lunedì 17 febbraio 2020

Ritrovarsi in Portogallo quasi per caso

Come può succedere che uno prepara tutto nei minimi dettagli per andare in Thailandia e si ritrova in Portogallo? Può succedere se decidi di viaggiare ai tempi del Carogna Virus! In breve: la mia compagna di viaggio prende la bronchite febbrile a 2 giorni dalla partenza in Thailandia, giusto quando il governo thailandese ha deciso di misurare la febbre anche ai moscerini che entrano nel loro suolo. Ergo, per non rischiare la quarantena in qualche hangar dell'aeroporto, abbiamo annullato il viaggio. Finiti gli antibiotici è finita la febbre, e decidiamo di partire...nel giro di 24 ore. Stamane all'alba siamo partite per un viaggio di 12 giorni in Portogallo, senza programmare NIENTE: mai scelta fu più azzeccata!! Arrivo all'aeroporto di Faro, in Algarve, noleggio un'auto e via, on the raod. Anzitutto ho fatto un giretto a Faro e mi accorgo che ci sono più italiani qua che a Pontida: in ogni angolo c'è qualcuno che parla italiano, mi rendo conto però che sono tutti di una certa. Come si spiega questo fenomeno? Dopo infinite ricerche (in realtà un italiano incontrato in aeroporto) mi rendo conto che qua è pieno di pensionati italiani che vengono a godersi la pensione sulle rive dell'Oceano. Motivo: ricevono la pensione italiana e non pagano le tasse. Ci sono anche delle agenzie italiane che si occupano di questo, insomma è un business. A venire qua in genere non è l'operaio con una pensione miserabile ma coloro che ricevono una buona pensione. Mentre li guardavo mi sono venuti in mente i versi del buon Guccini "e andate chissà dove per non pagar le tasse col ghigno e l'ignoranza dei primi della classe", ma tant'è: sono vecchietti abbronzati che si godono la vita, ad maiora! Sono andata fino ad Olhão dove ancora le persone giocano a carte e a bocce per strada a pochi metri dal mercato del pesce, ho fotografato le barche sotto una bella luce, ho passeggiato nei vicoli e poi sono rientrata a Faro. 
Mi sono persa nel tramonto di questa città che sa di gente di passaggio e pesce fritto; ho cenato in una Tasca che sapeva di buono e famiglia; ho passeggiato fra i tavolini all'aperto, fra musica delicata e bicchieri di vinho verde e infine sono tornata in hotel.
 Domani si riparte ma io so già cosa mi porterò dietro: il volto bruciato dal sole del pescatore di Olhão che guardava i passanti con tenerezza, ché di quella fretta lui non sapeva che farsene. Ed io neanche: qua c'è tempo per tutto, anche per sorridere delle miserie e delle vittorie effimere. 

domenica 9 febbraio 2020

La sagra delle mascherine.

Per la prima volta nella mia vita ho programmato un viaggio con largo anticipo: a settembre 2019 ho prenotato un volo per la Thailandia. Prima del 23 gennaio ho persino prenotato un volo interno da Chiang Mai alle Phi Phi Island, con tanto di trasporto via mare verso le famose isole. E ho anche prenotato un hotel in NonSoDove, comunque una località meravigliosa dove avrei dovuto passare due notti. Ecco, sicuramente ho risparmiato abbastanza ma forse forse...no. Perché ovviamente a fine gennaio doveva esplodere questa tragedia mondiale del Coronavirus. Sono sempre stata molto fatalista, e lo sono ancora: potrei morire domani mentre vado a lavoro o campare fino a cent'anni, ma tutto ciò non posso programmarlo né prevenirlo. Sono però consapevole che viaggiare in questo periodo non è proprio una passeggiata a Villa Pamphili. Pertanto da fine gennaio ho cominciato a documentarmi su questo Carogna Virus: ormai apro le pagine dell'OMS e della Farnesina con più frequenza del cassetto delle mutande. Con l'esplodere di questa psicosi mi sono documentata sulle mascherine ffp1, ffp2, ffp3 e ffpfanculo4 che potrei esporre una tesi sull'argomento, certa di ricevere anche un bacio accademico. Riguardo il gel a base alcolica per le mani ormai conosco tutto, anche il fatto che acqua e sapone sono più efficaci. E poi ho fatto una stupidaggine epica: ho sbirciato qualche pagina dei social network sull'argomento. Ecco, quando un velo impalpabile d'ansia ricopre i tuoi pensieri, mai, e dico MAI, andare a leggere Facebook, Twitter o simili: ti danno la spinta necessaria per buttarti da un dirupo. Dopo qualche ora di lettura su Facebook sono uscita di casa anzitutto con un senso di nausea profondo più della Fossa delle Marianne, e anche con l'indirizzo di tutte le ferramenta della zona. Sono rientrata con una scorta di mascherine da far invidia agli operatori che smaltiscono l'amianto, ma soprattutto con il borsellino più leggero, come se avessi acquistato una partita di diamanti.
Quando ho cominciato a pensare all'utilità di una tuta da astronauta a tenuta stagna mi sono fermata e ho pensato che forse non era il caso di fare questo investimento. Mi sono posta la domanda: partire o non partire? Ho concluso che il 14 febbraio partirò comunque, con la mia scorta di mascherine, gel per me le mani, sapone, salviette, guanti e la macchina fotografica. Ho pensato che la maggior parte dei miei amici sono morti di incidente stradale ma ciò non mi impedisce di usare l'automobile, semplicemente uso più prudenza, anche se questo non mi preserva da un pazzo che viene contromano. Ho pensato di poter usare la stessa prudenza anche in questo viaggio, che no, non mi garantisce l'immunità dal Carogna Virus, ma almeno mi consentirà di volare verso un luogo sconosciuto, di scoprire orizzonti nuovi e catturare foto e sorrisi...nascosti dietro la mascherina. E questa voglia è più forte della mia paura del contagio. Confido nel fatto che sarei poco gradita anche all'inferno, quindi comprerò anche un paracadute: che almeno la discesa sia lenta e possa godermi il panorama!
PS: qualcuno di voi ha mica una maschera GP-5? Quella antigas russa per intenderci...perché quella mi manca per completare la collezione!

