavate. Lo conoscono anche qua. E non è bello, ve lo giuro, non è affatto divertente. Grazie Italia, grazie tante. |
Ci danno anche dei consigli su come liberarci di Berlusconi: non mettetelo al centro dell'attenzione, cazzo, lui ne trarrà vantaggio, pirla che non siete altri! (parafrasi di Sfiggy, of course!) |
L'articolo su Lampedusa è semplice e diretto. Un lungo articolo del Financial Times che analizza la tragedia, la storia di queste vite disperate che scappano da inferni inauditi. Le ultime righe sono dedicate alle polemiche interne della politica, cioè che l'Europa deve intervenire, siamo stati lasciati soli, non sappiamo dove metterli, e via dicendo. Il giornalista del Financial Times risponde che l'Italia non è la piccola Malta ma uno dei 4 grandi membri dell'Europa, e storicamente l'Italia ha sempre esportato italiani all'estero. Ci ricorda che l'anno scorso Germania, Francia, Svezia, Gran Bretagna e Belgio hanno ricevuto molte più richieste di asilo dell'Italia. Persino la Scandinavia, la Svizzera e l'Irlanda hanno un maggior carico di rifugiati dell'Italia. Ci ricordano insomma che siamo in Europa e non possiamo prendere da essa solo ciò che è di buono e chiedere aiuto per ogni accadimento. Gli altri paesi accolgono rifugiati ed emigrati molto più dell'Italia...insomma, arrangiatevi, avete le risorse per accoglierli come tutti gli altri paesi. Forza e coraggio. Forza. Coraggio. Cose che ci mancano. |
Però noi siamo la storia, ebbene si! Cesare è arrivato a Roma, ha visto e ha...twittato! ....Eeeeeehhhhh?!?! |
giovedì 10 ottobre 2013
Fire Drill e figurine Panini
Il Fire Drill a Londra è maledettamente diverso dalle prove antincendio a Roma, ve lo garantisco. Il giorno che nella Cazzius & Brothers Corporation ci fu il Fire Drill, entrai e vidi i miei colleghi tutti assiepati
nella hall. Pensavo che dovesse arrivare Beckham a fare due palleggi con
Victoria Adams che in sottofondo gli cantava if you wanna be my lover.
Andai nel mio back office e accesi la macchina del caffè, fedele
testimone di tutti i miei sbadigli con apertura labiale talmente ampia
da intravedere anche il piloro. Non feci in tempo ad accendere Miss
CaffeZozzo che entrò Manuel. Mi informò che c'era il Fire Drill, una
prova di evacuazione dall'edificio. Serviva come "training" per un
eventuale allarme antincendio o terroristico. Lo scopo era ridurre ogni
volta i tempi di evacuazione, senza che nessuno fosse rimasto dentro a
fare la fine di un marshmallow su un barbecue americano. I understand,
dissi gioiosa, spiegando che avevo già fatto questa esperienza. Infatti
quando lavoravo nelle scuole di Roma facemmo la "Prova antincendio". Fu
esilarante. Ci furono dati opuscoli informativi per preparare i bambini.
Io mi occupavo di una bambina diversamente abile. Le maestre fecero
vedere agli alunni un filmato sul comportamento da tenere durante la
prova. I bambini erano contenti all'idea. L'indomani una mamma
rimproverò la maestra dicendo che invece di far vedere ai bambini
"filmini der cazzo" sarebbe stato il caso "de fà un pochetto de
matematica in più, che serve sempre". La maestra decise allora di fare
delle prove pratiche quando i bambini uscivano in cortile per la
ricreazione. Compito non facile, visto che i bambini scalciavano sulle
scale come puledri pensando a come emulare il cucchiaio der pupone
nell'imminente partitella al campetto scolastico. L'indomani venne un
papà a rimproverare la maestra: fare certe attività anche durante la
ricreazione non era giusto, i bambini dovevano giocare e il gioco era un
diritto del bambino riconosciuto anche dall'Unicef. La maestra mi
guardò e disse “Sai che c'è? Dovesse mai succede un incendio io me pijio
5 bambini a spalla, tu che sei piccoletta ne piji 3, poi torno indietro
e me pijio l'arti, che tanto io so' veloce a core, me faccio i 100
metri in un lampo io!”. Il giorno della prova antincendio i bambini
erano in silenzio in attesa dei 5 squilli di campanella. Io avevo
istruito per bene la mia bambina. La legge italiana stabilisce che in
caso di evacuazione di un edificio i disabili devono essere gli ultimi
della fila, per non intralciare gli altri. Alle 9:58 i bambini
aspettavano il suono della campanella per alzarsi e uscire in fila dalla
classe, davanti ci doveva essere la maestra e dietro io e la mia Perla.