domenica 2 febbraio 2020

Le mie radici di pane e vizi

Sono a Casa, quella maiuscola, che risponde al nome di Sardegna. Ed è in quest'isola ruvida e calda che ritrovo le mie radici, e soprattutto quella Donna immensa che è la mia mamma. Stamattina hanno suonato alla porta e ci hanno portato "s'elemusina": in italiano è facile tradurlo in Elemosina ma il concetto non è quello della beneficenza. Fortunatamente godiamo di un buon tenore di vita ma il significato di questo gesto sardo si perde nella notte dei tempi. Ha radici religiose: la famiglia di un defunto donava ai poveri del cibo affinché pregassero per l'anima del loro caro. Un'opera buona agli occhi di Dio, in nome e per conto del defunto, e le preghiere dei poveri dovrebbero essere quelle più ascoltate. Oggi questo genere di poveri non ci sono più nel mio paese sperduto e questa tradizione ha assunto valenza sociale. I miei genitori lo fecero per mio fratello, l'anno successivo alla sua scomparsa e il significato tradizionale ora è più allargato: la famiglia del defunto dona del cibo a parenti e amici, affinché tutti ricordino e continuino ad amare il loro caro scomparso, come se quella persona fosse ancora in vita e regalasse qualcosa di suo, del suo lavoro, a tutti coloro che lo hanno amato. Un modo affinché non vada persa la memoria perché tutti meritiamo di essere ricordati per ciò che abbiamo fatto. "S'elemusina" che è arrivata oggi era quella di mio nonno e mia nonna. Fra tutte le varie terre in loro possesso, c'era anche la rocciosa collina di fronte a casa: è un costone verde e dolce, con linee sinuose come quelle di mia nonna, dall'aria imponente come quella di mio nonno. Alla morte dei miei nonni i figli decisero di darlo all'Ente forestale affinché continuasse a curare quella collina, dove mio padre e i suoi fratelli impararono a sorvegliare le capre, raccogliere mirto e mangiare bacche di corbezzolo. 
I soldi che se ne ricavano in un anno di affitto sono irrisori, nessuno di noi ha bisogno di quelle poche monete quindi hanno deciso che con quei soldi si fa "S'elemusina" dei miei nonni e la distribuiscono a tutta la famiglia e agli amici stretti affinché possano essere ricordati. Non siamo pochi in famiglia visto che mia nonna ha partorito 12 figli e che i miei cugini di primo grado da parte di mio padre ammontano a 36, i quali hanno generato un numero impressionante di figli che sono tutti miei nipoti (credo una cinquantina). Quindi oggi un paio di cugini/e si sono occupati della distribuzione del cibo, de S'elemusina, un po' come se i miei nonni ci avessero mandato un regalo. Sul tavolo di casa è arrivato un sacchetto con una confezione di caffè e una di zucchero, una confezione di biscotti e due corone di pane. Sono atea e non bado molto alle radici cattoliche di questa tradizione, apprezzo però la valenza umana di questo gesto: oggi vado a pranzo dai miei nonni. Oggi sul tavolo c'è il pane che abitualmente faceva mia nonna: il ricordo più vivo che ho di lei la ritrae mentre impasta il pane, lei che era così piccola e stava su uno sgabello di legno per arrivare al tavolo e riuscire a domare quella montagna di morbida fragranza. E mi chiedeva di aspettare, ché per me c'era sempre qualcosa di buono, io che ero "s'alipedde mia!", il mio pipistrello, sempre svolazzante sulla testa di tutti. 
Oggi sul tavolo ci sono i "vizi" che mi regalava nonno, lui e le sue mane screpolate, callose e deformate dal lavoro della terra, che frugavano le tasche per cercare le monetine, le metteva sul mio palmo e "vai a comprarti un vizio!", "unu vìsciu" in sardo: caramelle, biscotti e cose che per lui erano sconosciute, ma noi eravamo bambini e a noi dava ciò che lui non aveva mai potuto avere da bambino.
Ecco, sono queste le mie radici, quelle che mi porto dietro in ogni angolo di mondo che calpesto. Sono quelle che non dimenticano e che si nutrono di riconoscenza, me le hanno regalate delle persone semplici, come i miei nonni, che non avevano mai ricevuto carezze e vizi nella loro infanzia ma hanno imparato a riceverle e a darle da quella mandria di nipoti che invadevano quotidianamente la loro casa. Le mie radici sono quelle che mi ha regalato mia madre, piccola e curva sul suo uncinetto, a tessere trame e storie per coprire le brutture del mondo, e quelle di mio padre, figlio fragile che finge di essere forgiato d'acciaio. Sono le radici della mia terra, Madre che mi ha lasciato andar via consapevole di avermi donato il meglio di sé: il bisogno di ritornare sempre nel suo grembo, quella dipendenza calda e pulita dai colori del suo mare, dal profumo di cisto e ginepro, dalle mani consumate di mia madre, dal suono della lingua sarda e dal sapore di questo pane, l'unico che riesce a commuovermi e saziarmi.