Nel silenzio tombale della classe sentimmo le bidelle litigare su chi
dovesse suonare la campanella. La più anziana diceva che era un suo
diritto, la più giovane voleva suonarla lei perchè non l'aveva mai fatto
-Daje fammelo fa' a me! -E no, io so 'a più anziana, 'o faccio io! -Ma
tu l'hai già fatto, io no, nun puoi fare sempre tutto te oh! -E mica
vojio fa tutto io? A pulì i vetri ce puoi penzà te! -Anfame, pe' spiccià
l'aule nun sei la più anziana, ve'??.... E i bambini ridevano così
tanto che non solo non sentimmo la campanella ma non sapemmo chi vinse
il diritto di suonarla. I bambini si misero in fila, perfetti,
esemplari. Giunti alla porta esterna il bidello (unico uomo della
scuola, peraltro un uomo altamente coricabile devo dire) urlò ai bambini
“Ahò ma chè è sta mosceria?? Sembra che state a fa' 'a processione de
Fracazzo de Velletri!”. E i bambini corsero nell'androne ad abbracciare
quel bidello così tenero che non mi sarebbe dispiaciuto vederlo dietro
una cattedra. I bambini si sparpagliarono, alcuni finirono in IV e altri
in V senza neanche aver preparato l'esamino finale, ci ritrovammo in
giardino dopo circa 17 minuti. Ad onore della cronaca la mia bambina se
ne fregò di tutto, andò avanti per la sua strada, io non la guidai (in
nome dell'autonomia per la quale lotto nel mio lavoro), la seguii a
distanza, e da sola seguì il suo percorso e raggiunse il lato destro del
cortile prima dell'altra metà della classe, che nel frattempo si era
fermata a raccogliere ranuncoli mentre la maestra urlava disperata che
sarebbero morti carbonizzati se non alzavano le chiappe. Diedi a Perla
una Goleador alla Coca Cola, lei era felice e la sua autostima salì alle
stelle. Gli altri bambini erano felici perché mancava poco alla
ricreazione e quindi fu deciso di lasciarli direttamente in giardino per
non fare un altro penoso saliscendi. Fu una bella esperienza, e spero
che in quella scuola non ci sia mai un incendio. Ma nella Cazzius &
Brothers Corporation non fu così. La sirena venne azionata a sorpresa. I
businessman non sapevano che era in programma: la situazione doveva
essere il più reale possibile. Sbadigliavo davanti a CaffeZozzo quando
sentii qualcosa che seccò le mie ghiandole salivari e svegliò anche il
callo sotto il mio alluce destro. Setayesh e Marianne indossarono due
gilet catarifrangenti, e come se fossero state azionate da un
telecomando, chiusero la porta centrale col pass magnetico, si divisero
nelle stanze, fecero uscire i signori. Manuel fece uscire me, recuperò
Dulcinea che si era imboscata in un anfratto, e una centralinista che
stava rovistando in magazzino. Setayesh andò davanti a tutti, mi guardò
mentre passava e disse “Follow me!”. Cazzo, pensai, anche lei è su
Twitter?!? La sirena suonava, non smetteva, urlava e ti trapanava il
midollo, non erano 5 squilli di campana, ma un suono lungo e
ininterrotto. Prendemmo le scale a destra dell'ascensore. Nell'edificio
c'erano 8 scale, ognuno dei 7 piani del palazzi doveva usare quella
stabilita, una rimaneva libera per gli addetti alla sicurezza. La nostra
rampa era stretta, la sirena rimbombava, sentivo il suo eco nella bocca
dello stomaco, il rimbombare dei nostri passi sulle scale era un
tamburo dei Chippewa che suonava dentro la mia milza. Pensavo di
svenire: il suono assordante della sirena avrebbe fatto trasalire anche
Beethoven, mi creava un'angoscia irrazionale come se davvero dentro ci
fosse una bomba pronta ad esplodere. Gli altri erano abituati. La chioma
dei capelli neri di Setayesh danzava disinvolta, la sua andatura
regolare dettava il passo alla lunga fila, statuaria e di ghiaccio,