mercoledì 22 gennaio 2020

Viaggiare nudi è bellissimo

Questo blog è nato come diario di viaggio: se guardo i primi post mi rendo conto che tutto nacque dal mio trasferimento a Londra e dal piacere di condividere le mie storie nella perfida Albione. Da quell’esperienza londinese nacque poi un libro ma ciò che conta è che da allora questo non è stato più un diario di viaggio bensì un diario personale dove ho condiviso i miei incidenti di percorso. Ma ogni viaggio che si rispetti ha i suoi rallentamenti, e così nella cornucopia dei miei buoni propositi del 2020 ho messo anche quello di ritornare ai miei racconti da vagabonda, con quella che è stata la mia prima tappa di questo nuovo anno: la Puglia! Ho scelto di tornare nel tacco dello stivale perché volevo che fosse il mare ad accompagnare la fine del vecchio anno e l’inizio di quello nuovo. Da circa un anno condivido il mio girovagare con una compagna di viaggio ed è con lei che sono atterrata all’aeroporto di Bari, all’alba del 30 dicembre. Ho scelto di spostarmi con i mezzi pubblici e quando l’ho detto agli amici sono inorriditi “In Puglia coi mezzi pubblici?!? Scherzi?? Impossibile! Al Sud i trasporti non funzionano...è una tragedia...e solo quando c’era lui i treni arrivavano in orario e noleggia una macchina e prendi una navicella spaziale e fai il cammino di Santiago...” e varie ed eventuali. Ma io sono ostinata e caparbia pertanto mi sono spostata coi mezzi pubblici e dal 30 dicembre al 3 gennaio ho visitato Matera, Altamura, Monopoli, Cisternino, Martina Franca, Locorotondo, Alberobello e tutta Bari, compresa Bari vecchia, solo ed esclusivamente con i mezzi pubblici. Se i treni erano puntuali? No, come del resto non lo sono a Milano o a Trieste. Se è stato difficile? Si, come lo è a Bologna e a Roma. Per viaggiare in Puglia basta districarsi fra le diverse linee ferroviarie di Trenitalia, Ferrovie del Sud Est, Ferrovie Nord Barese, Ferrovie Apulo Lucane e non so cos’altro, ma chissenefrega, sei in Puglia e te ne freghi, e se il treno da Locorotondo ad Alberobello è in ritardo di mezz’ora per me è solo l’occasione per fare una foto in più e mangiare 4 taralli. Da viaggiatrice non mi permetto di giudicare i trasporti di un paese in 5 giorni, credo che i pendolari abbiano più diritto e ragioni di me di lamentarsi o elogiare le infrastrutture di una regione. La differenza sta nell’affrontare il viaggio. Ho detto viaggio e non gita turistica, e vi faccio un esempio. Volevo andare a Cisternino, vedo che Trenitalia fa delle corse da Bari centrale fino alla stazione di Cisternino, che meraviglia, partiamo! Scendiamo a Cisternino e mi rendo conto che insieme a noi c’è una coppia con accento francese. Esco dalla stazione  e...mi rendo conto che di fronte a me c’era il niente, il vuoto, il nulla eterno. La coppia si era già dileguata con passo deciso nell’unica strada presente, io rimango a guardare i dintorni: un negozio di mangimi e granaglie, una lussuosa dimora di un avvocato con la targhetta dorata alla porta. E basta. La mia compagna di viaggio tramite Google Maps si rende conto che noi siamo un puntino turchese lampeggiante in mezzo ad una landa sperduta e che Cisternino dista a circa due ore a piedi, essendo a 8 Km dalla stazione. Mi guardo intorno e vedo un adesivo sbrindellato con la pubblicità di un Taxi, senza esitare lo chiamo. Mi risponde un signore che no, non era in servizio ma si, sarebbe venuto a prenderci perché “sa quanti ne capitano in estate? Pieno di turisti che arrivano e non sanno che la stazione giusta è quella di Cisternino Città, ma lì ci stanno le Ferrovie del Sud Est, mica Trenitalia!”. Ah beh, ok, aspetto il Taxi, ne approfitto per osservare il negozio di materiale agricolo: notevole, davvero notevole. Arriva il taxista, mi informa che la tariffa si aggira sui 25 euro. Ok, saliamo in macchina. Dopo la prima curva troviamo la coppia con accento francese, chiedo di fermarsi ché quelle povere anime certamente non sanno che devono farsi due ore di camminata per giungere alla meta! Appena apro il finestrino la signora si inalbera e si pone sulla difensiva “non abbiamo bisogno di niente! Non siamo stranieri!”. Il taxista parla uno stentato inglese col marito, il quale risponde in francese mentre la moglie parla con me in italiano: le comunico che Cisternino è a 8 km e che sono necessarie due ore di camminata. La signora inorridisce e si incazza maledettamente col marito “perché non hai guardato bene?! Avevi detto che c’eri già stato!” e prosegue con una serie di improperi dei quali capisco solo “merde”. Con la R moscia. Fa niente, salgono in macchina, il marito davanti e la signora dietro che comincia a inveire: incazzata come una biscia calpestata da un carro armato T-34, si giustifica dicendo che lei è italiana, vive vicino a Sestriere circa, il marito è francese ed è molto incazzata perché cercano sempre di fregarli in quanto stranieri “siamo italiani, noi siamo italiani e viviamo in Italia!”. Ok, la tranquillizzo, siamo tutti felici di essere italiani, va bene? E allora si sbottona: è incazzata perché il marito l’ha portata in Puglia e comincia a sputare addosso alla Puglia “mio marito mi ha detto che qua si sta bene perché c’è sempre caldo, invece non è vero! Fa freddo! Freddo! Sono tre giorni che mi sto congelando, non ce la faccio più! Mio marito vuole venire a vivere in Puglia per la pensione ma io non ci vengo, in Puglia fa freddo, e io ero convinta che facesse sempre caldo! Io qua non ci vengo, non mi piace, non è possibile vivere qua, che schifo!”. Io guardo il taxista che sta ascoltando e osservando tutto dallo specchietto, ho il TERRORE che si fermi e ci faccia scendere in mezzo alla statale, tutta curve e salite, dicendo “adesso scendete e tornate a piedi al vostro Norde!”. Invece ingoia il rospo e cerca persino di giustificarsi “eh si...un pochino fa freddo...ma è solo questi giorni...”. La signora si incazza ancora di più, dice che vuole un posto caldo, mi chiede se in Sardegna faccia sempre caldo perché valuterebbe di andarci a vivere per la pensione, rispondo che no, fortunatamente abbiamo ancora il maestrale, talvolta piove e in alcune parti persino nevica. Rimane delusa “no, allora niente! Voglio un posto che fa sempre caldo!”, la mia compagna di viaggio soavemente risponde “mia zia ha trovato la soluzione andando a vivere a Sal...”, la signora si illumina “ah si?! Sal?? E dov’è? È molto distante?”, intendendo distante dalla Puglia. La informiamo che Sal si trova in Africa, la signora di Sestriere inorridisce, espressione delusa e schifata e rimanda “ah no, in Africa no!”, e ci chiede dove viviamo. Con entusiasmo rispondiamo “in Piemonte!”: lo facciamo col sorriso perché anche la signora abita in Piemonte e crediamo di aver trovato un punto di unione...macché! Schifata ci risponde “ah ecco! Il Piemonte, che schifo! Bello solo per andarci in vacanza, uno schifo viverci, uno schifo proprio! Freddo, piove sempre, umido!”. E io a quel punto invidio l’aplomb del taxista che ci ha portato a Cisternino senza batter ciglio, senza neanche aver rallentato in una curva per scaraventare fuori la signora e il suo codazzo, e io che invece avrei voglia di urlare “MA ALLORA VATTENE A VIVERE A FANCULO CHE LÌ C’È SEMPRE CALDO!”, ma eravamo già arrivati. Il taxista accosta, guarda il tassametro e dice “sarebbero 28,50...ma facciamo 25, così se lo dividete vi viene un poco di meno a testa...”. La signora non fa una piega “ah noi paghiamo eh, noi paghiamo la nostra parte eh, paghiamo!”, consegniamo al gentilissimo taxista il dovuto, io elargisco anche un GRAZIE gigante in confezione regalo, con bacio accademico per la pazienta e virtù da lui dimostrata nel tragitto, e ci congediamo.
Perché vi ho raccontato questa storia? Perché il senso del viaggio non è trovare il difetto o il pregio del luogo in cui vai ma significa godere di ciò che trovi, farne la tua ricchezza, sorridere di fronte agli imprevisti e anzi, fare in modo che questi siano l’occasione per una risata. Sarebbe meglio partire con una valigia vuota e completamente nudi affinché ci si possa vestire e nutrire di ciò che il viaggio ci offre, e raccogliere le sorprese come delle gemme preziose e rare. Se vai a Milano per giudicare la sua nebbia e il suo caffè, sarebbe meglio che tu rimanga a casa perché non potrai mai scoprire la bontà del risotto giallo e la bellezza poetica dei Navigli. Se vai in Piemonte per lamentarti del freddo e della gente sgarbata, sarebbe preferibile rimanere a casa della nonna perché non potrai mai scoprire che in Piemonte ci sono anche delle isole, che devi prendere il battello per andarci e la gente basta solo guardarla dalla giusta prospettiva per scorgerne il sorriso. E se vai in Puglia e ti aspetti il sole cocente a gennaio non potrai mai apprezzare il vento tagliente che ti scompiglia i capelli portando con sé tutti i profumi di quel coriandolo di mondo; e mentre chiacchieri con la signora di Bari vecchia che ti fa assaggiare un tarallo dolce pensi che il freddo in fondo leviga tutto, anche il dialetto pugliese che diventa morbido e liscio come la neve di Bormio. È necessario cogliere sempre il lato comico, buono e costruttivo degli eventi, anche nelle situazioni più disperate e tragiche: solo così ci si salva, nella vita come nei viaggi. Ché una caduta può essere l’occasione per imparare a camminare meglio, una ferita puoi cucirla così bene da farne un ricamo, e il freddo intenso è bellissimo perché ti spinge ad abbracciare più forte chi ti sta a fianco per avere un po’ del suo tepore.
Ma infine: Cisternino è un bellissimo paese, un bijoux, e allora godetevelo e non scartavetrate i ¾ di gonadi, ché il freddo e una stazione deserta non potranno mai scalfire la Bellezza della Vita. 