sembrava che davvero volesse portare in salvo tutte quelle vite che gli
stavano dietro. Non correva, era un soldato, seguita da tanti soldatini
che volevano vedere la strada. Sentii una mano dietro la spalla:
Dulcinea mi disse “No te preocupes mi chica, es todo falso!”. Forse si
era accorta che stavo per crollare a terra come una pesca nettarina in
una giornata di maestrale. Una volta in strada la fila non si ruppe,
arrivammo al vicino parco, ognuno al suo posto, in silenzio. Setayesh
una volta arrivata davanti a una certa panchina del parco, guardò
l'orologio: non male, disse, neanche 5 minuti. Mi ricordo che a scuola
dopo 5 minuti la maestra era sotto il banco cercando di far uscire
Giuseppe, il quale cercava la figurina Panini di Zarate che gli era
caduta dal mazzo. Noi eravamo più cazzari, più easy, ecco. A Londra sono
tutti dritti, precisi e impeccabili. Io quel giorno dovetti prendere 4
pastiglie per il mal di testa.
mercoledì 9 ottobre 2013
A ciascuno il suo Friday. Storie di scarpe e veli di malinconia
venerdì 4 ottobre 2013
Siamo noi i tunisini e gli albanesi che scappiamo con un volo low cost
lunedì 30 settembre 2013
Storie di lacrime e sorrisi nelle stanze di incontri
Lo ammetto con un po' di vergogna: sono sempre stata una
secchiona. A scuola ero la più casinara ma anche la più secchia di
tutti. Sarei stata lo zimbello della classe se non avessi avuto una
dose di infinita imbecillità rigogliosa in me, rendendomi talvolta
simpatica quanto una ginocchiata allo sterno. Londra ha il merito di
avermi fatto sentire una perfetta ignorante, anzitutto per la lingua
che non riesco a deglutire, e poi per i meccanismi, i modi e la
cultura che mi sono totalmente sconosciuti. Ma sono sempre la
secchiona di turno, ergo cerco di mettermi al passo di questa bolgia
cosmopolita. La questione delle meeting Rooms dove avevo appena
lavorato aveva leso la mia autostima in maniera indelebile. Quando
tornai a casa dal lavoro mi buttai sul computer e chiesi a Google
delle mie brame qualcosa in più di queste stanze di incontri. Sentii
improvvisamente che la mia ignoranza era profonda quanto la fossa
delle Marianne e non quanto il lago Coghinas. L'indomani andai a
lavoro con l'intento di colmare questo vuoto di conoscenza
agghiacciante. Appena arrivata le receptionist mi accolsero col
sorriso da paresi cronica che è appannaggio di queste splendide
creature preposte all'accoglienza. Manuel mi informò che avevamo
pochi meeting quel giorno. Annamo bene, pensai, già ieri ho avuto il
tempo di leggere anche gli ingredienti dei muffins al cioccolato e
del disinfettante nella cassetta del pronto soccorso, oggi avrò il
tempo di leggere persino l'etichetta degli slip e di contare quanti
granelli di detersivo poteva contenere una pastiglia di Finish
lavastoviglie. Ma ero intenzionata a conoscere il mondo sommerso
delle meeting Rooms, e così feci delle domande a Manuel, il quale
capì subito la mia curiosità e cercò di soddisfarla. In verità
non è che in queste stanze di incontri si decidessero le sorti del
mondo: gli uomini e donne che entravano lì dentro erano comuni
lavoratori di qualche azienda, incontravano nuovi o potenziali
clienti per vendere, proporre, acquistare, gestire o ideare un nuovo
prodotto, attività o collaborazione. Spesso erano colloqui di lavoro
per grandi aziende, dove i possibili candidati si avvicendavano per
accaparrarsi un lavoro di prestigio. Mi disse anche qualche nome
famoso della finanza e industria inglese, ma mi risultavano
sconosciuti, visto che per me l'inglese più illustre rimane comunque
David Bowie insieme a Kevin
Keegan.
Vista la mia faccia sorpresa, Manuel mi
chiese se le meeting rooms esistevano anche in Italia. Certamente
esisteranno, dissi, ma io non ne sono a conoscenza. Ah capisco,
rispose, in Italia ci si incontra nelle "bunga-bunga rooms",
ed rise. Lo avrei fiocinato quel colombiano anomalo, dalla pelle
talmente chiara che era lecito chiedersi se la mamma avesse fatto
collezione di relazioni extra coniugali con i tre quarti di stalloni
svedesi. La giornata si svolse con la noia che perforava ogni mio
poro tra un thernos di caffè e l'altro. Gli uomini strangolati da
una cravatta e le donne in bilico su tacchi a spillo si succedevano
nelle stanze. Li osservavo: quel posto non era affatto diverso da un
bordello. Entravano, mezz'ora o un'ora di amplesso, poi uscivano,
entrambi sorridenti ma uno dei due fingeva. Uno sorrideva perché
aveva appena spacciato l'inserimento di Jelly Beans frizzanti dentro
una salsiccia come la scoperta del secolo. L'altro sorrideva perché
comprando un prodotto da pattumiera era convinto di aver fatto un
buon affare. Le donne erano le più splendide in assoluto. Non
riuscivano a fingere il disappunto o la delusione, e salutavano il
malcapitato con uno sguardo che avrebbe incenerito anche Mazinga Z.
Eppure fingere in quelle circostanze sarebbe stato forse più
diplomatico...peraltro noi donne siamo avvezze a fingere una faccia
orgasmica stile Lady Godiva anche quando il piacere estremo non ci
sfiora. Oh no, ragazze, non fate quella faccia, su! Non ditemi che
non avete mai finto col vostro compagno di materasso neanche una
volta, orsù! Almeno una volta (è magari fosse solo una!) è
successo a tutte di fingere l'apoteosi dei sensi, facendoci venire la
raucedine a forza di ansimare smodatamente come se stessimo
partecipando alla StraMilano. E abbiamo tutte fissato il soffitto
pensando di ravvivarlo con una mano di vernice color pastello che si
intonasse bene con le tende. Io l'ultima volta fissai così tanto il
soffitto che mi accorsi che c'erano delle ragnatele fra il bulbo del
bastone della tenda e l'anta superiore dell'armadio. Per fortuna
avevo la tracheite e non ebbi bisogno di spolmonarmi più di tanto
nella sinfonia di vocali oh-ah-oh-ah, mentre la nemesi di Rocco
Siffredi si sperticava in acrobazie orizzontali, con l'agilità di un
toro nelle sabbie mobili. Però l'indomani comprai una scopa a punta
per le ragnatele e un chiodo; dove appesi la patata, imperituramente.
Ma queste donne erano cazzute quanto John Holmes, non avevano bisogno
di fingere, ti sparavano sul viso la loro insoddisfazione, prendevano
la loro 24 ore e si portavano dietro la loro straordinaria sicurezza
in una scia di profumo sensuale e ammaliante. No, quel posto non era
diverso da un bordello: ciascuno entrava in una stanza per comprare o
vendere qualcosa con la consapevolezza che di caldo in quella stanza
c'era solo il mio caffè. Mi avvicinai di più allo staff per cercare
di capire con che occhi loro vedevano tutto questo. Le due
receptionist erano due splendide creature, ogni volta che mi
chiedevano qualcosa era un susseguirsi di please, sorry, thank you e
apologize, nonostante mi stessero chiedendo qualcosa che era solo il
mio lavoro. Marianne era una goccia di latte con gli occhi verdi che
brillavano fino a riempire tutta la hall, scozzese, 26 anni, neo
laureata, avrei scommesso che era una di quelle bambine che da
piccola faceva il punto croce e andava al catechismo sperando di
potersi rannicchiare nell'angolo lontano della stanza mentre gli
altri intonavano un Gloria Patri, Di quelle donne che pensi che siano
state create per materializzare sulla crosta terrestre la fragilità
femminile. L'altra si chiamava Setayesh, iraniana, nascondeva male la
sua pelle olivastra sotto una corposo strato di cipria chiara. Aveva
la mia età, bella e sorprendente come un trompe l'oeil quando se ne
scopre lo spessore, e quando sorrideva sembrava che quella bocca non
potesse fare altro nella vita. Era l'unica che capivo subito e al
primo colpo: si rivolgeva a me con tutta la flemma di cui era capace,
scandiva le parole perfettamente ed io potevo finalmente capire