giovedì 31 ottobre 2019

La resistenza di una pervinca mascherata da cactus

Mia madre è una romantica creatura convinta che le brutture della vita si possano sconfiggere con la Bellezza. Anche nei periodi più difficili della sua vita la ricordo impegnata nella sua opera di umana resistenza: china sul suo uncinetto a tessere trame colorate, infornare teglie di fragranti dolci o in giardino a curare i suoi fiori. Sono cresciuta con una mamma accudente e premurosa che riusciva a curarsi di noi ma anche delle cose che la circondavano. Il nostro giardino è sempre stato colmo di fiori: un insieme armonico di colori e differenze dove convivevano piante esotiche e ruspanti margherite, e noi bambini abbiamo sempre usato steli, germogli e ramoscelli per giocare, con conseguenti sculacciate pedagogiche di mamma, ché “le piante non si rompono! Ti piacerebbe se ti tagliassero un braccio, eh?!?!”. Il 28 ottobre ero in Sardegna, eravamo sole, io e lei; al pomeriggio ci sarebbe stata la funzione religiosa per la commemorazione dei due anni dalla scomparsa di mio fratello. Improvvisamente dice “devo mettere ordine nei fiori...mi aiuti?”; io l’ho guardata con sorpresa e apprensione: sono talmente rare le volte in cui quella donna stoica chiede aiuto che mi sono chiesta se davvero non fosse il caso di portarla al Pronto Soccorso d’urgenza. Quindi sono uscita con lei: con meticolosa razionalità mi disse che era necessario spostare delle piante da una parte all’altra della veranda “...perché arriva l’inverno e qua metterò la legna per il camino...”. Seguendo le sue indicazioni ho spostato enormi vasi da destra a sinistra finché il giardino non ha avuto il risultato che lei desiderava. Certo, ci sono stati dei momenti in cui mi sono sentita utile quanto un ventilatore nella Baia del Commonwealth, ad esempio quando mi ha chiesto di spostare la vecchia ruota di un carro a buoi, con funzione meramente ornamentale. L’ho sollevata e cercavo di spostarla con tutto il suo peso: mai avrei immaginato che una ruota di legno fosse così pesante ma soprattutto non sapevo che fosse ricoperta di ferro battuto. La trascinavo con la fronte imperlata di sudore, mia madre mi ha guardato sgomenta e ha esclamato “scusa ma...perché non la fai rotolare? È una ruota!”, mi sono fermata e sulla difensiva ho ribattuto “beh, non volevo sciuparla...”. Mia madre è di poche parole e ha concluso “è una ruota del carro di tuo trisnonno, credo risalga alla prima guerra mondiale...” e i sottotitoli di questa frase erano “figlia imbecille, quella ruota è sopravvissuta a due guerre, anche tuo padre è salito su quel carro, non credi che possa rotolare per altri 5 metri?!”. A lavoro ultimato lei si è messa a raccogliere foglie e terriccio, io ho dato uno sguardo intorno e mi sono resa conto che quel giardino era cambiato in maniera disarmante. Ho chiesto “mamma, dove sono finite le tue ortensie?”, ha risposto “sono morte”; “e le dalie?”, “morte anche quelle”. Nel giardino c’erano quasi esclusivamente piante grasse o semigrasse, quelle che hanno bisogno di poca acqua e poche cure, e in questo ho visto un segno della sua resa. Le ho fatto notare che le piante grasse sembrano noiose, non fioriscono e non sono colorate; mi ha risposto che no, le piante grasse erano semplicemente più autonome, che necessitavano di poche e semplici cose, ma non era vero che non fiorivano “si fanno solo attendere, a volte fioriscono una volta l’anno, altre solo una volta nella loro vita, ma quando lo fanno sono straordinarie, i loro fiori sono meravigliosi”. In quel giardino verde e spinoso in fondo non c’era la sua sconfitta ma il suo cambiamento. Mi ricordo che un giorno, durante la malattia di mio fratello, mi disse “vai a innaffiare la pervinca?...mi è sembrata sofferente”. Il mio primo pensiero è stato: come fa a pensare alla sofferenza di quella pianta quando dentro casa abbiamo quintali di sofferenza e dolore? me lo disse mentre frullava il cibo per mio fratello che doveva essere poi imboccato. Uscii fuori, presi la canna da giardino e...dov’è la pervinca? Com’è la pervinca? Sarà gialla, rossa o verde? Nel dubbio aprii l’acqua e bagnai tutte le piante, probabilmente generando la morte di qualcuna. Col tempo mia madre è cambiata e così anche il suo giardino: non ha più le forze per accudire le piante, tutta le sue attenzioni le ha esaurite su quel figlio al quale è sopravvissuta, perciò ha scelto delle piante che possano sopravvivere anche quando lei non ha cure da offrire. Lei non è morta però è cambiata e quel giardino è semplicemente il suo specchio: la vita l’ha portata a proteggersi, quelle spine sono una difesa ma anche una selezione, ché solo chi sa attendere la bellezza dei suoi colori può avvicinarsi a lei. Si è prosciugata in questi anni, ha dato tutto e ora si circonda di piante che necessitano di poco, quasi autonome, che riescono a vivere anche senza la sua presenza, ormai così scostante. Ho fatto il giro del perimetro della casa, come se volessi trovare ancora qualche traccia di colore, qualcosa che mi ricordasse quella donna orgogliosa di mostrare le sfumature dei garofani e delle rose. E l’ho trovata: una pervinca è cresciuta fra il cemento e un pilastro di granito, senza terra, senza acqua, spuntando fuori da un minuscolo pertugio, in mezzo alle avversità. Le ho chiesto “e questa?! com’è possibile??”, lei ha sorriso “quella per sopravvivere fa finta di essere un cactus!”. Perché la vita talvolta la devi ingannare, devi camuffare la tua fragilità per sopravvivere. A me però piace pensare che quel fiore colorato sia comunque il frutto di mia madre: ha seminato tanto e bene, e ora quel fiore le rende il suo tributo, sopravvivendo nonostante intorno sia tutto arido e spinoso. E poi chi l’ha detto che un cactus non possa avere i fiori della pervinca?

lunedì 30 settembre 2019

Dei viaggi che non finiscono mai


Un anno fa iniziai un viaggio: era settembre 2018 e mi trovavo a Bologna. Probabilmente ero di fronte al Nettuno o dentro una camera d'albergo di infima categoria, e sfogliavo la galleria delle mie foto: dal 2016 al 2018 avevo scattato circa 300 foto, e per chi come me vive bramando il suono dell'otturatore e la magia del tocco sul pulsante di scatto, quel numero di foto era davvero irrisorio. Erano stati due anni drammatici e dolorosi: mia nonna diceva che quando "su male" (il male) entra nella tua casa non c'è più pace. In lingua sarda raramente il cancro viene chiamato col proprio nome: se ne ha quasi pudore o paura, viene identificato con quell'articolo davanti che ne determina la portata, l'entità e il suo essere imperioso su tutti gli altri mali. Quando mio fratello ne venne colpito aveva un anno meno di me: 46, e non giunse a compierne 50. In quegli anni imparammo tutti la nostra fragilità, la caducità della nostra esistenza e l'ineluttabile epilogo di fronte ad una lotta impari. La qualità della mia vita la misuro dalle immagini che riesco a catturare, dalle parole che scrivo e dai chilometri che percorro nei miei viaggi. In quei due anni le mie foto, senza luce e prive di emozioni, erano relative ai viaggi al Gemelli, alle strade caotiche di Roma e ai voli per la Sardegna; alle foto di Jons che sorrideva, nonostante tutto, di fronte ad una nuova inutile scoperta, che ci stringeva le mani e ringhiava con forza contro la sua sorte. Nei miei diari quasi vuoti, le mie parole erano scarne e monotone, impotente di fronte a qualcosa che inevitabilmente finiva. E dopo la fine, niente è stato più come prima: tutto si è rotto, come un'opera d'arte che è stata deturpata e si è frantumata proprio fra le mie mani. Bologna è stata la mia salvezza: con le sue note vibranti nell'aria, il tumulto di giovani speranzosi seduti sotto i portici a dileggiare il potere, con le scritte rivoluzionarie e l'odore di cibo buono, Bologna mi ha dato uno schiaffo impalpabile e potente come la dinamite. Ho spalancato le braccia e ho lasciato andar via quel dolore che mi tenevo stretta come un feto privo di vita che lentamente stava corrodendo la mia esistenza. Perché infine ci si aggrappa a quel dolore, ti tiene compagnia, come se quella carne che ti hanno strappato ingiustamente fosse ancora lì, ed è l'unica cosa che ti rimane, non vorresti separartene mai. Ricordo che quel giorno scattai qualche bella foto e fu bello abbracciare delle persone: perché alla fine si risorge, è necessario, istintuale e doveroso. Da allora ho sfiorato tanti orizzonti, ho volato tanto, perso e preso svariati treni e percorso molte strade, ma sarei potuta rimanere fra le mura della mia casa che questo viaggio avrebbe avuto lo stesso risultato, perché il viaggio più importante è stato quello del mio cambiamento. Questo percorso è stato imprescindibile e se mi guardo indietro ne colgo il senso pieno, straziante ma anche di meraviglia: l'odore delle medicine e della putrefazione che senti anche a distanza di anni, le immagini che all'improvviso ti passano davanti e ti riportano indietro alle notti di veglia, al letto madido e a quel corpo che ogni giorno si scarnificava fino a diventare un velo di pelle sopra uno scheletro invaso dalla malattia; ma anche la bontà delle persone, gli amici, i sorrisi, le carezze e quelle mani che ogni giorno mettevano un punto di sutura alla mia ferita, fino ad arrivare a cauterizzare quella lacerazione. È passato un anno da quel giorno a Bologna e ho deciso di andare in Sardegna, dove tutto è nato e tutto ha avuto termine, come se fosse il giusto epilogo di questo viaggio che ha graffiato ma anche levigato la mia pelle.
E ho capito che questo viaggio non avrà una fine, che continuerò a sorprendermi di fronte al mare, a sorridere e abbracciare le persone che incontro e a portarmele dentro come una ricchezza, a piangere di fronte all'ingiustizia, a sperare guardando dei ragazzi suonare una chitarra e urlare nelle strade, ma soprattutto a meravigliarmi di fronte all'amore e alla Vita. Ché questa fottuta esistenza è davvero un bene prezioso, è una fortuna essere qua a sentire il vento fra i capelli, non sprechiamone neanche un goccio e beviamone dei grandi sorsi finché avremo quella sete sana e primitiva di un sogno vitale.
E grazie a tutte le mani che mi hanno stretto in questi anni: in cambio ho solo questo disarmante e forse stupido sorriso da regalarvi. E se ora guardo quell'enorme cicatrice, mi sforzo di vederci un bel ricamo che ogni tanto mi farà piangere ma infine sarà comunque bello accarezzarlo e sorridere.

Il vero viaggio è quello che non finisce mai: ho ancora qualcosa da dare, molto da dire e tante impronte da lasciare.