quando finiva una parola e ne iniziava un altra. Gli altri parlavano
velocemente ed io ero costretta a difendermi con un “Sorry?”,
loro ripetevano la frase come se stessero insegnando ad un infante a
dire m-a-m-m-a, c-a-c-c-a, p-a-p-p-a. E urlavano nel ripeterlo, come
se alzando di 3 toni la voce riuscissi a capire meglio, ignorando che
non capire l'inglese non significa essere sordi. Setayesh invece
aveva capito tutto e si rivolgeva come se il mondo non avesse fretta
e impiegava tutto il tempo necessario per dire una frase che gli
altri avrebbero liquidato in 2 secondi e mezzo. E poi c'era Dulcinea,
che era quella che aveva il turno più lungo là dentro, era l'ultima
ad andare via, ma l'aveva scelto lei e aveva diritto a tutti i break
che voleva, oltre al fatto che veniva aiutata da tutti a svolgere il
suo lavoro di “cleaner”: puliva tutto, dai vetri alla moquette,
dalle tazze del caffè alle scrivanie dei dipendenti. Quel giorno ero
particolarmente annoiata, pochi meeting e io avevo finito di leggere
anche le istruzioni per l'uso della macchina del caffè, in tutte le
lingue, ovviamente. Perciò presi un panno in microfibra dal carrello
di Dulcinea, svuotai i pensili del back office e li pulii da cima a
fondo. Quando mi accorsi che Dulcinea era sulla porta che mi
guardava, io ero impiccata su una sedia cercando di pulire l'ultimo
ripiano dove erano stipate 473 varietà diverse di ottimo the.
Cominciò a parlare, mi chiese delle cose, parlando un po' in
spagnolo, un po' italiano e un po' in inglese. Mi guardava come se
fossi lo spettro di Nessie che usciva dal pelo dell'acqua. Si
sorprese quando le dissi che ero sarda e si chiedeva come potessi
resistere in un posto come Londra, dove il sole è familiare quanto
una geisha in Vaticano. Esplose in una risata quando le dissi che mi
piaceva studiare. La guardai bene in quella risata e mi accorsi che
le mancavano due incisivi nell'arcata inferiore e un canino in quella
superiore. Quasi avesse intuito la traiettoria dei miei occhi si mise
una mano sulle labbra e disse che non rideva quasi mai perchè le
mancavano dei denti. Mi sentii colpevole come se avessi rubato un
gelato ad un bambino, cercai di dirle che non era importante, che era
comunque bellissima (il ché era vero) e mi disse che li avevi persi
per via dell'ex marito. Aveva divorziato dopo l'ennesima lite dove
lui l'aveva presa a pugni facendole cadere tre denti, spaccandole il
naso e altre cose che non capii. Mi sentii come se avessi avessi
fatto cadere un litro di sangue sopra un tappetto immacolato. Restai
in silenzio, tenendomi dentro una valigia ingombrante di parole in
italiano, senza riuscire a tradurle in un suono che somigliasse
all'inglese. Se ne accorse ed esplose in un'altra risata, senza
coprirsi la bocca, rovesciando la testa all'indietro come se quella
risata contenesse la potenza di un geyser, che esplode
fisiologicamente, perchè è necessario che esploda. Mi disse che era
tutto finito, che ormai non le faceva più male, che aveva un
compagno qua a Londra, che stava bene. Don't worry darling, disse, ho
fatto bene ad ablar con tu, tu comprendi me, tutto perfecto e io
contenta. E se ne andò ringraziandomi per svolgere anche una parte
del suo lavoro (una parte infinitesimale, aggiungo io), trascinando
con se la sua gonna scozzese, la camicia stretta su un seno
prorompente, pronto a esploderle sul collo se non avesse tenuto
aperti i primi due bottoni. Svolazzava col suo carrello da infermiera
in quel corridoio lungo e bianco, canticchiava, ondeggiando con la
testa, quasi volesse buttare dietro di se una storia infelice. E del
resto è prerogativa delle donne fare dell'amarezza un fardello da
legare stretto con lo spago di un sorriso, e buttarselo alle spalle,
così come facciamo con un foulard annodato male. Avrei voluto
scoprire altro di quel posto, le storie che si celavano dietro quel
velo di ovatta, scoperchiare tutto per scoprire che dietro una
splendida facciata esistono anche lacrime e tristezza, ma quello era
il mio ultimo giorno di lavoro. Smontai la macchina del caffè: i
meeting alle 19 finiscono e i businessman finiscono il loro lavoro.