mercoledì 17 febbraio 2016

Rabbia civile in un paese incivile

Mai come oggi mi sono vergognata della politica italiana. Lo schifo andato in onda oggi al Senato sulle unioni civili mi fa salire un rigurgito acido che ucciderei un rinoceronte del Borneo con un sospiro. E i bigotti ad esultare, ché anche oggi hanno salvato la loro famiglia da Mulino Bianco piena di croissant e corna. Ma a VOI cosa tange delle unioni civili? Cosa vi toglie? Io non scendo in piazza a fare le barricate affinché i matrimoni debbano durare finché un Giuliano Ferrara non passa nella cruna di un ago, non voglio togliervi il vostro diritto da sepolcro imbiancato di unirvi felicemente in matrimonio e poi mettervi le corna, altrettanto allegramente, e poi divorziare, alla faccia del vostro Dio, e poi andare sulla Salaria a raccattare buona compagnia notturna. Non me ne fotte una beata fava della vostra famiglia, anche se vi ricordo che quando parlate di famiglia tradizionale non è contemplato il divorzio, a meno che non si tratti di liberare Rosita dall'obbligo di cagare uova per i vostri cornetti. A VOI non dovrebbe fregarvene una mazza delle coppie gay semplicemente perché non siete gay. A me non frega nulla del vostro matrimonio perciò non mi metto a sindacare sui vostri odori e polluzioni notturne. Semplicemente siete invidiosi, perché si può vivere felicemente anche senza il vostro moralismo dissennato, senza ipocrisia, dando ascolto ai propri sentimenti. Siete rosi dall'invidia di vedere gli altri felici, avete l'animo arso da una falsa morale che vi impedisce di gioire per il benessere altrui. Mi fate schifo, siete una massa di ipocriti, ché se davvero vi stesse a cuore la famiglia fareste ben altre cose e sareste in grado di concepire l'amore in senso universale e non relativo al vostro metro quadro distorto. Siete degli ignoranti con la patente master in perculaggine, e di questo ne sono certa: vi siete mai presi la briga di leggere il testo della legge in questione? Avete capito il senso della stepchild adoption? Ne avete compreso il significato? Dove cazzo avete letto di vendite di bambini, di utero in affitto e di altre boiate partorite dal primo demagogo populista che è passato sulla TV di stato? Cosa vi disturba? Vedere gli omosessuali felici e palesare la loro unione? Davvero vi tocca il destino dei bambini? Da quando? Davvero siete sicuri che un bambino ha bisogno di un padre e di una madre? Io vi butterei a calci nel culo dentro le comunità per minori dove ho lavorato per farvi vedere di cosa ha bisogno un bambino per crescere. Quei bambini io li darei in adozione a chiunque volesse amarli, a tutti, single, maschi, femmine, ibridi, perché un bambino per crescere ha bisogno di essere AMATO, e voi non li avete mai visti quei bambini, e neanche avete il coraggio di guardarli negli occhi perché vi sputerebbero in faccia il loro catarro ruvido contro il vostro buonismo fecale. Ma a VOI, cosa cambia se a me piace leccare un pisello o una patata? Indipendentemente che