Alcuni di essi li puoi rivedere all'uscita, seduti al pub
dell'angolo con una pinta di birra grande quanto una cisterna, con la
cravatta legata in vita, come se quella presunzione fosse rimasta
incollata alle pareti di una meeting room chiamata Florence. In quel
posto non potevi mai accorgerti che qualcuno entrava o passava
davanti al back office del caffè: era tutto coperto da uno strato
gigantesco di moquette color pantegana che attutiva ogni rumore. Se
Dulcinea avesse rovesciato il suo carrello di tazze e cristalli su
quella moquette soffice, avrebbe fatto più rumore la sua risata che
il fragore del vetro. E così mentre avvolgevo il filtro della
macchina in un canovaccio immacolato e asciutto, sentii un colpo di
tosse alle mie spalle. Che cazzo, pensai, in questo posto non potrei
mai scaccolarmi in santa pace, mi ritroverei qualcuno dietro a
contare la consistenza delle mie secrezioni nasali. Era Setayesh
“Sorry...darling, would you be able to please work till the rest of
the week for us?” Questo è quello che riuscii a capire, forse, ma
non ne sono certa. Però capii il senso e dissi Yes, sono available.
Lavorare per il resto della settimana...yes, ok. Avrei voluto
chiederle perchè. Perchè anche il resto della settimana? Non doveva
tornare la ragazza? Stava male? Mi stavo traducendo le parole da
dirle ma lei mi spiegò che la ragazza stava ancora male e che
sarebbe tornata la settimana successiva. Mi disse che piacevo a tutti
(a tutti...chi?? E perchè??) e che mi ringraziavano tantissimo per
l'aiuto che stavo dando (ma quel posto ruotava intorno ai miei
caffè?? Ma anche no!) e che era felice di vedermi l'indomani (manco
fossi Camilla, che tutti la vogliono e nessuno la piglia). Dissi
solo thank you. E basta. Mi guardò come se volesse togliermi la
faccia da imbecille che avevo indossato per l'occasione e mi disse
“your smile...”...eh?! che cosa ha il mio smile? Il mio sorriso
piaceva a tutti, era quella la mia forza, disse, e se ne andò col
suo impermeabile nero e la cartella che le danzava a fianco. Che
cazzo ha il mio sorriso?! Presi il thermos argentato del caffè e mi
specchiai nel coperchio: ho un sorriso da imbecille, ho anche gli
incisivi un po' distanti, forse anche troppo grandi, ho un sorriso
cazzaro che quando lo vedi pensi che appartenga ad una cretina
integrale, senza conservanti. Uscii contenta per non so quale
ragione, o forse solo perchè quel posto era una fucina di storie e
un susseguirsi di scoperte, ed io sono avida di vita vera. Incontrai
al secondo piano Dulcinea, chiusa dietro la porta a vetri che passava
il Vetrill col Financial Times, si appese a un'anta e mi urlò che
non ero più “la ragazza del caffè” ma ero diventata “la
ragazza italiana sorridente” e mi salutò sventolando il foglio del
giornale. Ero contenta: nonostante il cambiamento, il salto enorme
che avevo fatto nel venire in questa giungla di metropoli, non avevo
perso quella cicatrice assurda che contraddistingue il mio volto: il
sorriso. E me lo portai a spasso nella strada che mi portava alla
Tube, pensando che in fondo questi denti irregolari e queste labbra
sono sempre stati i miei migliori compagni di viaggio. E non mi
importa se a volte piango: ogni sorriso va innaffiato di lacrime per
poter crescere al meglio. Quella sera, sorridendo, tolsi un chiodo
dal muro e cucinai patate.
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