sono tutti ortaggi, ma credete che il mio orientamento sessuale incida sul mio essere una buona mamma? Io non ho figli, ma ho centinaia di ragazzi, tutti quei figli che sono il frutto inguardabile di questa schifosa società, perché per scelta mi occupo dei figli degli altri, e li amo, tutti, uno per uno, li adoro come fossero miei figli, e io vi auguro di voler bene ai vostri figli almeno la metà di quanto io ne voglio ai miei ragazzi: sarebbero ragazzi fortunati, perché se è facile e naturale amare i propri figli, non lo è altrettanto amare i figli sfigati degli altri. E sono una buona madre, indipendentemente dal fatto che mi piaccia il volatile o la Bernarda. Siete solo degli odiosi ignoranti che guardano le piume sul collo altrui e non vi curate delle travi adagiate mollemente nel vostro pertugio anale, politicanti che volteggiano spudoratamente, peggio delle bandiere del Vittoriano. Morirete con l'onta di aver negato dei diritti ai vostri simili, e no, non avete protetto né la famiglia tradizionale e neanche i bambini, semplicemente perché la famiglia tradizionale non esiste e non è mai esistita se non nelle vostre menti malate, e a quei bambini avete tolto la certezza di una famiglia che li ama. Morirete annegati nel vostro bigottismo, ma morirete vedendo persone comunque felici, anche senza il vostro benestare. Perché omosessuali e lesbiche continueranno ad amarsi, a dispetto delle vostre imposizioni e galere mentali.
Non potrete MAI impedire agli altri di essere felici e di amarsi liberamente. E no, io non sono lesbica. E non sono neanche eterosessuale. Semplicemente io AMO, e mi innamoro delle persone bianche, nere, viola, cazzute, patatone, froci, imbecilli o col calzino di spugna sotto i sandali. E no, io non mi vanto di avere amici gay perché io non ho amici gay. Io ho giusto qualche amico che si dichiara eterosessuale, il resto sono amici che amano chi gli pare e a me non mi frega di chi sono innamorati, con chi dividono il letto o il deretano. A me tange che i miei amici siano felici.  Ma voi, VOI, siete solo degli invidiosi egoisti, convinti che il proprio modello sia quello giusto. Ve lo dico chiaramente: a me il vostro modello fa cagare a spruzzo, voi, le vostre corna, i vostri vincoli, la vostra puzza di stantio, le vostre scopate procreative e le vostre preghiere per lavare i vostri peccati inconfessabili in camera da letto. Che stolti! Ché tanto avete una vita sola, cercate di non sprecarla nell'odiare gli altri. Tanto morirete anche voi, perciò amate se vi riesce, innamoratevi di chiunque: sarà l'unica cosa che vi farà sorridere e gioire quando sarete a un passo da una cassa di legno contornata da cipressi. E trombate di più.                             
PS: per me niente cassa di legno con cipresso incluso, grazie. Non vorrei che la mia salma venisse esposta o trasportata da chiesa in chiesa come un fenomeno da baraccone. Preferirei una cremata e via, al cioccolato possibilmente: che almeno potrò servire a farcire qualche bignè.